sabato 12 novembre 2011

Jerzy Bielecki, il "Romeo di Auschwitz" se n'è andato a novant'anni


Si erano conosciuti nel più tristemente noto dei campi di concentramento; era stato amore a prima vista tra il soldato polacco e la fanciulla ebrea, unica sopravvissuta alla strage della sua famiglia. Lui la aiutò a fuggire, poi il destino li separò per trentanove anni

L’amore, si sa, non conosce distinzioni geografiche, etniche, sociali o religiose; è sempre stato così, persino quando in Europa, eterna colpa, si moriva nei campi di concentramento perché zingari o perché ebrei. Anche durante quegli anni bui qualcuno osò sfidare la paura e l’ingiustizia in nome di un sentimento o di un ideale: Jerzy Bielecki fu uno tra questi uomini, un Giusto tra le nazioni secondo il titolo onorifico che gli fu conferito nel 1985 dall’istituto Yad Vashen, il memoriale ufficiale di Israele delle vittime della Shoah.

Il soprannome di «Romeo di Auschwitz» che qualcuno gli ha attribuito non rende giustizia alla sua storia, senza dubbio assai diversa da quella dei due amanti veronesi: altri tempi, altri ostacoli, altri destini. Ma forse una storia così commovente e, al tempo stesso, così intrisa di passione non poteva che far pensare al dramma shakespeariano a chi, per primo, raccolse la testimonianza di questi due amanti che sfidarono la malvagità che corrompeva i loro tempi, ma finirono separati dall’oceano, senza poter vivere il loro amore.

Jerzy Bielecki, aveva 19 anni quando venne catturato dalla Gestapo nei pressi del confine ungherese; polacco, cattolico romano, si era arruolato nell’esercito nazionale allo scoppio del conflitto mondiale ed era sospettato di essere un membro della Resistenza. Nel giro di poche settimane, si stabilì il suo trasferimento, assieme a più di settecento prigionieri politici suoi connazionali, in una struttura appena costruita, il campo di concentramento di Auschwitz; il numero che gli fu assegnato fu il 243 ed egli fu uno dei primi a poter vedere quella mostruosità sorta nel cuore dell’Europa. A salvarlo dalla morte contribuì una discreta conoscenza della lingua tedesca che il soldato poteva vantare: passò dunque quegli anni di prigionia ai lavori forzati, presso un magazzino di cereali del lager, di cui, praticamente, divenne un anziano.



Lì nell’inferno che accoglieva i suoi dannati con quella derisoria affermazione, Arbeit macht frei, il soldato polacco conobbe il suo amore: nonostante l’abbrutimento, nonostante la non-vita del campo che trasformava tutti in quanto di più lontano era possibile immaginare dalla loro umanità, quell’uomo riuscì a salvare un pezzo della propria anima dalle grinfie naziste e consacrarla all’amore per una ragazza ebrea, Cyla Cybulska, il prigioniero numero 29558.

Giunta circa tre anni dopo l’arrivo di Jerzy, era stata deportata assieme ai suoi genitori, ai due fratelli e alla sorellina: fu lei la sola a salvarsi della sua intera famiglia. Lavorava nel medesimo mulino in cui il soldato polacco era stato impiegato, era addetta alla riparazione dei sacchi che contenevano il grano e con i suoi capelli neri si fece notare dal giovane. Poche furtive parole si scambiarono durante tutti i mesi successivi: sufficienti per farli innamorare e per far prendere la decisione a Jerzy Bielecki di fuggire da quell’orrore, assieme alla ragazza.

Si cucì una falsa divisa da nazista, si procurò un pass rubato ed un documento che autorizzava il trasferimento della prigioniera in una vicina fattoria: il tedesco, certamente perfezionato negli anni, gli fu d’aiuto nell’esecuzione del piano. Fuggirono, miracolosamente: era il 21 giugno del 1944, da allora camminarono per dieci giorni e dieci notti fino a giungere alla fattoria di uno zio di Bielecki, dove Cyla Cybulska trovò rifugio e ristoro, mentre il soldato partì per unirsi alla Resistenza.

Da allora i contatti tra i due, che durante le lunghe ore di quella fuga impossibile avevano progettato il loro futuro assieme, si persero; ciascuno si costruì la propria vita, lui nella sua amata terra, lei spostandosi prima in Svezia, poi negli Stati Uniti, al seguito del marito, un ebreo chiamato David Zacharowicz anch’egli sopravvissuto all’olocausto. Un giorno del 1983, ormai vedova, questa signora di una certa età, raccontava al telefono, alla sua donna delle pulizie polacca, la storia di come venne salvata dal campo di concentramento; la donna rispose di aver sentito del medesimo episodio narrato da un uomo poco tempo prima, su una rete della televisione polacca.


Il destino che li aveva separati, si mise nuovamente di mezzo per unirli, anche se per poco: una telefonata riaprì quella vecchia storia e così i due si incontrarono all’aeroporto di Cracovia, dove egli si presentò con un mazzo di 39 rose rosse, quanti erano stati gli anni di separazione. Un incontro che suggellò l’amicizia eterna di queste due persone che non poterono, tuttavia, mai amarsi in gioventù. «Qualche volta ho pianto dopo la guerra perché lei non era con me. Il fato decise le nostre sorti…» dichiarò una volta in un’intervista Jerzy Bielecki; pochi giorni fa (25 Ottobre 2011), lo stesso fato ne ha deciso la morte, a novant’anni nella sua cittadina, Nowy Targ. Mentre una Messa ne celebrava l’ingresso nell’aldilà, a Gerusalemme una candela ha ricordato questo giusto.

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