domenica 26 giugno 2011

Anna Cherchi


Nata a Torino nel 1924, residente a Torino

Arresto
effettuato dalle SS, il 19 marzo 1944, nelle Langhe tra Carrù e Doglioni (CN), come partigiana combattente

Carcerazione
a Torino, all'Albergo Nazionale, sede SS, poi alle Carceri Nuove

Deportazione
Nei Lager nazisti d'oltralpe: in Germania, a Ravensbrück, matricola n.44.145, poi a Berlin-Schönefeld (sottocampo di Ravensbrück), matricola n.1.721

Liberazione
avvenuta il 28 aprile 1945, durante una marcia della morte da Schönefeld a Ravensbrück, da parte dell'Armata Rossa

Ritorno a casa
non assistito

Note: nel gennaio del 1945, per due volte fu portata nel Lager di Sachsenhausen, in cui le furono estratti 15 denti
 
La testimonianza

Sono Anna Cherchi, sono nata a Torino il 15 gennaio 1924.

Ho vissuto nelle Langhe fino all'arresto. Eravamo contadini. L'arresto è avvenuto ad opera dei Tedeschi il 19 marzo 1944, durante un rastrellamento, perché ero partigiana combattente. Prima ero staffetta. Già il 7 gennaio 1944 i Tedeschi erano venuti, avevano bruciato la nostra casa e io ero riuscita a fuggire. Erano venuti accompagnati dai Repubblichini e avevano razziato tutto quello che potevano. Avevano cinque camion, li hanno riempiti di tutto.
Mi hanno arrestata nella Langhe, tra Carrù ed Oliani e mi hanno tenuta una notte in una prigione di fortuna, un magazzino di pali. Al mattino presto bussano alla porta, devo prepararmi e vestirmi. Io non mi ero nemmeno svestita. Andiamo a Torino, mi dicono. Abbiamo preso il treno e siamo arrivati a Torino alla stazione di Porta Nuova. Prima di portarmi nelle carceri in Corso Vittorio 27, mi hanno portato all'Albergo Nazionale, sede della SS, comando territoriale di Torino, e lì c'era il famoso Capitano Smith. A vederlo sembrava una persona gentile, per bene, e io ho pensato 'non sono poi tutti come crediamo noi', ma mi sono ravveduta subito. Mi sono ravveduta perché quando non ho risposto come voleva lui alla domanda che mi ha fatto, ha incominciato a diventare burbero, a diventare quello che veramente era. Volevano sapere dove erano state nascoste delle armi e io ho detto che sapevo che le armi erano arrivate, ma non dove le avevano messe perché ero in un altro gruppo, e ho sempre sostenuto quello. Il Capitano Smith non l'ha digerito, voleva sapere dove erano queste armi, io ho continuato a dire non lo so e lui non è stato tanto gentile. Più che le botte lui adoperava i suoi mezzi, era ben attrezzato, metteva le matite tra le dita, poi serrava le dita in mezzo alla morsa che aveva appesa alla scrivania e stringeva le dita con le matite dentro. Le unghie sanguinavano.
Alla sera mi portano in carcere nella cella 22 e lì trovo tre donne. C'era un'ebrea, una certa Levi, il nome non lo ricordo più, una persona anziana, e verso il 10 o 12 aprile è arrivata Lidia Rolfi. Per un mese consecutivo tutti i giorni venivo presa al mattino, portata all'Albergo Nazionale e riportata indietro alla sera. Il primo giorno mi hanno dato da mangiare a mezzogiorno perché le carceri non sapevano ancora del mio arrivo, quando poi tutti i giorni venivano a prendermi sapevano che dovevano mettermi via il mangiare. Io poi arrivavo ed era tutto freddo, potete immaginare. Là dalle SS da mangiare non me ne davano, a mezzogiorno loro andavano a pranzo e io restavo nel corridoio, non mi davano niente. Per un mese la stessa storia, entravo dentro e il capitano Smith insisteva, io insistevo sulla mia tesi, ho sempre detto non lo so, non ero lì, non ero presente e non so dove le hanno messe. Lui ha adoperato tutti i mezzi, persino la scossa elettrica. C'era una sedia di ferro, come c'era una volta negli ospedali, di quelle sedie con i braccioli. A una gamba di questa sedia hanno messo una presa. Era il mese di marzo e faceva ancora freddo. Lui aveva una stufa elettrica nell'ufficio, e aveva un interprete, un ragazzino ebreo che parlava tedesco - perciò l'hanno tenuto, mentre la famiglia l'avevano mandata via - , gli facevano fare da interprete e gli facevano fare anche quel lavoro lì. Staccava la spina dalla stufa e toccava la gamba della sedia, appena toccava già mi dava la scossa. Un bel giorno l'ha lasciata un attimo di più e io sono svenuta, sono andata per terra e ho battuto la testa da qualche parte, così quando mi sono ripresa ero tutta bagnata, perché mi avevano buttato l'acqua addosso per farmi rinvenire, e avevo già un cerotto sulla testa, sanguinavo.

Da quel giorno non sono più venuti a prendermi, ho continuato a stare in carcere.


Il 29 di giugno i Tedeschi ci dicono che ci portano in Germania. Sono venuti di notte, ci hanno chiamate sotto, eravamo quattordici, ci hanno caricate su un camion e ci hanno portate a Porta Nuova, dove c'era già la tradotta pronta. La chiamavano tradotta ma era un treno, un carro bestiame. Arriviamo a Innsbruck, ci fanno scendere tutti e il nostro vagone viene agganciato a un treno che andava a Berlino. A Berlino ci fanno scendere e saliamo su un treno locale, finalmente non eravamo più in un carro bestiame ma in un vagone normale di terza categoria, o forse anche di quarta, comunque un vagone normale. C'era la gente che saliva, era presto e andavano a lavorare. Noi quattordici ci hanno sistemate in due scompartimenti.
Siamo arrivati in una piccola stanzioncina, la stazione di Fürstemberg, e a piedi ci hanno portate a Ravensbrük. C'era una bella strada asfaltata e a un certo punto abbiamo avuto una visione bellissima. A destra c'era il lago, a sinistra tutte villette, una più bella dell'altra, eravamo poi a fine giugno o 1° luglio, ed erano piene di fiori, sembrava che facessero a gara a chi aveva la finestra e il balcone più bello. Tanto era bello a vedere che noi ingenue, sapevamo che andavamo a lavorare, ma abbiamo pensato guarda in che bel posto ci hanno portate. Quella visione dopo un po' è sparita, ci siamo trovate davanti un muro altissimo, nero, brutto, e abbiamo detto che fabbrica brutta è questa, non possono dare un po' di bianco? con tutto il bello che abbiamo avuto fino ad adesso!. C'era una sbarra come nei passaggi a livello, l'hanno alzata e ci hanno fatto entrare. I due tedeschi che ci accompagnavano sono entrati negli uffici, hanno consegnato la loro cartella con tutti i nostri documenti e sono spariti.
Avevamo una compagna, Carletti Cesarina, detta Nonna Mao, che aveva due valigie grosse, piene zeppe. I Tedeschi avevano detto alla sua mamma di procurarle tanta roba di lana perché dove andava faceva freddo ed effettivamente era una zona fredda, perché il mese di luglio, quando alle sette del mattino si andava all'appello, si batteva i denti, un po' per la paura ma anche per il freddo, tanto è vero che la chiamano la piccola Siberia. Allora lungo questo percorso lei chiede ai due tedeschi che l'aiutassero a portare le valigie. Figuriamoci! Loro sapevano cosa c'era in quella villette e non lo facevano anche per loro. Allora lei si è arrabbiata e dice se non mi aiutate io le metto qui e non mi muovo più. Ha messo quelle due valigie in mezzo alla strada, ci si è seduta sopra e noi a cercare di convincerla, dai ti aiutiamo noi, perché andavamo incontro all'incognito e non sapevamo cosa poteva succederci. Lei nient'affatto! sono loro che mi devono aiutare. Ad un certo punto da una di queste villette si apre una finestra e viene fuori una che si mette a sbraitare in tedesco. Quello che diceva per noi era tabù, non capivamo, ma appena finito, la nostra compagna, la Carletti, tutto quello che le è venuto in mente, tutto quello che si può dire di brutto a una persona, lei gliel'ha detto. Allora le abbiamo strappato quelle valigie, l'abbiamo tirata fino a che l'abbiamo fatta partire e siamo arrivati lì. Loro hanno consegnato i documenti e poi se ne sono andati, ci hanno fatto entrare nel piazzale, e a un certo punto vediamo una carabiniera in divisa, con la bustina in una mano e il frustino nell'altra, entra tutta marzialmente e non si sbaglia, va a beccare la Carletti. Era riconoscibile perché aveva dei bei capelli neri ed era pettinata con quell'onda alla Rita Hayworth. Non si è sbagliata, è andata l'ha presa e l'ha tirata fuori, lei quelle che non ha voluto gliele ha ricambiate, poi l'hanno portata dentro, e lì dice che l'hanno di nuovo picchiata e le hanno tagliato i capelli. Quando è uscita fuori siamo rimaste stupefatte a vederla, la testa sotto i capelli neri ancora più bianca, quella testa tutta bianca, poi lei aveva i zigomi grossi, era una bella donna però con quella testa pelata! Ed io ho avuto, non so perché mi è venuto, gliel'ho detto e non me l'ha mai perdonato, quando era arrabbiata me lo rinfacciava sempre, lei si chiamava Cesarina ma noi la chiamavamo Cesi per fare in fretta, le ho detto: Cesi, sembri il Duce. Non gliel'avessi mai detto.
Ci hanno fatto stare tutto il giorno lungo quel muro, tutto il giorno sotto un sole cocente. Alla sera quando già veniva buio hanno aperto una porta e ci hanno fatto entrare, non abbiamo visto cosa c'era dentro perché era buio, non c'era luce, poi hanno chiuso la porta e ci hanno lasciato lì. Abbiamo capito che era una doccia perché c'erano le pedane ed erano bagnate. Durante la notte abbiamo sentito un fracasso della malora, è arrivata altra gente e sono arrivate altre donne.

