domenica 21 aprile 2013

Regina Elena di Romania, madre del re Michele I, salvò ebrei dalla deportazione


Regina Mama Elena si printul Mihai
Regina Madre Elena e i principe Michele 
Non si può dimenticare e non ricordare la figura di Elena di Grecia e Danimarca, Principessa di Parma e Regina di Romania. Terzogenita del Re Costantino I di Grecia e di Sofia di Prussia. Il 10 Marzo 1921 sposòCarlo futuro Re di Romania; da questa unione nacque Michele I attuale capo della casa reale romena.
 Regina Elena fu reggente al trono romeno dal 1927 al 1930 e successivamente sempre accanto al figlio Michele quando quest’ultimo ascese al trono e fino al 31 Dicembre 1947 quando, dopo una umiliante perquisizione, la famiglia reale fu costretta a lasciare il suolo romeno per l’esilio.
Un episodio che dimostra la particolare umanità di questa donna è anche legato alla storia italiana e alla tragica sorte di Mafalda di Savoia. Infatti, nel settembre del 1943, alla firma dell’armistizio con gli alleati, i tedeschi organizzarono il disarmo delle truppe italiane. Badoglio e il Re Vittorio Emanuele IIIripararono al Sud, ma Mafalda , partita per Sofia per assistere la sorella Giovanna, il cui marito Boris III di Bulgaria era in fin di vita , non venne messa al corrente dei pericoli che poteva incorrere una volta rientrata in Italia. Durante il viaggio di ritorno verso l’Italia, la Regina Elena di Romania fece fermare appositamente il convoglio reale (a Sinaia) per offrire protezione a Mafalda di Savoia cercando di farla desistere dal rientrare in Italia. Mafalda decide di non accettare l’offerta e volle proseguire per la penisola e per il suo triste destino.
Non di meno fu il suo atteggiamento nei confronti della comunità ebraica romena, negli anni difficili  del regime di Antonescu; la regina madre Elena si adoperò per la salvezza di migliaia di ebrei, in particolar modo assieme a Traian Popovici, sindaco di Cernăuți (oggi Chernivtsi in Ucraina), la deportazione della locale comunità ebraica e protesse anche coloro che erano stati deportati dal regime nella Trasnistria.
Per questo comportamento nel 1993 , undici anni dopo la morte, la Regina Madre di Romania, Elena di Grecia è stata insignita del titolo di “Giusta fra i popoli “ dallo Stato di Israele e il suo nome figura nel monumentale Yad Vashem di Gerusalemme assieme agli altri 60 Romeni che si adoperarono per salvare gli ebrei negli anni bui dell’odio antisemita.
Regina Elena di Romania
Regina Elena di Romania





























Gli ebrei stimati dalle autorità in Bucovina e Bessarabiaammontavano a circa 185.000. Di questi 10.000 vennero uccisi nei pogrom, 7.000 morirono nei campi di transito per la fame, il tifo e i maltrattamenti, altri 10.000 vennero eliminati quando già erano stati trasferiti dall’altra parte del Dniester. Al 1° settembre 1941 ne rimanevano 156.000.
Le operazioni di deportazioni concordate con i tedeschi comportarono lo spostamento forzato di 118.847 ebrei che riuscirono ad attraversare vivi il Dniester mentre altri 17.577 morirono durante la traversata. Secondo i calcoli delle autorità romene rimanevano in Bucovina e Bessarabia al 20 maggio 1942 19.576 ebrei.

 [...]


A Cernauti si ingaggiò una lotta per salvare il maggior numero di ebrei. Il protagonista di questo tentativo di salvataggio fu il sindaco della città Traian Popovici che, insieme alla regina madre Elena cercò di fermare le deportazioni da Cernauti. I disperati tentativi di Popovici riuscirono a impedire – per una parte solo momentaneamente – la partenza di 20.000 persone.
Nel mezzo delle deportazioni Wilhelm Filderman, capo della Comunità ebraica romena scrisse una disperata lettera ad Antonescu per implorare la cessazione delle deportazioni. Gli giunse soltanto una lunga risposta sprezzante.

Il libro
“A seguito delle deportazioni e delle uccisioni che li accompagnarono, la Regina Madre di Romania, la Regina Elena, fece ripetuti sforzi per far sì che gli ebrei fossero riportati indietro dagli estremi pericoli dei campi di lavoro e di concentramento nei quali erano stati internati. […] Quando apprese dell’invocazione di aiuto da parte dei deportati, immediatamente mandò loro del cibo – mentre più di un terzo dei deportati moriva di fame. Nell’ottobre del 1942, quando ancora un altro gruppo di ebrei era in procinto di essere deportato, uno di loro, il famoso filologo romeno Barbu Lazareanu, chiese a un ben noto medico, Victor Gomoiu, di aiutarlo. Il medico conosceva la Regina Elena e si rivolse a lei. Si racconta che la regina disse a suo figlio Mihai, che era succeduto a suo padre come re, che avrebbe lasciato il Paese se questa nuova deportazione avesse avuto luogo. Mihai assicurò il rilascio degli ebrei.” (pag. 238). (Informazioni fornite da Pearl Fichman, lettera all’autore, 19 marzo 2001.) Tratto dal  Libro I giusti. Gli eroi sconosciuti dell’olocausto, di Martin Gilbert.

