sabato 19 novembre 2011

Non è importante essere felice, ma compiere il proprio destino. Ricordo di Gertrud Kolmar

Gertrud Kolmar ( 10.12.1894 – marzo 1943) cresce a Berlino in una famiglia della borghesia ebrea. Come tanti altri ebrei assimilati, scopre la sua fede e l’appartenenza al suo popolo proprio nel momento in cui cominciano le persecuzioni razziali.

Il raggio della sua vita, già volutamente ristretto, diminuisce sempre di più, mentre, nella stessa misura in cui le viene negato il mondo esteriore, Kolmar trova dentro di sé tutta la pienezza: un ampio universo del reale e del surreale, del tragico e del barocco, una fonte inesauribile di vita e di forti sentimenti.

La sua poesia, perfino negli anni Venti, quando per un breve periodo ebbe un discreto successo, non si piegò mai ai gusti letterari del suo tempo, ma fu sempre la massima espressione di una vasta e incorruttibile libertà interiore.

Kolmar, che in seguito ad una drammatica storia d’amore non si era sposata, visse per tutta la vita con i propri genitori. Quando, nei tardi anni Trenta, le si presenta la possibilità di fuggire dalla Germania nazista, sceglie di rimanere col suo vecchio padre a Berlino. Vive lucidamente tutte le tappe, dalla emarginazione alla discriminazione, fino all’ultima conseguenza: la deportazione ad Auschwitz nel marzo del ’43 dove si perdono le sue tracce.

Gertrud Kolmar non si oppone, ma vive il crudele destino del suo popolo con fierezza come un vero olocausto, un sacrificio cioè. Alla sorella Hilde, emigrata in Svizzera, scrive poco prima della sua morte che non è importante essere felice, ma compiere il proprio destino.

Come Etty Hillesum, sorella nello spirito, anche Gertrud Kolmar colse nella terribilità della sua sorte la possibilità liberatoria di sfidare se stessa fino in fondo, intensificando, in un arco di tempo relativamente breve, la propria esistenza, in modo tale che la morte non poteva più minacciare una tale ricchezza.


Das Tier

Komm her. Und siehe meinen Tod, und siehe dieses


ewige Ach,


Die letzte Welle, die verläuft, durchzitternd meinen


Flaus,


Und wisse, daß mein Fuß bekrallt und daß er flüchtig


war und schwach,


Und frag nicht, ob ich Hase sei, das Eichhorn, eine


Maus.


Denn dies ist gleich. Wohl bin ich dir nur immer böse


oder gut;


Der Willkürherrscher heißest du, der das Gesetz erdenkt,


Der das nach seinen Gliedern mißt wie seinen Mantel,


seinen Hut.


Und in den Mauern seiner Stadt den Fremdling drückt


und kränkt.


Die Menschen, die du einst zerfetzt: an ihren Gräbern


liegst du stumm;


Sie wurden leidend Heilige, die goldnes Mal verschloß,


Du trägst der toten Mutter Haut und hängst sie deinem


Kinde um,


Schenkst Spielwerk, das der blutigen Stirn Gemarteter


entsproß.


Denn lebend sind wir Vieh und Wild; wir fallen:


Beute, Fleisch und Fraß –


Kein Meerestau, kein Erdenkorn, das rückhaltlos ihr


gönnt.


Mit Höll und Himmel schlaft ihr ein; wenn wir


verrecken , sind wir Aas,


Ihr aber klagt den Gram, daß ihr uns nicht mehr


morden könnt.


Einst gab ich meine Bilder her, zu denen du gebetet


hast,


Bis du den Menschengott erkannt, der nicht mehr


Tiergott blieb,


Und meinen Nachwuchs ausgemerzt und meinem Quell


in Stein gefaßt


Und eines Höchsten Satz genannt, was deine Gierde


schrieb.


Und hast die Hoffnung und den Stolz, das Jenseits, hast


noch Lohn zum Leid,


Der, unantastbar dazusein, in deine Seele flieht;


Ich aber dulde tausendfach, im Federhemd, im


Schuppenkleid,


Und bin der Teppich, wenn du weinst, darauf dein


Jammer kniet.

 L’animale

Vieni qui. E vedi la mia morte e vedi questo


eterno patire,


L’ultima onda che tremando si perde sul mio


pelo,


E sappi che il mio piede con gli artigli fu


debole e sfuggente,


E non chiedere se sono lepre, scoiattolo, o


topo.


Perché non importa. Sempre ti voglio male


o bene;


Sei il tiranno che inventa la legge,


E la misura secondo le sue membra, come fosse il suo mantello,


il suo cappello.


E tra le mura della sua città lo straniero


stringe e offende.


Muto ti adagi sulle tombe degli uomini


fatti a pezzi da te;


Soffrendo, diventarono santi, cinti d’oro.


Porti la pelle della madre morta e la metti addosso


a tuo figlio,


Regali giochi sbocciati dalla fronte insanguinata


dei torturati.


Perché in vita siamo bestiame e selvaggina; cadiamo:


preda, carne e pasto –


Non rugiada di mare, né raccolto di terra che voi senza riserva


concedete.


Con l’inferno ed il cielo vi addormentate; quando


crepiamo siamo carogne,


Ma il vostro cruccio è che non ci potete più


ammazzare.


A chi un tempo pregasti, io diedi le mie


immagini,


Finché riconoscesti il dio dell’uomo, non più


il dio degli animali,


Ed estirpasti la mia prole e chiudesti tra pietre


la mia fonte


E ciò che scrisse la tua brama chiamasti


una frase dell’Altissimo.


E tu hai la speranza, l’orgoglio e l’al di là, e ancora hai


del soffrire la ricompensa


Che si rifugia inviolabile nella tua anima;


Ma in una veste di piume e squame, io sopporto


mille volte,


E se tu piangi, sono il tappeto, sopra cui s’inginocchia


la tua pena.

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