Cosa facevano? Avevano un secchio, dentro il secchio c'era un pennello e un liquido che ti passavano dalla testa ai predi. Era creolina, puzzolente che non finiva mai, e bruciava. Una delle prime che non lo sapeva, non so se la Irma di Biella, non ha chiuso gli occhi e gli è andato negli occhi. Gli ha dato problemi per un po' di giorni, perché brucia e può anche rovinarteli. Ora sapendolo, quando si entrava si cercava di tenere gli occhi e la bocca chiusi. Finita la disinfezione c'era poi la vestizione. Ho dimenticato di dire che il giorno, lungo quel muro, ci hanno fatto spogliare, togliere tutto quello che avevamo indosso, piegare tutto per bene, mettere tutto ammucchiato vicino al muro, per ultime le scarpe perché il mucchio non andasse per terra, e siamo rimaste nude. Alla fine ci hanno vestite.
Ti chiamavano col numero, ma lo chiamavano in tedesco, tu che non capivi il tedesco non uscivi ed erano botte. Il mio numero era 44.145. Allora per noi Ravensbrük era un nome insignificante, non sapevamo cosa voleva dire. Ravensbrük in tedesco vuol dire ponte dei corvi, ma noi questo l'abbiamo saputo solo in seguito. Siamo rimaste dal 1° luglio fino verso il 20 agosto, poi hanno formato il Kommando e ci hanno portato a lavorare alla Volkanblum, una fabbrica dove facevamo apparecchi da bombardamento, i Messerschmitt 709. Facevamo tutto meno l'impianto elettrico, che arrivava già tutto predisposto, solo da montare, ma in un altro reparto, non era compito nostro.
Un giorno sono arrivate tre suore e sono rimaste lì tutte e tre. Noi abbiamo saputo dalle francesi che erano suore francesi. Bisogna dire che le francesi si aiutavano in un modo stupendo, erano solidali l'una con l'altra, una cosa incredibile, e hanno cercato subito di fare qualcosa per queste tre, vuoi perché erano suore, vuoi perché erano francesi. Ma le due anziane subito il giorno dopo le hanno portate via ed è rimasta solo la più giovane. Era vestita come noi, l'avevano messa a lavorare, non ricordo che lavoro faceva, fatto sta che questa suora, tutte le sere o tutte le mattine, perché noi si lavorava dodici ore al giorno, una settimana di giorno e una di notte, questa suora finito il lavoro, prima di andare nel letto a castello, diceva le preghiere. Si inginocchiava ai piedi dei castelli e diceva le sue preghiere. Questo non era permesso perché dire le preghiere voleva dire farti animo da sola, metterti nelle mani di Dio, vai a sapere cosa pensavano loro, fatto sta che era proibito. Loro, le Kapò, le Blockova e le Stubova, ma soprattutto le Kapò sapevano che lei era una suora e che diceva le preghiere, ma aspettavano che fosse in ginocchio a pregare per venire fuori dal loro harem - perché loro avevano il loro harem - venire fuori e pestarla di santa ragione. Le nostre compagne più anziane, le russe, ma un po' tutte, non c'era differenza, tutte si prestavano, le italiane si prestavano per noi, e allora tutte a dire a questa suora vai nel castello, prega tutto il giorno, prega tutta la notte, ma non metterti lì, queste un giorno o l'altro ti uccidono, e lei diceva le preghiere vanno dette così, sarà la volontà di Dio, e ha continuato. Loro hanno continuato a darle le botte, tanto che un giorno, facevamo la notte, lei stava pregando in ginocchio per terra, sono arrivate e l'hanno caricata di botte. Noi eravamo nel castello, dormivamo in due, ero con la Irma Bianco, che mi dice questa qui la uccidono. E' caduta per terra, ha incominciato a venirle fuori il sangue dal naso e dalla bocca, allora hanno chiamato le sue compagne, le altre francesi, portatela all'infermeria, e loro l'hanno portata, ma quando è arrivata era già morta.

Il problema grave soprattutto per noi giovani è che quando siamo arrivate ci è venuto a mancare il ciclo mensile. In mezzo a tutto quel frastuono riuscivamo ancora a pensare a quello, riuscivamo ancora a dire torneremo come prima? A Ravensbrük c'erano anche bambini. Un giorno ci chiamano e ci mandano col carretto a prendere la zuppa. Avevamo quattro bidoni vuoti sopra, e in due spingevamo da dietro mentre due davanti tiravano. A un certo punto una nostra compagna, una professoressa greca, ha guardato che non ci fosse pericolo e mi dice vai a quella finestra e guarda dentro. Io vado a quella finestra e allora vedo una camera grossa con dentro tanti bambini piccoli, avranno avuto dai tre ai cinque anni, ma forse cinque non li avevano, nudi come erano venuti al mondo, in quella camera disadorna, non c'era un tavolo, niente, e questi bambini erano lì da soli.
Una mattina, avevamo fatto la notte, siamo all'Appellplatz. Chiamano il mio numero e io che non sono mai riuscita a imparare il mio numero di Raversbruk a memoria, come il solito sono aiutata dalla professoressa greca che mi tocca, chiamano te! Quando ti chiamavano dovevi uscire fuori, c'era un angolo apposta, allora io esco fuori. Eravamo in cinque, ci hanno portate davanti all'infermeria e ci hanno fatto entrare una per una, quando sono entrata mi hanno guardata in bocca ma io i denti li avevo tutti sani, non avevo male ai denti! Lì c'era la signora Berna, un'interprete che aveva la fascia rossa, loro dicono krank!, voleva dire che eri ammalata in bocca, io dico all'interprete non ho male in bocca, i denti sono sani, perché dicono che sono ammalata? Lei si vede che sapeva e mi ha detto bisogna aver tanta pazienza! Parlava bene l'italiano, era di Lubiana la signora Berna, bisogna avere tanta pazienza!. Usciamo fuori, quando arrivano anche le altre quattro ci caricano su un camioncino e ci portano a Sachsenhausen. Siamo arrivate davanti a una casetta, una casetta di pietra non di legno, che c'è ancora adesso con la scritta patologia e dentro tutti i ferri nelle vetrine come allora. Entro e dentro c'era un signore grande e grosso che si fingeva dentista, ma non sapeva nemmeno come tenere le pinze in mano. Si vede che voleva imparare, erano convinti di vincere la guerra e magari voleva aprire uno studio dentistico alla fine della guerra, non lo so. Allora mi fissa le braccia su questi braccioli delle poltrone, mi fissa la testa, mi fa mettere i piedi dietro la traversa della sedia perché non gli dia dei calci, poi va nella vetrina e viene avanti con le pinze per togliere i denti. Incomincia dai molari. Quel mattino, dalle dieci e mezza fino alle quattro e mezza del pomeriggio me ne ha tolti sette, poi ha smesso e mi ha dato un pezzo di carta per pulirmi la faccia. Fuori c'era di nuovo il camioncino che ci aveva portate, ma c'ero solo io, le altre non sono più tornate. Io ero tutta frastornata, togliere sette denti senza iniezione, senza niente, non so se mi spiego! poi ero tutta sporca qui davanti, con la bava e tutto quello che veniva fuori dalla bocca, non mi hanno messo niente qui davanti. Quello del camioncino mi fa segno di salire, ma io non ero capace, non gliela facevo, ero distrutta, allora lui mi ha presa, pesavo poco, mi ha presa e mi ha buttata sul camion, come si fa a un sacco di patate. E il camioncino è partito. Il mattino dopo mi chiamano di nuovo, questa volta mi chiamano da sola, mi caricano un'altra volta su quel camioncino e mi riportano a Sachsenhausen. Allora mi è venuto in mente che il giorno prima quel dentista nel mandarmi fuori mi aveva detto auf wiedersehen, arrivederci, ma io subito non ci avevo fatto caso. Ecco perché me ha detto auf wiedersehen, lui sapeva che io il giorno dopo dovevo ritornare. E infatti sono tornata, mi ha di nuovo fermato le braccia, la testa e tutto e mi ha tolto altri otto denti. In tutto quindici denti. Oggi di denti miei dietro e sopra non ne ho più uno.
Riguardo la fame e le malattie, mi sentivo fiacca, molle, e davo la colpa al non mangiare niente, al mangiar male, al lavorare dodici ore, e lavorare sodo! Era un logorio giorno dopo giorno, della tua vita e del tuo corpo. Davi la colpa a tutto questo, ma quando sono tornata a casa ho saputo che avevo avuto la pleurite secca bilaterale.
Il sottocampo con la fabbrica ha funzionato fin verso i primi di febbraio, poi cominciavano a mancare i pezzi, il materiale non arrivava tutto, e così praticamente ha chiuso. Allora ci portavano a tagliare le piante. C'era e c'è ancora adesso una grossa pineta tra la fabbrica e il campo d'aviazione. Ci portavano lì e ci facevano tagliare le piante. Poi ci hanno portato a fare le trincee per i militari per i tedeschi che indietreggiavano, trincee che non servivano a niente, perché quando avevi fatto mezzo metro di profondità la terra dai lati franava.
Mi ricordo che era Pasqua, stavamo andando giusto in uno di quei campi dove ci facevano fare le trincee. C'erano delle baracche di legno con le finestre aperte, avevano le finestre aperte perché era già Pasqua. Dentro c'erano dei militari, noi abbiamo cercato di parlare italiano per farci sentire, loro hanno capito che c'erano degli italiani, e allora ci hanno gridato "dura poco". Ci rallegriamo perché se ci dicono loro che dura poco vuol dire che la guerra finirà presto, e anche quella era una medicina per tirarti su il morale. Finché un giorno hanno deciso di riportarci a Ravensbrük Quando siamo partite dicevano che eravamo in cinquecentocinquanta, quando siamo arrivate e i Russi ci hanno liberate eravamo rimaste duecentocinquanta. Le altre le abbiamo perse per la strada. Era il 29 o il 30 di aprile, quando i Russi ci hanno preso e ci hanno portato lì in questa casa disabitata, abbandonata dai tedeschi.
Mi ci è voluto due o tre giorni, poi poco per volta ci siamo rese conto che effettivamente eravamo libere e dovevamo pensare a ritornare a casa. Per attraversare la Germania, abbiamo fatta più strada a piedi che con tutti i mezzi che abbiamo trovato. I mezzi più grandi erano le nostre gambe.
Siamo rientrati in Italia da Bolzano. Ci hanno detto che quando entravamo in Italia ci davano un pacco e noi tutte contente, oh, meno male! Siamo arrivate a Bolzano una domenica mattina, piovigginava, c'era la nebbia, e faceva un freddo! Eravamo ad agosto e faceva un freddo cane. Alla stazione sotto la tettoia ci danno il pacco. Erano tre rosette di pane dure così, e cinque mele di quelle che cadono da sole dalle piante. Poi a noi donne ci hanno dato un mestolo di latte caldo e agli uomini cinque sigarette. Una assaggia il latte prima di me e mi dice è andato a male, è acido. L'abbiamo bevuto lo stesso.
Poi ci hanno portato a Pescantina, dove purtroppo mi sono fermata più di una settimana perché mi ero gonfiata tutta e non ci vedevo più. A Pescantina dalla provincia di Asti venivano su coi camion a caricarci, ma io in quelle condizioni non potevo, volevano ricoverarmi all'ospedale. Allora io ho detto vado a casa a piedi, all'ospedale non ci vado. Fossi andata in ospedale forse avrei preso la pensione, invece io volevo andare a casa e allora il dottore ha detto alla suora facciamo queste iniezioni. Quando ho cominciato a vederci sono andata a casa.