Sofija Binkiene


Zia Sofia, riferimento sicuro degli ebrei lituani

Sofija Binkienė, nata Kudreviciute, è stata data alla luce il 24 settembre 1902 a Balsiai in Lituania.
Dopo gli studi liceali a Oryol iniziò a lavorare come insegnante.
Nel 1930 andò a vivere a Kaunas con il marito, il poeta lituano Kazys Binkis. Prima della guerra Sofija lavorava come giornalista nell’agenzia di stampa lituana Elta.
Sofija Binkiene
Si preparavano tempi difficili per il paese, infatti, in seguito agli accordi segreti tra Molotov e von Ribbentrop, del 23 agosto 1939, la Lituania perse l’indipendenza e divenne parte dell’Unione Sovietica.
Il 22 giugno del 1941 l’esercito tedesco invadeva e occupava il paese.
La persecuzione contro gli ebrei scattò immediatamente, con una violenza e una brutalità inaudite. Sofija, il marito, che sarebbe morto di malattia pochi mesi dopo, nell’aprile del 1942, i quattro figli e il genero Vladas Varčikas, marito di Lilijana, si prodigarono per la salvezza degli ebrei perseguitati. La loro casa di Kaunas diventò il riferimento per quanti scappavano dal ghetto. I fuggitivi rimanevano a lungo nella casa della famiglia Binkis, almeno fino a quando non riuscivano a trovare un altro nascondiglio sicuro. Anche Paulo Slavenas, uno dei migliori amici del marito di Sofija, portò molte volte conforto e coraggio a coloro che erano ospitati nella loro casa. Un ruolo importante ebbe anche Bronius Gotautas, un minore francescano che riusciva a procurare documenti, certificati, sigilli e firme e a trovare nuovi nascondigli per gli ebrei del ghetto di Kaunas. In questo modo furono salvati Gita Judelevičiūtė, Raja Judelevičienė, Pesia Melamed, Mironas Ginkas, Fruma-Mania Ginkienė, Kama Ginkas, Sonia Ginkaitė-Šabadienė, Beba Šatenstein-Taborisky, Gutia Šmuklerytė, Roza Stenderienė, Adina Segal, Samuelis Segalis, Dmitrij Gelpern, Meyer Yelin e molti altri. Nel 1967 a Sofija Binkienė, che i salvati chiamavano “Zia Zose”, fu conferito il titolo di “Giusta delle Nazioni” da Yad Vashem.

Morì a Vilnius il 5 aprile 1984. 

Il giorno del suo funerale il giornale israeliano “Il nostro Paese” pubblicò un necrologio firmato dai “salvati” da Sofija Binkienė
In un passaggio si ricorda come nella sua casa essi avessero trovato non solo un rifugio, ma anche coraggio e speranza: Ancora non capiamo come Sofija Binkienė potesse nutrire tanti affamati e diseredati con le sue risorse modeste. Un giorno l’abbiamo trovata stesa sul pavimento perché aveva dato il suo letto a una donna che era appena scappata dal ghetto. Cara “ Zia Zose” sarai sempre per noi il simbolo di quei coraggiosi e nobili lituani che non hanno avuto paura di sfidare, disarmati, i carnefici di Hitler”. 
Nel 1974 il frate francescano Bronius Gotautas fu insignito del titolo di Giusto da Yad Vashem. Quattordici anni più tardi lo saranno anche il marito di Sofija, Kazys Binkis, i loro quattro figli Irena, Gerdas, Eleonora e Liliana e il genero Vladas Varčikas.

Giovanni e Regina Bettin


Coniugi padovani contro il genocidio ebraico

Giovanni Bettin (Mellaredo di Pianiga - Venezia, 30 giugno 1898 - 15 settembre 1995).
Regina Gentilin (Cazzago di Pianiga, 12 luglio 1903 - 7 luglio 1986).

Giovanni Bettin si sposò nel 1923 con Regina Gentilin, nata a Cazzago di Pianiga il 12 luglio 1903.
Nel settembre 1943 Regina gestiva una trattoria a Padova in Borgo S. Croce, mentre Giovanni lavorava come operaio alle officine La Stanga. Avevano due figli, Egidio e Dalmina, di diciotto e undici anni.
Regina era stata la balia di Lia Sacerdoti ed era rimasta affezionata a tutta la famiglia, composta da papà Edmondo e mamma Gabriella Oreffice, e dai figli Lia, all'epoca undicenne, e dal piccolo Michele di otto anni.
Regina e Giovanni Bettin
I Sacerdoti, dopo il 10 settembre, erano nella loro casa veneziana al Lido, quando i tedeschi intimarono al prof. Giuseppe Jona, Presidente della comunità israelitica, di consegnare l'elenco degli ebrei residenti, ma questi si suicidò per non accondiscendere alla richiesta.
In quei frangenti terribili, Regina assistette casualmente alla sosta in stazione a Padova, il 19 ottobre, del convoglio diretto ad Auschwitz-Birkenau, su cui, in diciotto carri bestiame, erano stipati in condizioni inimmaginabili gli ebrei romani catturati a Roma tre giorni prima.
Regina si mise in contatto con i Sacerdoti e si offrì di tenere con sé Lia e Michele.
I bambini furono ospitati dai Bettin, che li facevano passare per loro nipoti, prima a Padova e poi, per sfuggire ai bombardamenti, a Mellaredo.

Dopo varie traversie, Edmondo e Gabriella Sacerdoti riuscirono a procurarsi documenti d'identità falsi grazie a Torquato Frasson, esponente del Cln vicentino (poi deportato con il figlio diciottenne Franco a Mauthausen, dove entrambi morirono nel maggio del 1945) e successivamente trovarono un rifugio sicuro a Schio grazie all'avv. Dal Savio.
Il 16 giugno 1944 Lia e Michele, dopo otto mesi passati in casa Bettin, si ricongiunsero con i loro genitori che da una settimana erano anch'essi ospiti dei Bettin a Padova.
Il 4 ottobre 1994 Giovanni e Regina furono riconosciuti Giusti delle Nazioni da Yad Vashem. Regina non era presente: era mancata il 7 luglio 1986.
Giovanni ricevette l'onorificenza da un rappresentante del Governo israeliano, nella sua città, davanti ai suoi figli e nipoti. Si spense pochi mesi dopo, a novantasette anni, il 15 settembre 1995.

 A Giovanni e Regina Bettin è stata dedicata una pianta nel Giardino dei Giusti di Padova.

Salvò 30 ebrei, i Carabinieri ricordano il maresciallo Osman Carugno

Salvò 30 ebrei, i Carabinieri ricordano il maresciallo Osman Carugno

L'Arma di Rimini ricorda il Maresciallo Osman Carugno, comandante della Stazione dei Carabinieri di Bellaria insignito del riconoscimento internazionale "Giusto fra le nazioni" nel 1985



5 Marzo 2013. Salvò 30 ebrei, i Carabinieri ricordano il maresciallo Osman Carugno
L’Arma di Rimini ricorda il Maresciallo Osman Carugno, comandante della Stazione dei Carabinieri di Bellaria insignito del riconoscimento internazionale “Giusto fra le nazioni” – nel 1985 - poiché, durante la II guerra mondiale, insieme ad Ezio Giorgetti, un albergatore del luogo, aiutò un gruppo di 30 ebrei a sfuggire alle persecuzioni naziste. Nel settembre 1943 trentotto ebrei arrivano a Bellaria in cerca di un rifugio, per sfuggire alle persecuzioni nazi-fasciste. Dopo alcuni tentativi per trovare un alloggio, vengono accolti all'hotel Savoia, gestito da un giovane albergatore, Ezio Giorgetti. Non svelano subito la loro reale identità: si presentano come profughi italiani fuggiti di fronte al pericoli della guerra, come tanti altri presenti sulla riviera romagnola in quei difficili giorni.
Ezio Giorgetti, tuttavia, capisce presto che si tratta di ebrei in fuga, ma pur rendendosi conto dei gravissimi rischi a cui lui e sua moglie si espongono, accoglie il disperato appello di aiuto e, superando paure ed affrontando numerosi pericoli, insieme al Maresciallo dei Carabinieri Osman Carugno, assicura loro protezione fino alla liberazione, avvenuta alla fine di settembre del 1944. Il gruppo di Ebrei viene nascosto a Bellaria, a Igea Marina, a San Mauro, poi lungamente a Pugliano, nel Montefeltro. Le vicende di quel lungo anno di fuga sono anche la storia di piccole comunità che, senza fare troppe domande, sono disponibili ad offrire un aiuto immediato e concreto: sono in tanti infatti ad attivarsi per falsificare carte di identità e documenti, per reperire coperte ed alimenti, per cercare soluzioni ai mille problemi quotidiani di chi vive in clandestinità.
Ezio Giorgetti nel 1964 viene riconosciuto “Giusto tra le Nazioni”, primo italiano ad aver ricevuto questo onore, e nel 1985 il titolo di “Giusto” viene conferito anche al Maresciallo Carugno. Nel 1943, il Mar. Carugno era il Comandante della Stazione dei Carabinieri di Bellaria: la sua irreprensibile condotta professionale ed umana gli ha concesso di essere riconosciuto da Israele come “Giusto” nel 1985.
Di lui uno degli Ebrei salvato ricorda: “Carugno aiutò senza nessun compenso. All'inizio, come ci disse, compì il suo dovere, ma se ci avesse mandato fuori dalla zona di sua competenza, nessuno avrebbe potuto incolparlo di non aver comunque fatto il suo dovere, o di aver cooperato col nemico. Lui era un fedelissimo del Re ed eseguiva gli ordini senza esitare. Col tempo, fra lui e mio suocero si allacciò una vera amicizia. Il suo comportamento era da amico e non da uno che eseguiva ordini. Quando uscimmo dal territorio di sua competenza, lasciò tutto e venne ad aiutarci”
Sul Monte delle Rimembranze a Gerusalemme, a ricordare quelle persone che sono stati nominati “Giusti fra le Nazioni” per aver salvato da morte certa migliaia di Ebrei dalla persecuzione ed olocausto nazista furono piantate degli alberi di carrubo. Ebbene di questi “Giusti” 4 sono Carabinieri ed uno è stato il Comandante della Stazione di Bellaria (Rimini): il Maresciallo Osman Carugno.


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Il console fascista che salvò gli ebrei

La storia di Guelfo Zamboni

 
Guelfo Zamboni 

Un funzionario fascista che sceglie di disobbedire agli ordini, un uomo che comincia una battaglia personale per salvare gli ebrei di Salonicco dai campi di sterminio. In quella che è chiamata la Gerusalemme dei Balcani, il console Guelfo Zamboni aiuta gli ebrei italiani e procura anche carte d'identità false per permettere ai fuggiaschi di raggiungere Atene. Sono i mesi del 1943, quando i nazisti rastrellano «la più grande e prospera comunità sefardita d'Europa», come la ricorda lo storico Albertos Nar. 