Giuseppe Algeri

Nato a Caltagirone (CT) nel 1921, residente a Genova

Arresto
effettuato dai tedeschi, il 9 settembre 1943 a Tirana (Albania), come militare




Carcerazione
fra Durazzo e Tirana, in un campo per soldati greci

Deportazione
Nei Lager nazisti d'oltralpe: in Germania, a Nordhausen, poi a Dora Mittelbau, matricola n.0162, poi a Ellrich, matricola n.138.636, (sottocampi di Nordhausen)
Liberazione
avvenuta nell'aprile del 1945 durante la marcia della morte da Ellrich verso nord, da parte dell'Armata Rossa

Ritorno a casa
durato 18 giorni, è stato compiuto per lo più su carri bestiame fino a Caltagirone (CT)

Note: prima di rientrare a casa, Giuseppe è stato trattenuto come prigioniero dall'esercito inglese
 
La testimonianza

Mi chiamo Giuseppe Algeri, sono nato a Caltagirone, in provincia di Catania, il 17 novembre del 1921.

Sono stato arrestato il 9 settembre del 1943 a Tirana, Albania, catturato dai tedeschi. Io ero in Albania come militare, aviere di Governo.
Dopo 15 giorni di prigionia in un campo di concentramento, i tedeschi ci hanno messo su dei carri bestiame e ci hanno portato in Germania. Ci hanno portato a Königsberg, in un Lager, in un campo di concentramento. Mi hanno fatto delle foto segnaletiche, mi hanno preso le impronte digitali e basta. Un ufficiale, poi, ci ha messo sul treno e ci ha portato a Nordhausen, a 4 chilometri dal lago Dora, Dora Mittelbau. Ci hanno preso i nomi e poi ci hanno portato in una specie di bagno, ci hanno fatto una rapata a zero, ci hanno spogliato di tutto e, finito di fare la doccia, ci hanno fatto vestire con le divise a righe. La mia divisa aveva il numero 0162... La matricola che già mi avevano dato a Königsberg non serviva più e così il mio numero di matricola era diventato 0162.
Siamo così entrati in una galleria. Nella galleria ci hanno dato una zuppa, una zuppetta dolce, mai mangiata prima... Poi la notte mi è venuto un forte mal di stomaco e sono stato male. A mezzanotte mi hanno mandato già subito a lavorare, dentro la galleria stessa, mi hanno dato un martello pneumatico, che non sapevo neanche cosa fosse. Abbiamo così cominciato a fare buchi in questa roccia, in questa galleria... Era un tunnel. Abbiamo fatto... Facevamo dei buchi profondi quattro metri e venti. Come turno, facevo da mezzanotte a mezzogiorno, fin dal primo giorno in cui sono arrivato, i primi giorni di ottobre, non ricordo con precisione le date. A mezzogiorno si doveva andare a dormire per regola, dopo dodici ore di quel lavoro snervante. Si dormiva in castelli di cinque piani. Siccome io già avevo addosso qualche pidocchio, me ne andavo all'ultimo piano, perché avevo la lampadina più vicina, in modo da potermi schiacciare questi pidocchi, ucciderli. Alle cinque di sera, arrivavano gli altri deportati, quelli che lavoravano fuori. Allora, figuratevi il casino che c'era, con la gente che ritornava da lavorare. Noi dovevamo dormire e non si dormiva. Alle undici, poi, di nuovo sveglia, ma già eravamo svegli. "Italiani! Undici! Lavorare!" e si andava di nuovo a lavorare nella gallerie, sempre a fare lo stesso lavoro, perforare questa roccia. Una volta finito questo lavoro - eravamo circa dodici persone a bucare questa roccia - l'indomani mattina, venivano i minatori, che riempivano di esplosivo e facevano saltare la roccia. Questo lavoro l'ho fatto per sei mesi consecutivi, dodici ore al giorno, da mezzanotte a mezzogiorno e da mezzogiorno a mezzanotte, a settimane alterne...

Da mangiare, ci davano un po' di zuppa: la zuppa consisteva in un litro di brodaglia, di brodaglia, circa duecento, duecento grammi di pane, alla mattina ci davano un po' di caffè amaro, sarà stato surrogato e con quella roba lì si tirava avanti. Per sei mesi mangiare, dormire, lavorare, fare i nostri bisogni, tutto in galleria. Si trattava di due tunnel scavati dai tedeschi in precedenza. Questi due tunnel erano paralleli e noi foravano delle piccole gallerie, in modo da poterli congiungere. I nostri bisogni si facevano di fronte a tutti: nel tunnel c'erano circa 30, 40 bidoni, dei fusti di benzina tagliati in due. Ci si metteva un pezzettino di tavola e su quella tavola dovevamo fare i nostri bisogni. Buona parte di noi poi aveva la dissenteria... Dopo questi sei mesi è inutile dire che io ero proprio finito, così mi hanno portato fuori a lavorare.
Il Lager Dora era organizzato così... All'interno del tunnel, non c'era niente. Si dormiva dentro le gallerie stesse. C'erano questi enormi castelli a cinque piani... Ogni piano era alto sessanta, settanta centimetri e dovevi stare disteso, perché era troppo basso. I piedi non dovevano sporgere, perché, se passava la SS, ti dava delle botte tremende, quindi dovevi stare sempre rannicchiato. All'esterno, invece, dopo sei mesi, avevano costruito delle baracche.
Tutti avevamo i pidocchi. Bastava che uno avesse un pidocchio e subito venivamo infestati tutti. Allora cosa hanno fatto. Hanno recintato tutta la nostra baracca, la baracca 18. Non potevamo uscire, ci avevano messi come in quarantena. Dopo sei mesi, sono andato a fare la prima doccia: mi hanno di nuovo rapato a zero, perché ogni volta ci facevano rapare a zero e depilare in tutte le parti del corpo dove c'erano peli, poi c'era una vasca piena di disinfettante, in cui ti dovevi infilare. Se non ti bagnavi anche la testa, allora loro ti spingevano la testa dentro questo disinfettante, perciò gli occhi bruciavano... Se uno era un po' furbo, però, si lavava un po' la testa... Quando poi era pieno - saremo stati cento, centocinquanta, non lo so - allora aprivano le docce che ti bruciavano, poi aprivano quelle di acqua fredda. Finito di lavarci, uscivamo fuori. Tutta la nostra roba, gli indumenti, li davamo prima... Li portavano in una sala di disinfezione, li mettevano a disinfettare. Dopo aver fatto la doccia... In inverno, nel mese di marzo, aprile, stare fuori ancora un'altra mezz'ora, tre quarti d'ora, nudo, ad aspettare gli indumenti. Dopo andavamo in baracca. Alla sera venivano una specie di infermieri, che con dei fari ci guardavo in mezzo alle gambe, sotto le ascelle, per vedere se avevamo qualche pidocchio. Dopo quindici giorni si resero conto che noi italiani avevamo fame, non i pidocchi! Ecco... Questo dopo sette mesi... Mi sono potuto lavare. Poi sono andato sempre a lavorare... A costruire queste strade.

Quando uno faceva un piccolo sbaglio, se si allontanava dal lavoro o commetteva una disattenzione, tutto era sabotaggio... La minima cosa che si poteva fare... Si ricevevano venticinque colpi sul sedere, con... Loro li chiamavano Gummi, ma era filo elettrico, con dentro un'anima di rame. Dopo dieci colpi nessuno brontolava.
Ho passato quasi un anno al Dora. Nel mese di agosto, mi hanno trasferito e mi hanno portato a Ellrich, in un sottocampo. Lì sono andato a lavorare... Da Ellrich prendevo un trenino, si faceva una mezz'oretta di treno e andavamo a lavorare dall'altra parte delle gallerie. Andavo a scavare i pozzi di acqua. Un altro lavoro ancora. Non avevamo delle trivelle... Siccome si era vicino a un fiume, bucavamo questi pozzi, facevamo dei pozzi di un metro di diametro, e con una pompa, facendola scendere dalla gru fino lì dentro, allora aspiravamo e tiravamo su l'acqua mischiata alla ghiaia. Quando arrivavamo a una certa profondità, si metteva il tubo, quello per fare i pozzi artesiani, e intorno, sulle pareti, mettevamo una ghiaia speciale - la portavano da fuori - in modo che potesse filtrare l'acqua. Ho fatto questo lavoro... Dunque Pasqua è stato, mi sembra, il 1° di Aprile del 1945, perciò dal settembre del '44 fino al primo aprile del '45, sono stato a Ellrich.
A un certo punto ci hanno messo su dei vagoni bestiame... Il lavoro cessava in Germania... Già i Russi, i Francesi, gli Inglesi e gli Americani ormai avevano circondato... Allora ci hanno messo su questi treni, ma non si sapeva dove andare, andavano avanti e indietro. Perché da una parte non si poteva passare, perché c'erano i russi, dall'altra non potevamo andare, perché c'erano gli Americani, da un'altra parte ancora c'erano gli Inglesi... Così, un giorno di questi, ci hanno fermato in una stazione - non so che stazione fosse - su un binario morto. Siamo fermi un giorno. Nel frattempo è passato un mitragliamento - ecco il primo mitragliamento - di caccia inglesi: hanno mitragliato questo treno, che era fermo. Il vagone di noi italiani era chiuso, ma la maggioranza di tutti gli altri deportati erano su vagoni scoperti. Si vedeva che c'era gente dentro quei vagoni, ma si sono messi a mitragliare lo stesso. Con un mitragliamento, ne hanno uccisi più di trecento.
Un italiano, che avevo tra le gambe - forse è stato lui che mi ha salvato la vita - ha preso lui le pallottole... Gli hanno fatto saltare il braccio, il braccio sinistro, no... Il braccio destro e la mano sinistra, come se fosse stata schiacciata da un carro armato. Come l'abbiamo steso per terra, ha detto "Tagliatemi il braccio!", così abbiamo preso un coltello e gli abbiamo tagliato il braccio, ma... È morto, non ce la faceva. L'indomani mattina, i tedeschi volevano che andassimo a scavare la buca per seppellire i cadaveri. Io ho fatto in maniera di non andare a scavare, ma comunque tanti sono dovuti andare a seppellire...

Dopo ci hanno portato in una fabbrica. Dicevano - dicevano, io non lo so - che eravamo a quaranta, cinquanta chilometri distanti da Berlino, perché noi sentivamo dei bombardamenti, delle cose... Dopo due o tre giorni, mi raparono nuovamente a zero e mi immatricolarono di nuovo: mi diedero il numero 138636, facendomi diventare un politico da militare che ero.
Il 20 aprile del '45 abbiamo cominciato a fare la marcia della morte. Man mano che camminavamo, chi cadeva per terra, veniva ucciso. Io sono partito con 40 di febbre. Due italiani, un ex carabiniere che aveva fatto la ritirata della Russia e un mio compaesano - che non so come si chiama, perché lì, cari miei, i nomi non li sapevo! - mi hanno trascinato per tre giorni.
Sono rientrato in Italia e sono arrivato nel mio paese il 28 settembre del 1945. Per trentuno anni non ho parlato più di prigionia, perché nessuno mi credeva, anzi ancora oggi certuni si fanno delle risatine, specie in Sicilia, perché nel meridione la guerra non l'hanno vista.

Luigi Emer

Nato a Dermulo (TN) nel 1918, residente a Bolzano

Arresto
effettuato dalle SS, il 26 luglio 1944 a Cavalese (TN) durante un'operazione del battaglione partigiano da lui comandato

Carcerazione
- a Trento: Carcere di Via Pilati
- a Bolzano: Comando della Gestapo

Deportazione
nei Lager nazisti d'Italia: a Bolzano, matricola n. 9.861.

Liberazione
avvenuta il 30 aprile 1945, in seguito all'abbandono da parte dei nazisti del Lager di Bolzano e all'intervento della Croce Rossa e del Comitato di Liberazione Nazionale

Ritorno a casa
non specificato

La testimonianza
Mi chiamo Luigi Emer, nome di battaglia Avio, perché ero in aviazione.Sono nato a Dermulo, comune di Taio, provincia di Trento, il 27 agosto 1918.
Sono stato arrestato in seguito ad un combattimento contro un presidio nazifascista che si trovava a Cavalese. Partimmo di notte e arrivammo nel villaggio vicino a Molina. Nella Val di Fiemme avevamo incontrato un'altra formazione di partigiani, comandata dal povero Aldo Iseppi, e altri compagni, Franco Franch e Quintino Corradini, si eravamo uniti per attaccare questo presidio. Verso le dieci di sera una bomba a mano mi scoppiò fra le gambe e mi fratturò completamente la gamba destra e l'ulna del braccio sinistro. Le schegge mi riempirono per tutto il corpo provocandomi profonde lacerazioni e ferite. Come caddi i compagni volevano sospendere l'azione, ma io diedi l'ordine di proseguire e di portarla a termine. Portarono a termine l'azione e cercarono di portarmi in salvo caricandomi sopra un carretto e trascinandomi fino al villaggio Stramentizzo. Fra di noi c'era la regola per cui i feriti gravi che si rendevano intrasportabili dovevano essere fatti fuori con un colpo di pistola. Toccando il caso mio, si prepararono per spararmi il colpo di pistola alla testa, ma un compagno tuttora vivente a Bolzano disse "è inutile sparare, questo è morto". Avevo perso i sensi. Convinti che fossi morto se ne andarono di notte attraverso le montagne e mi abbandonarono sopra questo carretto. Il 26 agosto 1944 durante la notte ripresi i sensi, cercai aiuto ma nessuno rispondeva. Silenzio assoluto, buio pesto e cielo sereno. Io guardavo le stelle. Verso l'alba si avvicinarono alcuni partigiani paesani del posto, di Stramentizzo, fra i quali una ragazza, una certa Sabina che fungeva da staffetta. Vedendomi in quelle condizioni chiamò un medico il quale arrivò, mi fasciò la gamba destra e scappò subito via in motocicletta per paura di essere catturato. Questa ragazza cercò di alimentarmi dandomi un bicchiere di latte e una coperta che prelevò dalla stalla. Avevo soldi e armi addosso, li buttai su un cumulo di legna. Notai che la gente curiosa che si era avvicinata al carretto si stava allontanando. Alzai il capo e vidi che ero accerchiato dalle forze tedesche, dalle SS. Fui preso e catturato.

Mi portarono alla caserma di Cavalese. Lì dalla mattina fino alla sera fui sottoposto a lunghi interrogatori, senza essere curato, fasciato e senza essere alimentato. Alla sera con la scorta armata mi portarono nel carcere di Trento, dove fui sottoposto a interrogatori, torture e sevizie. Continuamente svenivo, mi facevano delle iniezioni e come rinvenivo altre scudisciate. Questi interrogatori si protraevano per giorni e giorni, anche di notte. E così dall'agosto fino ai primi di ottobre. I primi di ottobre un giorno si presentò in cella un detenuto politico, un ex maestro che faceva l'infermiere. Mi sbarbò, mi lavò e mi diede qualche casacca da indossare. Tutti sospettavano che venissi condannato a morte. L'indomani mattina nel corridoio del carcere sentii dei passi ferrati, le SS entrarono nella mia cella e chiesero subito se riuscivo a stare in piedi. Io dissi che non ce la facevo. Mi caricarono su una barella e mi portarono fuori. Mi diedero un panino e una coperta, mi caricarono sopra un furgoncino, senza dirmi per quale destinazione, e mi portarono alla stazione di Trento. Lì mi caricarono sopra un vagone merci e fui trasferito alla stazione ferroviaria di Bolzano, dove mi portarono all'ospedale civile in via Fago, a Gries. Fui messo in una stanza assieme ad altri detenuti politici, fra i quali il povero Francesco Rella, l'avvocato Ferrandi, il dottor Lubich, l'avvocato - allora studente - Giorgio Tosi, e l'avvocato Steiner di Lana. Qualche giorno dopo mi trasportarono in sala operatoria e mi operarono la gamba destra e l'ulna del braccio sinistro. Rimasi ingessato per alcuni mesi, sempre sottoposto ad interrogatori da parte del Procuratore del Tribunale speciale l'avvocato Elsi, il quale era abbastanza burbero, ma non osò mai usare metodi violenti. Il secondo giorno che avevo la gamba ingessata mi fornirono un paio di stampelle e due agenti di scorta. Al mattino mi accompagnarono verso i servizi a lavarmi, e uno mi disse "tra poco verranno quelli delle SS'. Come mi scortarono in stanza, con le stampelle, dopo qualche istante entrarono quattro ufficiali delle SS. "Emer Luigi?" "Sì". "Rella Francesco?" "Sì". "Tutti e due condannati a morte". Il Tribunale speciale il 12 dicembre 1944 aveva confermato la nostra condanna a morte. Avevo sempre negato e taciuto su tutto ciò che sapevo, però di fronte alla morte ho dovuto dare le mie vere generalità. Da queste generalità una pattuglia risalì al mio paese d'origine, e voleva incendiare la casa dove risiedeva mia madre con i miei fratelli e sorelle, cosa che non avvenne per intercessione di alcune persone.
Ci prelevarono dall'ospedale ai primi del febbraio 1945. Facevo per prendere le stampelle, ma mi dissero "queste non servono più". Facevo per prendere qualche indumento da portare con me, ma dissero "non servono più". Francesco Rella aveva gli occhi bendati, era mezzo cieco. Ci sollevarono tutti e due e ci caricarono sopra una macchina, con la scorta, che arrivò fino al corpo d'armata. Al corpo d'armata fecero scendere il povero Francesco Rella che venne fucilato, massacrato negli scantinati. Sapendo qual era il mio destino aspettavo il mio turno, sennonché continuavo a rimanere in macchina. A un certo punto vidi che trascinavano per terra il corpo di un giovane, pesto e sanguinante, e lo caricarono in macchina. Era Walter Pianegonda di Schio, aveva la mamma e tre sorelline internate nel campo di concentramento e il papà, che era capo partigiano, era stato fucilato. Chiesi se potevo parlare, e il comandante disse "parlate pure". Chiesi dove stavamo andando, ma l'ufficiale non rispose. Walter Pianegonda disse "io vengo dal campo di concentramento, chissà che non ritorniamo lì". Pensavo ci avrebbero portato a Castel Flavon, dove avvenivano le esecuzioni, invece ci portarono veramente nel campo di concentramento di Bolzano in Via Resia.