La scelta di Zamboni, che nel 1992 ha ricevuto il titolo di Giusto per aver sottratto all'Olocausto 500 ebrei, va in scena oggi (in una serata organizzata dall'Istituto italiano di cultura) all'università di Tel Aviv. Ferdinando Ceriani, assistente di Maurizio Scaparro, dirige «Salonicco 43» (tra gli attori Massimo Wertmuller, canta Evelina Meghnagi), basato sul libro scritto da Antonio Ferrari, editorialista del Corriere della Sera, la docente Alessandra Coppola e il giornalista Jannis Chrisafis. L'attenzione sulla storia di Zamboni, studiata dallo storico israeliano Daniel Carpi, è stata riportata da Ferrari e dall'ambasciatore Gian Paolo Cavarai con una serie di incontri in Grecia nel 2006. 



La Schindler in gonnella


02/03/2012 - E’ morta oggi Tina Strobos, una delle persone che durante la guerra hanno messo in salvo gli ebrei rischiando la vita Si è spenta a Rye (N.Y.) vittima di una metastasi, una signora olandese che nel 1989 è stata iscritta

Si è spenta a Rye (N.Y.) vittima di una metastasi, una signora olandese che nel 1989 è stata iscritta nell’elenco dei Giusti delle Nazioni al museo dello Yad Vashem a Gerusalemme, il memoriale dell’Olocausto.
Si chiamava Tina Strobos e durante la seconda guerra mondiale la donna insieme alla famiglia si unì alla resistenza olandese e insieme salvarono più di cento olandesi di religione ebraica dalla deportazione, ospitandoli nella soffitta di casa. Per capire quando sia stata pericolosa la sua attività e rendersi conto di quanto fosse determinato ed efficiente il rastrellamento degli abrei in Olanda, basta sapere che i nazisti riuscirono a uccidere l’80% dei 140.000 ebrei olandesi, tra i quali anche Anna Frank, che fu denunciata ai tedeschi e catturata insieme all’intera famiglia, di cui sopravviverà solo il padre.
LA RESISTENZA - Ha esordito nella resistenza olandese a 20 anni, studentessa di psicologia faceva la staffetta in bicicletta, poi quando la resistenza armata divenne impraticabile, la sua intera famiglia trasformo la sua casa nel centro di Amsterdam nella prima tappa di una fuga sempre difficile e pericolosa. Servivano documenti falsi per sfuggire sotto il naso dei tedeschi in un paese privo di foreste e montagne dov’è facile controllare ogni movimento e gli Strobos arrivarono ad arruolare alla causa i borsaioli della stazione che donavano i documenti per loro inutili trovati nei portafogli rubati.
I MOTIVI – “Non ho mai creduto in Dio, ma ho sempre creduto nella sacralità della vita umana” ripeteva a chi le chiedeva di cosa avesse spinto lei e la sua famiglia a rischiare la vita per degli sconosciuti, ai quali diceva anche di aver dimenticato la maggior parte degli avvenimenti che ebbero luogo in quella soffitta. Sosteneva di averli voluti dimenticare inconsciamente, quasi che con la fine della guerra la sua memoria avesse voluto chiudere per sempre la porta di quella soffitta.

I militari dell’Esercito Italiano che hanno ricevuto l’onorificenza



BENEDETTO DE BENI
BENEDETTO DE BENI
Capitano d’artiglieria, nato a Cosermano, in provincia di Verona, nel 1903, prestava servizio in Ucraina, a Voroshilovgrad, quando arrivarono i tedeschi il 17 luglio 1942.
A seguito delle persecuzioni naziste, gli italiani diedero rifugio nella loro base alle sorelle Turok, che impiegate nella cucina, seguirono l’Esercito Italiano fino alla linea del fronte. Nella primavera del 1943 aggregate alle truppe italiane, per volere del Gen. Giglio, riuscirono a entrare in Italia.
Arrivate qui, le sorelle Sara e Rachel Turok, grazie a una lettera del Cap. De Beni, trovarono ospitalità, vicino Bergamo, presso la sua famiglia.
Il Capitano deportato in un campo di concentramento tedesco e rientrato in Italia solo a fine guerra è stato riconosciuto “Giusto tra le Nazioni” l’8 settembre del 1996.


ARTURO GATTI
ARTURO GATTI
Ufficiale medico, con il grado di Maggiore, di stanza a Karlovac nell’ex Jugoslavia durante la seconda guerra mondiale.
In tale veste, portò soccorso a numerosi ebrei che tentavano di valicare il confine tra lo Stato indipendente di Croazia e la zona occupata dall’Esercito Italiano, prestando, inoltre, cure mediche gratuite agli ebrei che ne avevano bisogno.
Salvò una famiglia ebrea di Karlovac fornendo loro falsi documenti e trasportandone alcuni a Trieste su una autoambulanza militare.
Morto nel 1970 è stato riconosciuto come “Giusto tra le Nazioni” il 25 giugno 1991.





RINALDO ARNALDI
RINALDO ARNALDI
Nato a Dueville il 19 giugno 1914 e conseguita la laurea in Economia e Commercio a Venezia nel 1940, Arnaldi volle diventare carrista per amore di patria. All’armistizio del settembre 1943, passò nella Resistenza.
Uomo d’azione, tentò la strada di Pescara e quella della Dalmazia per collegarsi col Regno del sud, e percorse più volte quella della Svizzera per accompagnare Ufficiali e soldati alleati fuggiaschi o anziani ebrei perseguitati.
E’ stato insignito della Medaglia d’Oro al Valor Militare con la seguente motivazione: “Per indomita volontà di fiero italiano, subito dopo l’8 settembre 1943 raccolse intorno a sé tra i monti della terra nativa, i giovani anelanti di redimere la Patria oppressa. Organizzatore instancabile e trascinatore entusiasta, fu l’anima ardente della sua brigata e seppe guidare i suoi uomini in aspri cimenti, rifulgendo per insigne coraggio e per sprezzo del pericolo. Molti perseguitati politici e militari alleati evasi dalla prigionia e braccati dal nemico devono la propria salvezza al suo altruismo ed alla sua abnegazione. Sugli spalti di Granezza, titano insuperabile, sosteneva per lunghe ore aspro combattimento e lanciava i suoi partigiani in temerari assalti. Colpito al cuore si accasciava sull’arma arroventata, leggendario eroe, uno contro mille, non vinto che dalla morte e dalla gloria.”
Riconosciuto “Giusto tra le Nazioni” il 3 gennaio 1983.



FOSCO ANNONI
FOSCO ANNONI
Militare in servizio presso il Quartier Generale italiano di Leopoli (Ucraina) salvò la vita a Klara Rosenfeld, impiegata come donna delle pulizie nella caserma italiana. Nel maggio del 1943, durante le azioni antiebraiche, Klara, rimasta senza la sua famiglia, decise di chiedere aiuto ai soldati italiani che la nascosero prima in una soffitta e poi in un magazzino della caserma. Quando nel 1943 il contingente italiano ebbe l’ordine di rientrare in patria, alcuni militari - fra cui un ufficiale, di cui non si sa il nome – non vollero abbandonarla, tenendola nascosta per due settimane. Successivamente fu portata, vestita da soldato italiano, alla stazione ferroviaria e nascosta dietro casse di munizioni.
Arrivata in Italia, grazie all’indirizzo fornitole da Fosco, raggiunse la famiglia Annoni, a Parma, dalla quale fu trasferita, con una falsa identità, al convento di Traversatolo.
Fosco Annoni è stato riconosciuto Giusto delle Nazioni il 18 marzo 1993.


GIUSEPPE AZZALI
GIUSEPPE AZZALI
Nato a Parma nel 1891, laureatosi al Politecnico di Torino in Ingegneria Idraulica, è stato Colonnello dell’Esercito.
Insieme alla sorella Corinna, ha salvato Serenella e Amalia Foà, figlie del compagno di studi Aldo, dandogli ospitalità e presentandole come sfollate da Napoli.
Riconosciuto “Giusto tra la Nazioni” il 2 giugno 2003

STORIE DI GIUSTI DALL'UNIONE SOVIETICA


È singolare che l’Unione Sovietica – pur essendo riconosciuta come un’area ad altissima concentrazione di ebrei e come il teatro del loro sterminio di massa – sia rimasta per molto tempo un territorio ampiamente inesplorato nella storia della Shoah. Mancano, in particolare, dati precisi sugli ebrei che, in modo spesso fortunoso, riuscirono a scappare dai luoghi degli eccidi, talvolta riemergendo letteralmente dalle fosse comuni, o ad evadere dai ghetti e dai campi d’internamento. Per sopravvivere, i fuggitivi dovevano celare la propria identità e allontanarsi il più possibile da località in cui avrebbero potuto essere facilmente riconosciuti; procurarsi dei falsi documenti d’identità che comprovassero la loro non ebraicità; trovare dei mezzi di sussistenza, assicurarsi un rifugio e, possibilmente, ottenere un lavoro. Tutto ciò poteva realizzarsi solo con il sostegno della popolazione locale. 

È difficile scrivere oggi la storia degli uomini e delle donne che agirono secondo giustizia sotto l’occupazione nazista in territorio sovietico. Per decenni le loro scelte sono state pressoché ignorate a causa dell’occultamento della Shoah da parte delle autorità comuniste. Non solo le vittime ebree furono accomunate e confuse con l’insieme delle vittime sovietiche, ma ogni tentativo in senso contrario fu tacciato di favoreggiamento del “sionismo”. A partire dagli novanta le restrizioni sono però venute in gran parte a cadere e si sono potute avviare indagini più ampie sulla consistenza del soccorso e del salvataggio. Un primo risultato è stato quello d’incrementare in modo considerevole il numero dei riconoscimenti per coloro che aiutarono gli ebrei a sfuggire ai nazisti e ai loro collaboratori. Il titolo di Giusti tra le Nazioni, alla data del 1° gennaio 2012, è così attribuito:

Ucraini     2.402
Lituani        831
Bielorussi        569
Russi        179
Lettoni        132
Moldavi          79
Armeni          21
Estoni            3
------------------------------------------
totale      4.216


Furono dunque migliaia le persone che, nelle più diverse regioni, rischiarono la propria vitaper soccorrere vicini di casa, amici, semplici conoscenti o profughi del tutto sconosciuti, nascondendo nelle cantine singoli individui o intere famiglie, fornendo cibo e abiti, prestando assistenza ai feriti e ai malati. Si trattò quasi sempre dell’iniziativa di singoli individui, che agivano in modo spontaneo e non organizzato, perlomeno nelle loro prime improvvisate azioni, riuscendo a superare i pregiudizi dell’ambiente circostante e le pressioni della propaganda tedesca. Molti furono coloro che salvarono dei bambini su richiesta dei genitori naturali, facendoli passare per propri figli. Spesso si formarono delle vere e proprie catene di solidarietà, grazie alle quali i fuggiaschi passavano di casa in casa. Talvolta, queste spontanee fratellanze si tramutavano in gruppi clandestini di resistenza, che mantenevano una struttura familiare appena allargata e organizzavano attacchi alle carceri delle città o “rubavano” gli internati dai ghetti. Frequenti furono le attività di produzione di documenti falsi, per decine e decine di persone. È superfluo ricordare che la minaccia della morte incombeva – come scrisse una testimone – «per ogni parola di pietà, per ogni sguardo compassionevole, per ogni sorso d’acqua e ogni crosta di pane». Nell’impossibilità di ricostruire una mappa anche solo approssimativa delle migliaia di azioni di salvataggio, si possono qui ricordare alcuni casi esemplari per evidenziare la molteplicità delle forme e ragioni dell’aiuto, così come la loro disseminazione geografica. 