Io fui ricoverato all'infermeria, ma prima fui portato all'ufficio della fureria, dove mi presero in forza e mi consegnarono un triangolo rosso col numero da portare obbligatoriamente sulla casacca. Il mio numero di immatricolazione era il 9.861. All'infermeria fui messo in un lettino dove ebbi occasione di conoscere il Professor Meneghetti, Rettore dell'Università di Padova, e il Professor Virgilio Ferrari, primario all'ospedale di Garbagnate e Milano, il colonnello Andreani di Verona e altri detenuti politici. Un amico che lavorava presso la falegnameria del campo mi fornì due stampelle. Un prigioniero pilota italoamericano di origine trentina, avendo saputo che ero trentino e potendo loro ricevere dei pacchi - mentre noi non potevamo ricevere niente - mi fece avere un paio di uova. E' un particolare a cui tengo. Prima di consumarle qualcuno mi disse "nel blocco E c'è il conte Volkenstein che sta per morire di fame, potresti portarle a lui?" e così gliele portai. Il regalo di due uova era come un lingotto d'oro. Che siano state le uova o altro, il conte Volkenstein del Castel Toblino si rimise in sesto e uscì anche lui dal campo. In seguito mi ospitò nel suo castello al lago di Toblino e mi fece conoscere il figlio. Mentre ero ricoverato all'infermeria, dovevo stare attento, molto attento e nascondermi alla vista dei famosi aguzzini, i due ucraini. Questi due ucraini erano sempre ubriachi, e quando vedevano uno di noi questo veniva torturato, massacrato, picchiato, insomma scene strazianti che è doloroso e triste rievocare. La gente era intimorita e paurosa, ma gran parte delle persone erano anche rassegnate al loro destino. Il mio destino era stato questo, - la storia è stata ricostruita in seguito - il Tribunale speciale, subito dopo la morte del partigiano Francesco Rella, infermo e cieco, disse alle SS "avete fucilato un infermo, volete fucilare un altro infermo?" Così il tribunale speciale era riuscito a commutare la mia condanna a morte in ergastolo, destinato ai blocchi di eliminazione in Germania.


La vita nel lager di Bolzano di Via Resia è indescrivibile. La gente soffriva e penava affamatissima, andava a rovistare persino nelle immondizie per cercare qualche buccia di patata. Bisognava cercare di evitare l'incontro con gli ucraini o con la Tigre. Nel campo erano deportati anche dei religiosi, ricordo Don Guido Pedrotti e Don Luigi Longhi, mi pare si chiamassero così, e altri religiosi che erano stati catturati non so dove. Nel campo un giorno incontrai un mio carissimo amico, Quintino Corradini, soprannominato Fagioli, il quale era ferito ad un occhio e fu destinato al blocco celle. E' riuscito a sopravvivere. Nel blocco celle era detenuta anche Nella Mascagni. Moltissime erano le donne, oltre alla famiglia di Walter Pianegonda c'era Laura Conti, una dottoressa della quale mi sfugge il nome, poi una certa Cicci, che faceva da capogruppo alle donne, moglie di un certo Novello da Garda, e - particolare curioso - c'era anche la prima moglie di Indro Montanelli. Poi naturalmente c'erano famiglie di ebrei coi bambini.




Noi dal triangolo rosso, politici e partigiani, eravamo i più perseguitati, i più presi di mira. Io riuscii a nascondermi più volte, a farla franca, a scantonare, ma altri furono picchiati, torturati e seviziati. Nel campo tra noi deportati la solidarietà si manifestava in conforto, un conforto morale e spirituale, perché quello che ci aspettavamo tutti era di essere condannati da un momento all'altro, o portati nei campi di eliminazione in Germania. Noi non potevamo ricevere niente, né posta né pacchi. Dall'esterno arrivavano solo messaggi, soprattutto Laura Conti teneva questo contatto con l'esterno, ad esempio con il CNL e con Franca Turra. Solo il blocco degli Italo americani poteva ricevere pacchi.
Sono rimasto dentro fino alla liberazione, che è avvenuta tramite l'intervento della Croce Rossa Internazionale e del Comitato di Liberazione Nazionale sia di Milano che di Bolzano. Oltre ai politici e agli ebrei, c'erano altri tipi di detenuti, renitenti al lavoro e tedeschi disertori che rifiutarono di prestare servizio nella Wehrmacht. Il giorno che ci hanno liberati eravamo tutti increduli, sembrava di affacciarsi su un altro mondo, vedere altra gente, vedere un po' di movimento era una realtà che non conoscevamo più e che avevamo dimenticato. Fui ospitato in una famiglia delle Semirurali a consumare un pasto.
Nel campo riuscivo a tenere un blocco di appunti, che mi avevano procurato quelli che lavoravano in una tipografia. Lo conservo ancora come ricordo di quei mesi. Per esempio c'è un santino che mi ha dato il prete venuto a celebrare la Pasqua del 1945. Sopra ci sono i nomi di molti detenuti politici, tra cui un tedesco. C'era il dottor Leoni, il colonnello Andreani, Padre Ghino Andreani. Ci tengo anche una tessera della cellula clandestina del partito comunista del campo di concentramento. E poi la tessera che mi è stato consegnata al mio rilascio. C'è scritto "Comitato di cooperazione nazionale, campo di concentramento di Bolzano. Il Signor Emer Luigi, matricola 9.861 è un ex detenuto politico proveniente dal campo di concentramento di Bolzano. Egli merita perciò l'aiuto di tutte le autorità civili e militari e di tutti i cittadini dell'Italia liberata. Il possessore di questa tessera deve essere subito munito del documento di scarcerazione".

"Babji Jar, il crimine dimenticato" di Jeff Kanev

Un progetto di tutta una vita si è compiuto per il produttore di Berlino Artur Brauner con la realizzazione della pellicola "Babi Yar - il delitto dimenticato", il dramma che ricostruisce l'uccisione sistematica di più di 30.000 ebrei in un burrone nei pressi di Kiev nel mese di settembre 1941. Brauner , che ha perso in questa atrocità anche dodici membri della famiglia, ha scelto come regista del film Jeff Kanew. Questo capitolo oscuro della storia nazista è ricostruito nel film attraverso il destino di due famiglie, una delle quali è destinata a "essere sterminata nel giardino dei bambini" ( il significato esatto in Italiano di Babi Yar) . Deprimente , cupo, in bianco e nero , il film è la penultima pellicola sulla shoah prodotta da Artur Brauner .
Nato nel 1918 nella città polacca di Lodz, ebreo, sfugge allo sterminio nazista, che miete innumerevoli vittime fra i suoi parenti. Nel 1946 si stabilisce a Berlino dove fonda la propria casa di produzione cinematografica CCC (Central Cinema Company), con la quale ha prodotto fino ad oggi più di 250 film con innumerevoli registi (fra i quali Fritz Lang, Robert Siodmark, Adrzej Waida, Istvan Szabor), diventando il maggior produttore cinematografico indipendente In Germania. Nel 1962 sarà uno dei pochi produttori In Germania a tentare di relazionarsi alla protesta di Oberhausen dei giovani registi tedeschi, fondando una casa di produzione (CCC-Filmkunst) dedicata a opere più innovative.
Ha realizzato, dal 1948 al 2003, venti film dedicati alle vittime del nazionalsocialismo e alla shoah , che egli considera come le opere più importanti della sua intera carriera. Si tratta di film prodotti spesso con grande sforzo e difficoltà, che hanno avuto a volte una circolazione limitata, soprattutto nel primo dopoguerra, quando il pubblico cinematografico era più interessato ai film d'intrattenimento da lui realizzati con grande successo che non a confrontarsi con la memoria della Shoah. (Fra quelli noti al pubblico italiano, ricordiamo "Il giardino dei Finzi Contini" (1971) di Vittorio De Sica e "Europa, Europa" (1990) di Agnieszka Holland".)
Babij Jar è probabilmente il suo film più personale, senza compromessi, L'autenticità di cercare di massimizzare il dramma inizia con immagini di repertorio della II guerra Mondiale e di discorsi di Hitler poi arriva l'idillio presunta di un borgo rurale di Kiev. Lì, lo spettatore è già alle prese con l'orrore più puro , in una scena iniziale che mostra uno die personaggi circondato da un cumulo di cadaveri in un fiume.

Da li si snoda la trama , con la storia del rapporto tra due famiglie ebree di Kiev , la Onofrienko e la Lerner.
Corrono voci sulle atrocità perpetrate contro gli ebrei e sui crimini di cui sarebbero già stati vittime in alcune regioni. La famiglia Lerner è però convinta che si tratti di esagerazioni che smentiscono le notizie ufficiali tendenziose che cercano di rassicurare la popolazione ebrea. Si pensa che nel peggiore dei casi, loro saranno riassegnati o espulsi. E comunque è troppo tardi per pianificare una fuga. L'indecisione di tutti i Lerner si trasforma in disperazione. A un certo punto persino la famiglia Onofrienko gli si rivolta contro . I bombardamenti e l'entrata a Kiev delle truppe SS e dell'esercito tedesco buttano la città nel panico e nel terrore . I nazisti danno tutte le colpe die bombardamenti sovietici agli ebrei della città . E da li il massacro sarà sempre più vicino .