A Riga, furono molti i lettoni e i russi che si prodigarono per mettere in salvo degli ebrei. Il caso più noto è quello del lettone Jānis Lipke, che sin dai primi giorni di esistenza del ghetto si adoperò per farne evadere gli internati e trovare loro un nascondiglio. All’origine della sua scelta vi era il fatto di aver assistito, insieme al figlio di otto anni, al massacro di migliaia di ebrei nei primi giorni di dicembre del 1941. Perciò egli lasciò il suo posto di scaricatore di porto per lavorare in una impresa  al servizio della Luftwaffe. Approfittando delle mansioni di sorvegliante della manodopera condotta quotidianamente fuori dal ghetto, durante i tre anni dell’occupazione, con l’aiuto della famiglia e di un gruppo di amici, riuscì a nascondere in vari luoghi 42 persone, permettendone la sopravvivenza. Dopo la guerra dovette affrontare l’ostilità dei vicini e dei compatrioti, che lo consideravano un traditore, se non addirittura un mezzo ebreo. Nel 1966, lo Yad Vashem lo ha riconosciuto Giusto tra le Nazioni, insieme alla moglie Johanna.

A Kaunas, la dottoressa lituana Elena Kutorgiene-Buivydaite, autrice di un diario esemplare per dignità e passione civile, mantenne stretti contatti con ebrei: li ospitò nella propria abitazione, trovò loro rifugi più sicuri o li fece espatriare, custodì oggetti di valore e ne favorì la vendita. Prestò anche aiuto sanitario all’interno del ghetto della città, riuscendo a farvi pervenire quasi ogni giorno il cibo che riceveva attraverso i propri pazienti, e cooperò con il movimento clandestino. Fu denunciata dai vicini e sottoposta a perquisizioni notturne e interrogatori, ma riuscì ad essere rilasciata dopo aver sottoscritto un documento in cui s’impegnava ad astenersi da ogni contatto con gli ebrei. Dopo di che continuò ad intrattenere le sue relazioni pericolose. Dopo la liberazione, nell’agosto del 1944, lavorò per la commissione d’inchiesta sui crimini di guerra tedeschi. Nel 1982 le è stata attribuito il titolo di Giusta tra le Nazioni, insieme al figlio Viktoras. La bibliotecaria Ona Simaite prestò invece soccorso agli ebrei di Vilnius e si recò spesso all’interno del ghetto non solo per scopi umanitari, ma anche per collaborare al salvataggio dei tesori (libri e manoscritti) della famosa raccolta Strashun. Arrestata per aver aiutato e ospitato dei fuggiaschi, fu brutalmente torturata e deportata a Dachau. In seguito fu trasferita in un campo nel sud della Francia, dove fu liberata dagli americani nell’agosto del 1944. È stata riconosciuta Giusta tra le Nazioni nel 1966. 

Anche negli ambienti ecclesiastici si contarono innumerevoli azioni concrete a favore degli ebrei. A Kiev, il sacerdote Aleksej A. Glagolev nascose diversi ebrei che erano scampati agli eccidi di Babij Jar e avevano chiesto il suo aiuto, ospitandoli nel piccolo edificio contiguo alla parrocchia. Fornì loro falsi documenti d’identità, in particolare certificati di battesimo, ma anche attestazioni con la qualifica di corista, sagrestano, custode, senza che i tedeschi si rendessero conto del fatto che una chiesa piccola e piuttosto povera come la sua non poteva avere alla proprie dipendenze un così numeroso personale. Glagolev è stato riconosciuto Giusto tra le Nazioni nel 1991, insieme alla moglie Tatjana e alla figlia Magdalina. 

In Bielorussia, un punto di riferimento per esuli e fuggiaschi fu il contadino Konstantin (Kostik) Kozlowski, a cui è stato attribuito il titolo di Giusto tra le Nazioni nel 1994, insieme ai figli Gennadi e Vladimir. Avendo vissuto e lavorato per molti anni con un calzolaio ebreo, Koslowski parlava bene yiddish, cosa che gli consentì di assumere un ruolo d’intermediario con i partigiani della brigata dei fratelli Belski, ai quali era legato fin dall’infanzia. Non solo fece loro da guida e da corriere, ma mise a disposizione la sua casa come base dei profughi ed entrò anche a più riprese nel ghetto di Novogrudok per preparare le evasioni e accompagnare i fuggitivi nei boschi. La famiglia (era vedovo con cinque figli) condivideva le sue azioni e uno dei fratelli, che collaborava come poliziotto con gli occupanti, ben presto iniziò a fornire volontariamente informazioni preziose ai clandestini. 

Sono solo alcuni esempi di «una piccola bontà senza ideologia, che possiamo chiamare bontà insensata» (Vasilij Grossman).

Salvarono bambino ebreo I coniugi Gardin fra i giusti

Elisabetta e Pietro nascosero per mesi a casa loro un ragazzino di 10 anni La figlia Maria Luisa, vedova Danesin, riceverà la medaglia conferita da Israele



Una bella storia di generosità e amore quella che ha coinvolto le vite dei suoi genitori e del piccolo bimbo ebreo.
« I miei genitori hanno salvato la vita di quel bambino che doveva nascondersi e scappare dai tedeschi».
Come è avvenuto l'incontro tra la sua famiglia e quella di Luigi Rovighi?
«Mio padre Pietro era un imprenditore molto intraprendente. Aveva deciso di aprire una fabbrica a Bolzano. In quel periodo c'erano delle agevolazioni e lui ha voluto approfittare dell'occasione per avviare un'impresa. Mio padre aveva aperto la fabbrica grazie al lavoro del signor Rovighi. Lui era un ingegnere molto in gamba e si era occupato di tutti i calcoli».
In che modo i suoi genitori hanno salvato la vita del bimbo?
Luigi era figlio dell’ingegnere. Erano gli anni della guerra, '42-'43, e i tedeschi in quel periodo prelevavano i padri di famiglia ebrei. Se non trovavano il padre, portavano via il primo figlio maschio. Il padre di Luigi era riuscito a mettersi in salvo ma a casa restavano ancora la moglie con i due figli: un maschio e una femmina. Mia madre stava passeggiando per Bolzano quando ha incontrato la madre di Luigi: era disperata, aveva paura che le portassero via il figlio».
Sua madre cosa ha fatto?
« Mia madre non ha esitato e con mio padre ha detto alla signora Rovighi che avrebbero nascosto loro Luigi. Lo hanno portato a Caerano dove vivevano i miei nonni materni e dove anche io e mio fratello ci eravamo trasferiti per scampare alla guerra».
Che ricordo ha del giorno in cui ha incontrato Luigi?
«Era spaventato. Aveva intrapreso un viaggio spaventoso per venire a Caerano. Il furgone che lo trasportava è stato fermato moltissime volte e lui aveva paura di essere scoperto. Luigi era molto più consapevole di me e di quello che succedeva intorno a noi: aveva 10 anni ».
Come hanno spiegato a lei e a suo fratello l'arrivo del piccolo Luigi?
«Mio padre non ci ha spiegato nulla. Però ci aveva istruito bene: dovevamo dire che quel bambino era un nostro cugino di Mussolente. Ma la regola fondamentale prevedeva di non farlo uscire di casa. Mi sento ancora in colpa perchè io e Gian Maria ( il fratello di Maria Luisa, ndr) uscivamo a giocare in giardino, mentre Luigi si nascondeva dietro al pianoforte. E’ stato da noi qualche mese. Quando le acque si sono calmate è tornato a casa dei suoi genitori.
Avete mantenuto i contatti con Luigi Rovighi?
«Ci siamo ritrovati via Internet».

Germania, ex Ss nel mirino della giustizia

Mentre in Israele si ricorda l'Olocausto, a Ludwigburg i nazisti sopravvissuti potrebbero finire alla sbarra.



Due diversi modi di mantenere vivo il ricordo dell'Olocausto hanno involontariamente collegato Israele e la Germania l'8 aprile, il giorno che gli israeliani hanno consacrato alla memoria dello sterminio.
In Israele è stata consumata la tradizione del minuto di silenzio alle 10 del mattino, con il suono delle sirene a lacerare il silenzio improvvisamente piombato nelle vie e nelle piazze delle città. Ma la progressiva scomparsa della generazione dei sopravvissuti ha dato spunto agli organizzatori del progetto People not numbers di avviare un'iniziativa originale mirata ai più giovani: la distribuzione di una serie di adesivi che riproducono i tatuaggi con i numeri di serie originali con i quali i nazisti marchiavano gli ebrei rinchiusi nei campi di concentramento di Auschwitz e Burkenau.
TUTELARE LA MEMORIA. «La memoria rischia di svanire», ha raccontato la Frankfurter Allgemeine Zeitung in un reportage da Gerusalemme, «dal momento che ogni giorno muoiono in tutto il mondo più di 30 persone che sono sopravvissute alla sciagura dell'Olocausto».
Si teme che con il tempo e con la scomparsa dei testimoni, il ricordo di quella tragedia che ha marchiato la Germania e l'Europa e costituisce una delle basi fondanti dello Stato di Israele possa non più essere percepita in tutta la sua profondità dalle giovani generazioni di israeliani. Quest'anno è così nata l'idea di associare al minuto di silenzio e alle sirene l'iniziativa di distribuire a tutti gli studenti gli adesivi con i numeri dei tatuaggi: un'esperienza già sperimentata negli anni passati a New York e Hong Kong.
IL TATUAGGIO CODICE. Il supporto delle nuove tecnologie dovrebbe aver stimolato la curiosità e la voglia di conoscenza dei giovani: al numero di serie era collegato uno speciale codice da utilizzare con gli smartphone per ripercorrere, attraverso la testimonianza diretta, la vita e le sofferenze patite dagli internati. «Si entra in contatto con la storia reale dei sopravvissuti», ha proseguito il quotidiano di Francoforte, «giacché solo un'esigua minoranza di essi è ricorsa dopo la guerra al bisturi dei medici per farsi cancellare l'odiato marchio».
«Quel tatuaggio è un simbolo che collega la vecchia e la nuova generazione», hanno sostenuto gli organizzatori, «e permette a chi non ha vissuto quell'evento di riviverlo attraverso la voce diretta dei sopravvissuti, almeno finché resteranno in vita. È una porta attraverso la quale si può sapere di più sulla storia dell'Olocausto».