Jeff Kanev, che di recente ha diretto diversi episodi della serie cult "Ally McBeal" , sa come costruire una storia piena di tensione , nel ricostruire questo eccidio di massa, svoltosi tra il 29 e il 30 settembre 1941 . Oltre 33731 gli ebrei massacrati a colpi di mitragliatrice e gettati nel burrone di Babji Jar . Il film mostra un eccidio costruito con una meticolosità industriale , e lo fa con una tecnica talmente esperta che è difficile distogliere lo sguardo dallo schermo , malgrado un audio volutamente basso , specie nei rumori delle mitragliatrici e nelle urla delle persone che vengono assassinate nelle scene finali della pellicola . Tuttavia . Gran parte delle carenze tecniche della pellicola deve essere ricondotta al basso budget di cui ha goduto fin dall'inizio il progetto del film , nonchè al respingimento del progetto della pellicola avvenuto più volte da parte della Filmförderungsanstalt Tedesca . Tuttavia , Brauner non si è arreso . Già abituato dai suoi precedenti lavori a vedere i suoi film non distribuiti o mal distribuiti , ecco che è andato avanti fino a concludere il progetto , e fino a presentarlo al festival di Berlino nel 2003 . Malgrado poi il film sia sconosciuto nel resto d'Europa , è sempre un buon risultato il fatto di aver portato a termine un simile progetto.

Un cioccolatino per ricordare

Il racconto di Ida Marcheria, sopravvissuta alla Shoah, grazie a una bugia sull'età e alla promessa di una torta al cioccolato.


Le piccole di casa
Siamo nate a Trieste, in una famiglia ebrea come tante altre, ebree o cristiane, in un appartamento in piazza della Borsa, vicina a piazza Grande, quella che oggi si chiama piazza dell'Unità. Mio padre, che si chiamava Ernesto, era commerciante di prodotti kasher, prodotti di vario tipo come carne, azzime, e tanti altri. Vendeva e commerciava in un bel negozio, frequentato dai membri della nostra Comunità, ma anche da tanti triestini non ebrei. Mia madre, Anna Nacson, era invece una casalinga e come la maggior parte delle donne allora - ma anche oggi tocca sempre a loro - si occupava di noi figli. Il maggiore di noi si chiama Giacomo ed era nato nel 1926. C'era poi Raffaele, che era del 1927. Poi io e Stella, da tutti chiamata Stellina anche per distinguerla dalla nonna che aveva lo stesso nome. Noi eravamo le bambine, le piccole di casa.

Prima dell'arresto

Fotografia archivio personale di Ida Marcheria (Nella foto: da sinistra, Hanna Schwartz, Ida e Stellina Marcheria, Trieste, ottobre 1943, pochi giorni prima dell'arresto )


La nostra fu un’infanzia piuttosto felice, non avevamo grossi problemi e potevamo vivere tranquillamente. Il nostro era il tempo dello studio, dei giochi e i nostri genitori, con molta attenzione e tatto, lasciavano che ci raggiungesse solo ciò che non poteva arrecarci turbamenti. Anche in questo eravamo bambini come tutti gli altri.

Trieste, una gran bella città, era, come si direbbe oggi, multiculturale, multietnica: c'erano ebrei, anche originari della Grecia - molti come il nonno provenivano da Corfù - austriaci, ungheresi, sloveni, italiani ovviamente, insomma Trieste era una gradevole Babele di lingue, dialetti, di gusti, di profumi, di sapori. Una città di confine e di conseguenza di ricchezze culturali composite e magnifiche. Purtroppo, anche in un tessuto sociale così ricco e articolato, non mancavano i veleni per gli scontri, a volte molto violenti, fomentati, per lo più, dai fascisti nei confronti degli slavi. Ma noi, piccoli di casa, anche da queste violenze, eravamo protetti.

Le leggi razziali

Foto archivio personale di Ida Marcheria
(Nella foto, Ida nel 1943)

Improvvisamente, tutto cambiò. Nel 1938, in novembre, il fascismo emanò le leggi razziali. Allora avevo nove anni... Giorno per giorno ci trovavamo senza più punti di riferimento, non avevamo più alcun luogo ove sentirci protetti e al sicuro. Fu un processo molto lungo e parecchio umiliante. Qualcuno sostiene, oggi, che fu poca cosa. Non è assolutamente vero! Fu mortificante e doloroso. I genitori persero il posto di lavoro, scontrandosi con la dura realtà di dover portare avanti, tra enormi difficoltà, la famiglia. Nutrirla, vestirla, accudirla in tutte le elementari necessità. Non c'era più niente di decoroso nella vita quotidiana. Professionisti di valore, stimati da tutta la città, si videro cacciare dalle scuole, si impedì loro di svolgere una attività, spesso per tutti, ebrei e non, importante e necessaria. I bambini furono cacciati dalle scuole pubbliche, costretti a dividersi dai loro compagni, tra vergogna, rabbia e pianti. Difficoltà continue, proibizioni sempre più numerose, sempre più avvilenti. Tanti si videro costretti a lasciare la città, a lasciare l'Italia. Perdemmo così molti amici, tra i più cari. Ai commercianti, oltre al ritiro della licenza, vennero più volte sfasciate le vetrine dei loro negozi. Si proibì, anche con la violenza, che i non ebrei li frequentassero. Fu anche per questo che mio padre perse molti suoi clienti. No. Non direi proprio, non si può con onestà affermare che le leggi razziali furono ben poca cosa.

L'arresto

Foto archivio personale di Ida Marcheria (Nella foto Stellina nel 1943)

Era mattina presto, ci eravamo appena alzati quando sentimmo prima suonare con insistenza e poi bussare con violenza alla porta. Quando mio padre, come tutti noi sorpreso, ha aperto, questi uomini sono entrati subito in casa, nel nostro appartamento senza neanche chiedere il permesso, senza proferire parola. Si sentivano padroni, pieni di autorità, signori della nostra quotidianità. Colpirono le nostre vite, le sconvolsero per sempre.
Uno di loro aveva un foglio in mano, sembrava essere una lista di nomi. Erano infatti i nostri nomi. Ebbi l'impressione che ci conoscessero già tutti, che sapessero tutto della mia famiglia. Sapevano quanti eravamo, perché nella lista compariva il nome di mio padre, quello di mia madre, comparivano quelli dei nostri fratelli e il mio con quello di Stellina. ....
La fretta, la paura, l'incertezza, la tremenda tensione che si era impadronita di noi, tutto ci mise in uno stato di indicibile tensione. Non potevamo certo sapere che ciò che stavamo, in quel momento, vivendo era ben poca cosa rispetto a quanto ci sarebbe accaduto nei giorni a venire. Era veramente impossibile il solo immaginarlo. Anche lontanamente.
... Un tedesco mi avvicinò e io, senza pensarci più di tanto, mi sfilai i braccialetti, di poco valore se non affettivo, cose da ragazzina insomma, e glieli porsi. Lui continuò a guardarmi, alzando la voce, sbraitando mi disse qualcosa che io non potevo capire. Non conoscevo il tedesco, la sua lingua mi suonava strana, assurda, cattiva e in ogni modo incomprensibile. Improvvisamente, con una aggressività che non riuscirò mai a dimenticare, allungò le sue mani, pesantemente sul mio viso, sulle mie orecchie. Cercava di strapparmi qualcosa, con rabbia e con violenza. Spaventata, totalmente sconvolta, cercai di fare un passo indietro. Solo in quel momento mi vennero in mente gli orecchini che indossavo. Cercava di strapparmeli, con quelle sue mani grosse e ruvide. Provai come una scossa. Capii che erano quelli che lui rabbiosamente voleva. Con le mani tremanti, me li sfilai e glieli allungai. Da allora, io non porto più orecchini.
Guardai la mamma per trovare qualche conforto, ma lei non si era accorta di quello che mi era capitato. Incontrai, invece, gli occhi della signora Cesana. Mi si avvicinò e, stringendomi a sé, mi disse: "Non aver paura, presto torneremo a casa e io ti preparerò una bella torta alla cioccolata, tutta per te". Pur in quel momento, così drammatico, si era ricordata della mia passione per la cioccolata!
Terminata la razzia dei nostri beni, dopo averci depredato di tutto, i tedeschi c'informarono che il mattino successivo dovevamo farci trovare pronti per il trasferimento. Senza rivelarci di che trasferimento si trattasse e per quale luogo. Imparammo dopo che questa era la loro norma.

Aushwitz, la Judendrampe

(Nella foto, Auschwitz-Birkenau, selezione alla Judenrampe)


La Judenrampe! Il caos, il terrore, l'anticamera dell'inferno. Credo che non ci saranno mai parole sufficienti e tali da poterci fare capire, e da parte mia da rendere benché minimamente comprensibile, ciò che accadeva su quel binario. Si potrà mai capire cosa e con quale violenza scuotesse l'animo dei deportati al loro arrivo sulla Rampa degli Ebrei? No, non bastano tutte le parole che conosciamo, tutte le parole del mondo. Scese, anzi meglio, saltate dal carro bestiame, ci trovammo in un girone allucinante di suoni, di grida, di urla. In una lingua dura, feroce, incomprensibile. I tedeschi, le SS urlavano ordini che nessuno capiva, su tutti grandinavano botte e bastonate, i cani, tanti cani abbaiavano, latravano eccitati e infuriati. Digrignando i denti, cercando di aggredire noi poveretti in preda al panico. Un po' le SS li trattenevano, un po' li aizzavano. Tutti, e noi tra loro, cercavamo con occhi smarriti di trovare i nostri cari, il padre, la madre, i fratelli.
Sempre tra urli e bastonate ci fecero lasciare sulla rampa i nostri fagotti, le nostre valigie. Guai cercare di tenere con sé qualcosa, anche la più piccola cosa. A botte e spintoni, senza alcun riguardo per niente e per nessuno, ci fecero disporre in due file. Ci prepararono per la selezione. In una colonna gli uomini, nell'altra le donne con i bambini. Stellina e io eravamo con la mamma. Lentamente le due file avanzavano verso un ufficiale tedesco, una SS glaciale nella sua indifferenza che, a volte quasi con aria annoiata, indicava con un frustino a ciascuno se andare alla sua destra o alla sua sinistra. Il suo sguardo non pareva nemmeno vederci. Era Mengele, il medico selezionatore, l'angelo della morte.