Germania: nuovi procedimenti contro 50 Ss


A migliaia di chilometri di distanza, a Ludwigburg in Germania, la procura della Repubblica generale ha invece deciso di riprendere in mano i procedimenti investigativi contro 50 ex membri delle Ss impiegati come sorveglianti proprio nei due campi di concentramento e sterminio di Auschwitz e Birkenau, ai margini dell'odierna cittadina polacca di Oswiecim, che costituirono il fulcro del programma di annientamento degli ebrei denominato soluzione finale. A renderlo noto è stata la centrale del tribunale regionale per il chiarimento dei crimini nazisti.
LA LISTA DEI 1.000 SORVEGLIANTI.Grazie a nuove fonti storiche, in gran parte provenienti dagli archivi custoditi negli ex Paesi dell'Europa dell'Est appartenenti negli anni della Guerra fredda al Patto di Varsavia, è stato possibile definire una lista di circa 1.000 sorveglianti, che nei prossimi mesi verrà vagliata dai magistrati per scoprire il ruolo e le responsabilità avute nella gestione dei lager.
«Una lista era già stata stilata durante il processo ai kapò di Auschwitz», ha detto il responsabile della centrale Kurt Schrimm, «ma lo sviluppo della ricerca storica e l'accesso a nuove fonti documentali permette adesso un esame più approfondito e dettagliato delle diverse posizioni. In alcuni casi erano già stati avviati procedimenti giudiziari ed erano state comminate delle condanne. Ora l'intera questione può essere riesaminata grazie alle nuove informazioni».
LA SENTENZA DEMJANJUK. Un altro aiuto alla giustizia è venuto dalla sentenza nel 2011 del processo contro John Demjanjuk, il guardiano del lager di Sobibor, condannato a cinque anni di carcere per concorso nell'uccisione di 20 mila ebrei, sebbene non avesse partecipato direttamente ai crimini. Il concetto di concorso in omicidio, applicato ai sorveglianti che operavano nei lager, ha aperto la strada a nuove incriminazioni.
Secondo Schrimm, è probabile che, alla fine delle indagini, la procura possa procedere contro 10-15 sorveglianti delle Ss sui 50 ancora in vita, la maggioranza dei quali vive in Germania. La loro età media si aggira attorno ai 90 anni.
«Sebbene l'impostazione di diritto su cui si è basata la condanna di Demjanjuk sia stata considerata temeraria e da alcune parti contestata, la giustizia deve alle vittime dell'Olocausto almeno il beneficio di un tentativo», ha commentato la Süddeutsche Zeitung. «Il lungo tempo trascorso dagli eventi non può costituire alcuna giustificazione, gli omicidi non vanno in prescrizione».
Martedì, 09 Aprile 2013

Il Diario di Lena



Una importantissima testimonianza dell’assedio nazista di Leningrado (1941-1944) visto con gli occhi di una sedicenne che annota nel suo diario non solo ciò che le accade intorno, ma anche i suoi sentimenti, speranze e timori vissuti in quei 900 drammatici giorni. Il diario venne rinvenuto nel 1962 e pubblicato in Russia nel 2011venti anni dopo la morte della sua autrice. Contiene passaggi legati all’adolescenza, come i primi amori e le fatiche dello studio, ma soprattutto le tragedie legate all’assedio, i lutti, la fame e la paura. In Russia quest’opera è stata accolta con entusiasmo perché rappresenta la prima testimonianza di un fatto storico di enorme portata, raccontato con uno stile fresco, giovanile ma profondo, attraverso parole che non si limitano a descrivere ma indagano nell’interiorità dell’uomo.


Leningrado, 22 maggio 1941. Il diario di Lena comincia qui, pochi giorni prima dell'invasione dell'Unione Sovietica da parte dell'esercito nazista. Lena Muchina è una ragazza di sedici anni, alle prese con gli esami di fine anno, le uscite con le amiche, i primi innamoramenti.
L'estate è alle porte e sembra che nulla possa turbare la sua adolescenza allegra e chiassosa.
Poi, improvvisa, l'eco della guerra acquista intensità e comincia a fare da sfondo sempre più cupo alle sue riflessioni spensierate e ancora infantili. L'arrivo delle truppe naziste in terra sovietica obbliga Lena a prendere parte ai programmi di difesa del governo comunista: lavora dapprima alla costruzione di trincee, e poi, quando a settembre ha inizio l'assedio di Leningrado, come infermiera per i feriti di guerra, mentre gli scontri sempre più violenti privano i civili di beni primari come cibo, acqua ed elettricità.
Lena lotta per mangiare e ripararsi dai bombardamenti, ma non rinuncia a raccontare la guerra con la voce di chi, a sedici anni, guarda con fiducia al futuro, nonostante la morte della nonna e poi della madre la privino di un sostegno proprio nel momento più difficile.
La fame e il freddo del lungo inverno sovietico sembrano avere il sopravvento ma, anche quando rimane sola, non l'abbandonano il desiderio di vivere, l'attesa per la pace che appare ormai imminente, la speranza sempre più concreta di potersi rifugiare presso una zia che vive fuori città. Alle pagine di questo diario, riportato alla luce dopo oltre settant'anni di oblio, affida la sua sopravvivenza: scrivere significa per lei resistere, combattere la propria guerra quotidiana e sfidare la morte per poter sperare in un futuro diverso.
Il diario di Lena è un eccezionale documento storico depositato negli archivi di Stato dell'Unione Sovietica, dove è rimasto per oltre settant'anni, fino alla recente scoperta di uno storico dell'università di San Pietroburgo che, colpito dall'intensità della scrittura, ha deciso di renderlo pubblico.