(Nella foto, Birkenau, donne e ragazzi già destinati alle camere a gas)


Mentre la selezione era in corso ci si avvicinò un uomo, neanche poi così male in arnese, vestito con uno strano abito a righe grigie e blu. Ci guardò solo per un attimo, facendo scivolare lo sguardo frettolosamente, poi guardando altrove; fingendo attenzione per altro da noi, con molta circospezione, parlando italiano mi chiese quanti anni avessi. "Quattordici" risposi. "No, tu ne hai sedici". Pensai fosse matto. D'altro canto tutto ciò che vedevo intorno a me non poteva che farmi credere di essere arrivata nel mondo dei matti, nel mondo della follia. Ma come, ho quattordici anni e questo strano essere pretende di sapere meglio di me la mia età! Se ho quattordici anni perché mai devo dire sedici? Ma che ne sa, se nemmeno mi conosce. Poi fece la stessa domanda a Stellina. "Tredici anni da pochi giorni" disse mia sorella. "No, tu ne hai quindici, capito! Ne hai quindici". Allontanandosi ancor più circospetto, come se temesse che le SS avessero potuto vederlo nel rivolgerci la parola, ci ripeté ancora una volta: "Tu ne hai sedici e tu quindici. Ricordatevelo! ". Ma prima di rivolgersi ad altri prigionieri e con ben poco garbo ci spintonò verso la nostra fila. Toccò a noi arrivare davanti alle SS. Senza una parola, con un gesto secco venimmo indirizzate nella fila meno numerosa.

Nostra madre aveva capito

(Nella foto, Birkenau, donna con bambini)


Nostra madre andò nell'altra. Ma questo non ci interessò, non era quello che in quel momento per noi era importante. Da una parte o dall'altra per noi nulla significava. Avevamo già perso di vista mio padre e i nostri fratelli Giacomo e Raffaele, anche se erano nella nostra colonna. Cercavamo la mamma. Ci guardammo intorno per individuarla. I nostri occhi, seppur stanchi e sbarrati dal terrore, la cercarono nella fila che s'ingrossava sempre più di donne e bambini. Non la trovammo. Poi la vedemmo su di un camion. Volevamo andare con lei, ma non ci fu possibile. Qualcuno ci disse che l'avremmo ritrovata nel campo. Gli anziani, i meno forti ci avrebbero preceduto. Che tragica bugia! Mamma non piangeva. Lei aveva capito. "Bambine mie" ci disse "cercate di stare sempre insieme". Poi i camion, non pochi e tutti strapieni di donne e bambini ammassati come bestie, si avviarono. Verso dove nessuno di noi sapeva e poteva immaginare. Vedemmo mamma allontanarsi, senza una lacrima. Non l'abbiamo più vista.


Kanada Kommando


(Nella foto, Birkenau, donne addette alla selezione degli oggetti provenienti dai vari trasporti. Sullo sfondo, in alto, è possibile vedere le cime dei camini)


Quando arrivammo [al Kanada Kommando], quello che ebbi modo di vedere mi lasciò di stucco. Le baracche erano piene fino al soffitto di vestiti, di valigie, di coperte, di scarpe... di tutto! Da non poter immaginare, incredibile. Era tutta la nostra roba, i beni di tutti i deportati, quelli ancora vivi ma soprattutto di quelli ridotti in fumo. Delle nostre madri, dei fratelli, dei figli. Il frutto di una inimmaginabile, criminale rapina.

Io sono nata lì, al Kanada ho aperto gli occhi su un mondo di dolore, di offesa, di crudeltà. Al Kanada è finita la mia infanzia, è finita anche quella di Stellina. Lì abbiamo imparato a odiare, abbiamo imparato a non perdonare, abbiamo capito che ciò non sarebbe mai stato possibile. Le SS, i nazisti ci avevano rubato tutto e noi non potevamo nemmeno toccare. Tutto era verboten, proibito, tutto era esclusiva proprietà del Reich. Noi pure, noi per primi. Ci insegnarono il lavoro, ci insegnarono rudemente a scegliere tra quanto continuamente, senza sosta ci arrivava, in grande quantità, ogni giorno, e a dividere il meglio dal peggio. Gli stracci, i Lumpen, da una parte, le cose migliori e utilizzabili da inviare ai buoni cittadini del Reich da un’altra. A noi una copertaccia nera e un paio di ruvidi, scomodi zoccoli, a loro calde coperte, piumini, comode scarpe di pelle, orologi, tappeti... Oro, gioielli, brillanti, beni preziosi, medicine – così necessarie nel campo – soldi dovevano essere consegnati agli ufficiali delle SS che ci controllavano minuto per minuto, dalla mattina alla sera. Se un ufficiale vedeva che una di noi tentava di “organizzare”, di rubare un gioiello, estraeva la rivoltella e, a bruciapelo, uccideva la ladra. Alla fine del turno, prima di tornare in baracca, venivamo perquisite. In fila, tutte nude, con la divisa in mano. Le SS, senza alcun riguardo, erano pronte a esplorare persino il nostro corpo anche nelle parti più intime.

Ogni giorno toccava a noi selezionare, accoppiare, fare grossi pacchi che, una volta riportati sulla rampa ferroviaria, prendevano strade per noi allora sconosciute. Poi abbiamo saputo che erano quelle non solo per la Germania ma anche per la Svizzera, per il Brasile, per l'Argentina. Anche l'oro dei denti dei nostri morti è finito lì. Noi non potevamo prendere nulla, ma gli ufficiali delle SS si servivano in abbondanza. Per se stessi e per le loro mogli. Quando arrivava un trasporto "ricco", non dai ghetti ma come quelli degli ebrei ungheresi, dovevi vedere come si precipitavano. Come falchi. Anche le ragazze del Kanada rubavano, sfidando la morte, per sé e per le loro compagne del campo.

La camera a gas

Anch'io finii davanti all'entrata della camera a gas. Con altre compagne avevo gettato del pane a persone di un trasporto appena arrivato. In attesa del loro ignoto appuntamento con l'inferno delle SS. Le kapò ci avevano scoperte e alcune di noi, forse quelle che già da prima venivano tenute sotto un più attento controllo, furono subito portate con la forza nel cortile del crematorio. Mentre eravamo sul piazzale in attesa che la camera a gas si rendesse disponibile, arrivò con la sua motocicletta una hauserka, una delle guardiane SS, le più cattive e perverse. Erano sempre rabbiose, violente, giravano per il campo in motocicletta e sempre accompagnate da un cane persino più rabbioso di loro. Mi guardò, pensò forse che mi avevano mandato al crematorio perché non più idonea al lavoro. Ma evidentemente il mio aspetto non era tale da giustificare questa decisione. Mi urlò, quindi: "Augenfressen, zu arbeiten", tu stai bene, vai a lavorare. "Zu arbeiten". Non me lo feci ripetere un'altra volta e tornai, e di corsa, al lavoro. Forse non furono nemmeno le sue parole a salvarmi, anche se furono determinanti in quel momento. Mi salvò ancor prima il fatto che la camera a gas era troppo affollata, che era già impegnata nella sua quotidiana opera di sterminio. In ogni modo se l'hauserka fosse passata mezz'ora più tardi, anch'io sarei diventata fumo.

Il ritorno

Ero rientrata a Trieste con un paio di scarpette da ciclista che mi aveva regalato un soldato italiano. Ero tornata dall’inferno di Auschwitz nuda e cruda, tenendo per mano mia sorella. Ed era come se nulla fosse accaduto. Trovammo che casa nostra era stata occupata da un fascista con la sua famiglia. Era stata data a lui, per chissà quali alti meriti, così come l’avevamo lasciata. Con ancora le posate sul tavolo, con le nostre provviste, con il pranzo già preparato sui fornelli, con la biancheria pulita pronta a sostituire quella da lavare. Con i nostri giochi di ragazzi e con i nostri libri.

La vita di una persona è fatta anche di tanti oggetti, piccoli o grandi, spesso di nessun valore o apparentemente insignificanti per gli altri. Ma per quella persona e solo per lei hanno valore inestimabile. Sono legati a un ricordo, a una amicizia: una penna, una spazzola, un nastrino, una fotografia. Io non sono riuscita a recuperare neanche un oggetto, una piccola cosa della mia vita passata. Come volevano i nazisti, nel loro lucido piano criminale. Niente oggetti, niente ricordi, niente vita. Il fascista che aveva occupato la nostra casa non aveva alcuna intenzione di ridarcela. Fummo perciò costrette a chiedere ospitalità, almeno un letto dove dormire, a qualche conoscente.

Ritorno a Birkenau
Poi abbiamo cercato di ricostruirci una vita. Abbiamo frugato nelle case dei nostri parenti, che erano sopravvissuti alla Shoah, per cercare qualcosa della nostra famiglia. Anche solo una fotografia che potesse alimentare i nostri ricordi di un tempo felice. Che potesse ridarci il volto dei nostri famigliari scomparsi nel cielo polacco... Abbiamo elemosinato i nostri ricordi.
Poi mi sono sposata, povera, senza un soldo. Anche Stellina si è sposata. Poi i ricordi, le notti d'angoscia, l'incubo continuo di nome Birkenau l'hanno sopraffatta. Ci ha lasciati. Io ho avuto un figlio e il regalo di due nipoti. Anche Giacomo si è sposato e ha avuto quattro figli e quattro nipoti. ... Mio marito aveva un laboratorio di cioccolata, una cioccolateria - che ancora oggi gestisco con mio figlio.
Oggi mi chiedono più volte se ho mai pensato di tornare ad Auschwitz, di tornare a camminare, da persona libera, tra le baracche di Birkenau. Non sarei mai voluta tornarci. Poi alcuni superstiti, e tra questi Shlomo Venezia, che abita a Roma e con il quale mi incontro continuamente, e il sindaco della mia città mi hanno convinto a fare con loro un viaggio-studio al quale avrebbero partecipato numerosi studenti e professori.
Sono tornata ma, devo dire la verità, soprattutto per ricordare i miei, per portare alcuni sassi sulla Judenrampe! Perché sentissero che io sono sempre, in ogni momento della mia vita, il giorno come la notte, nel dolore e nella felicità, con loro.
Perché ogni notte io torno a Birkenau.C'è anche chi afferma che è giunto il momento di perdonare.Io non posso perdonare. Non perdonerò mai.

Il libro

LA SPOSA GENTILE - Lia Levi

Un banchiere ebreo, sposa una contadina cristiana…

Questa stringatissima frase, riportata quasi come una notizia, potrebbe rappresentare il “nocciolo fondante” del nuovo ottimo romanzo di Lia Levi: “La sposa gentile”.
Naturalmente c’è molto altro…

Siamo agli inizi del Novecento e Amos, giovane banchiere ebreo di una cittadina piemontese, avverte l’esigenza di crearsi una solida famiglia su cui investire la propria esistenza. I suoi parenti, soprattutto le donne della famiglia, lo indirizzano verso alcune giovani che farebbero al caso suo. Ma i sentimenti non possono essere pilotati. Così, quando Amos incontra la bella Teresa decide di amarla senza tener conto delle differenze sociali e dell’appartenenza a religioni diverse. Perché Teresa è una contadina cristiana.

Può, però, una famiglia ebraica, rispettabile, bene in vista… consentire a un proprio figlio di condividere la vita con una “sposa gentile”?

Il termine «gentile» ha, nella fattispecie, un duplice significato: il primo fa riferimento alla docilità della giovane - alla sua capacità di adattamento alle circostanze della vita - ; il secondo, nell’accezione ebraica, indica qualcuno che «appartiene a un altro popolo» (derivazione dal latino gens: «gente», «genti»).

Il termine «gentile», dunque, si «sposa» perfettamente con il personaggio Teresa, poiché la giovane contadina cristiana è dotata di una mitezza tale da indurla a “rinunciare” al proprio credo e ad abbracciare quello del suo uomo (proprio per evitare che questi subisca l’inevitabile ostracismo della comunità ebraica della famiglia di appartenenza). E nel farlo si allontanerà anche dai propri cari (Teresa non è solo cristiana: è anche una contadina… una ragazza dalle umili origini, dunque).

Ma fino a che punto è possibile scrollarsi di dosso le proprie origini? Fino a che punto la propria fede può essere addomesticata per assecondare le esigenze della persona con cui si è deciso di vivere?

Con la scrittura cristallina e suggestiva a cui ci ha abituati, Lia Levi tratteggia una storia famigliare che incrocia quella della prima parte del Novecento, rivelando alcune peculiarità del popolo ebraico e fermandosi alle soglie del 1938: l’anno delle leggi razziali fasciste.

La scelta di Sophie di Alan J. Pakula


Trama


Siamo negli Stati Uniti NEL 1947. La seconda guerra mondiale e terminata. Stingo, un giovane della Virginia, aspirante scrittore, ha lasciato l'uniforme dei Marines e la fattoria paterna per cercare fortuna a New York. Si e installato a Brooklyn in una casa bizzarra, dipinta di rosa. La sua tranquilla e fervida vita di scrittore e turbata dai rapporti spesso tempestosi di una coppia che abita al piano superiore, composta da Sophie Zanistowski, una bella polacca immigrata dopo aver subito la terribile esperienza del campo di sterminio di Auschwitz, e Nathan Landau, un intellettuale ebreo, brillante, raffinato, ma con variazioni d'umore sconcertanti, ossessionato dall'olocausto nazista che ha sterminato sei milioni di ebrei. Fra i tre nasce un'amicizia profonda.
Cosi Stingo e coinvolto e anche plagiato da ricordi, emozioni, fobie di un mondo che non conosce mentre cresce in lui e si rinvigorisce un legame amoroso che lo vincola a Sophie, anche perche, aumentando la confidenza, la donna gli racconta tutta la sua vita. Affiora cosi una triste e drammatica realta. Il padre di Sophie, professore all'universita di Cracovia, esaltato dalla figlia come uomo buono e giusto, era invece un amico dei nazisti e un sostenitore dello sterminio degli ebrei. Lei stessa e stata deportata con i due figli ad Auschwitz e, costretta a scegliere tra i suoi due figli, ha abbandonato la sua bimba alla morte e, pur di salvarsi e salvare il figlio Jan, ha collaborato, come segretaria, con Hoess, il boia di Auschwitz. E' una lunga confessione, che avviene a tratti, con impressionanti flashback, mentre il rapporto a tre continua a volte tranquillo a volte tempestoso, secondo il variare degli umori di Nathan che, come viene rivelato dal fratello medico a Stingo, e affetto da schizofrenia paranoide e, per di piu, drogato. La vicenda sembra risolversi positivamente quando Sophie e Stingo partono per la Virginia e il giovane propone alla donna di sposarlo. Sophie si concede a Stingo, ma poi lo abbandona, attirata come in una volutta di autodistruzione dal fatale amore di Nathan.

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"Elle s'appelait Sarah" di Gilles Paquet Brenner

Un film incentrato, come “Vento di Primavera” di Rose Bosch, sulla storia ancora poco nota della retata del Velodromo d'Inverno di Parigi (16-17 Luglio 1942) .

Sembrerebbe l'ennesimo film su questa retata, probabilmente realizzato sulla scia del successo del film della Bosch, ma non è così.

“Elle S'appelait Sarah” di Gilles Paquet Brenner, tratto dal romanzo “La chiave di Sarah” di Tatiana de Rosnay, edito in Italia da Mondadori, è uno dei migliori prodotti di fiction realizzati in questi ultimissimi anni.

Il suo punto di forza: l'essere una fiction tratta da una storia di fantasia, capace di trascinare il lettore dentro il più grande buco nero della storia, senza cedere a facili o retorici sentimentalismi, in grado di dare un happy end troppo mieloso. Il regista riesce totalmente nel combinare una fiction basata su un romanzo di fantasia con l'incisività e il trascinamento delle immagini, che solo le fiction tratte da storie vere riescono a fornire.

Quel trascinamento che porta lo spettatore a non distinguere più dove sia la fiction e dove sia la realtà, a cui sono arrivate solo poche e incisive pellicole sulla Shoah, come “Schindler's List” o “La Passeggera”.

E' una operazione, questa, nella quale non è riuscita neppure ad arrivare Rose Bosch con “Vento di Primavera”, che pure è basata su vicende e documenti reali, a differenza della fiction della Brenner, che di reale ha la ricostruzione della rafle del Vel D Hiv, ma non i personaggi di questa terribile storia.

Come nel romanzo da cui è tratto, il film intreccia le vicende di due donne, che finiscono con l'incontrarsi sul filo rosso della memoria e della storia.

Sono entrambe di Parigi, ma appartengono a due mondi diversi e due epoche diverse. Sarah Starzynski è una bambina ebrea di origine polacca che vive con i genitori e il fratellino Michel in rue de Saintonge, nel 1942.

Julia Jarmond (interpretata da una Sarah Scott Thomas per me in uno stato di grazia assoluta) è una giornalista di origine americana in carriera nella Ville Lumiere, sposata con un francese, che, sessant’anni dopo, viene incaricata dal suo direttore, di preparare un dossier sugli ebrei parigini deportati nei campi di sterminio dal Vel D'Hiv.

Il destino delle due donne è destinato a ricongiungersi nel corso delle indagini di Julia. Già, a ricongiungersi, non a incontrarsi, perchè Julia non impiegherà molto a scoprire un terribile segreto che lega la sua famiglia al destino di Sarah, e a una scoperta terribile sul destino di questa bambina.

Un destino in cui c'è una bambina e una chiave (“La chiave di Sarah” è il titolo italiano del romanzo da cui il film è tratto) in grado, se usata in tempo, di dare ancora sopravvivenza. Una sopravvivenza che però, tragicamente, non arriverà in tempo.

Un film melodrammatico e coinvolgente, con flashback a colori in grado però di coinvolgerti, con i suoi primi piani dei corpi sudati degli ebrei deportati e accalcati a migliaia nello stadio del velodromo di Parigi, e coi primi piani degli escrementi, in mezzo ai quali erano costretti a vivere. Se queste scene fossero state girate in bianco e nero come in “Schindler's List” , il coinvolgimento non raggiungerebbe lo stesso livello. Un film che è alta poesia, come la poesia “Elle S'Appelait Sarah” scritta da Jean-Jacques Goldman nel 1982, in memoria di una bambina ebrea dal destino simile a quello della protagonista, a cui il titolo del film si rifà.


Elle s’appelait Sarah
Elle n’avait pas huit ans.
Sa vie, c’était douceur,
Rêves et nuages blancs.
Mais d’autres gens en avaient décidé autrement.

Si chiamava Sarah, non aveva otto anni. La sua vita era dolcezza, sogni e nuvole bianche.
Ma altre persone avevano deciso che non dovesse essere così.

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