venerdì 27 gennaio 2012

Un viaggio alla scoperta delle radici


Un film che porta dentro la storia di una famiglia, un viaggio alla ricerca delle proprie radici: questo è Mamaliga Blues, un documentario realizzato dal regista brasiliano Cassio Tolpolar, ebreo di Porto Alegre, la cui famiglia paterna era originaria della Moldavia. Ed è proprio da questo Paese (che all’epoca della seconda guerra mondiale faceva parte della Bessarabia), che viene il piatto chiamato ‘mamaliga’: una specie di polenta, molto consumata dai rumeni e dai moldavi. “E tornare alle nostre radici assomigliava alla mamaliga: qualcosa di basico, caldo e famigliare”, raccontano i Tolpolar.

Il documentario, di 80 minuti, segue il viaggio del regista con il padre Mauro e la sorella Kerley, alla ricerca della tomba dei suoi bisnonni, oggi l’unica testimonianza della presenza dei Tolpolar in quel Paese. Il resto della famiglia fu infatti sterminato durante la Shoah: si salvarono solo i nonni paterni, che si erano trasferiti in Brasile nel 1931.

Alla ricerca della propria storia

“Solo dopo 77 anni, nel 2008, io, mio padre e mia sorella siamo tornati in Moldavia – continua Cassio Tolpolar -. Non ho mai conosciuto i miei nonni e nessun’altro della famiglia ha mai potuto raccontarci qualcosa delle loro vite. I Tolpolar che rimasero in Bessarabia scomparvero durante la Shoà, e di loro sappiamo ancora meno. Tornare lì significava dunque stabilire una connessione con la famiglia, ma non solo: voleva anche dire scoprire cosa era successo ai nostri parenti che furono uccisi dai nazisti e dai loro simpatizzanti”.

Girando per città e villaggi moldavi, toccano con mano la triste realtà della popolazione ebraica di oggi: sempre più esigua, non si sta rinnovando, sta invecchiando, e con essa stanno morendo i suoi ricordi. Ma soprattutto, vedono con i propri occhi la rovina che domina sui monumenti e gli edifici ebraici. Con in mano una fotografia sgualcita della tomba, guidano in mezzo ad antichi villaggi, camminano in mezzo ai cespugli di cimiteri abbandonati, e incontrano persone del luogo. “Siamo riusciti a localizzare in mezzo ai boschi il sito in cui fu sterminata la nostra famiglia, ma non la tomba”. Solo due mesi dopo, la loro guida moldava li avvisa che ha trovato il cimitero dei bisnonni: è situato a Vadul-Rakov, ed è uno dei più impressionanti e intonsi dell’Europa orientale. Che sarebbe rimasto non documentato, senza questo film.

Grazie alle originali riprese di una videocamera portatile, il documentario comunica con un grande realismo le visite, gli incontri e le scoperte dei Tolpolar in questo viaggio all’indietro nella memoria. Inoltre, l’accostamento di fotografie vecchie con alcune più nuove ricrea un mondo che non esiste più, mentre le mappe e i grafici proposti guidano gli spettatori in questo itinerario.

Un’altra particolarità di questo film è la ricchezza del linguaggio: ben 5 gli idiomi utilizzati (inglese, portoghese, russo, rumeno e yddish), tradotti nei sottotitoli in inglese, rappresentano bene il particolare collage di suoni e culture di questa esperienza.

La prossima tappa e la raccolta fondi

Dopo il primo viaggio del 2008, la famiglia Tolpolar si prepara a compierne un altro, sempre in Moldavia, per girare le scene finali: il regista Cassio, con sua moglie e la sua figlioletta Melina in Vadul Raskov, a rappresentare la ricostruzione di un ponte fra passato e presente. Per fare ciò, la famiglia e lo staff che la affianca ha avviato una raccolta fondi fra amici, parenti e chiunque sia interessato ad aiutarli a trovare i 15.000 dollari che servono per realizzare questa importante fase finale, per riuscire a finire questo ponte della memoria, prima che la tomba sia totalmente rosa dal tempo. “La vecchia tomba, parzialmente distrutta, ma sempre imponente, sta di fronte a noi – spiega il regista-. Mia figlia, che è nata e vive a Los Angeles, gioca nei campi abbandonati circostanti. Come me, mio padre, i miei nonni, e molti altri discendenti di quelli che lasciarono al Bessarabia, lei è una sopravvissuta”.

Ricordo di Gertrud Kolmar


Gertrud Kolmar (1894-1943) cresce a Berlino in una famiglia della borghesia ebrea. Come tanti altri ebrei assimilati, scopre la sua fede e l’appartenenza al suo popolo proprio nel momento in cui cominciano le persecuzioni razziali.

Il raggio della sua vita, già volutamente ristretto, diminuisce sempre di più, mentre, nella stessa misura in cui le viene negato il mondo esteriore, Kolmar trova dentro di sé tutta la pienezza: un ampio universo del reale e del surreale, del tragico e del barocco, una fonte inesauribile di vita e di forti sentimenti. La sua poesia, perfino negli anni Venti, quando per un breve periodo ebbe un discreto successo, non si piegò mai ai gusti letterari del suo tempo, ma fu sempre la massima espressione di una vasta e incorruttibile libertà interiore.

Kolmar, che in seguito ad una drammatica storia d’amore non si era sposata, visse per tutta la vita con i propri genitori. Quando, nei tardi anni Trenta, le si presenta la possibilità di fuggire dalla Germania nazista, sceglie di rimanere col suo vecchio padre a Berlino. Vive lucidamente tutte le tappe, dalla emarginazione alla discriminazione, fino all’ultima conseguenza: la deportazione nel 1943 ad Auschwitz dove si perdono le sue tracce.

Gertrud Kolmar non si oppone, ma vive il crudele destino del suo popolo con fierezza come un vero olocausto, un sacrificio cioè. Alla sorella Hilde, emigrata in Svizzera, scrive poco prima della sua morte che non è importante essere felice, ma compiere il proprio destino.

Come Etty Hillesum, sorella nello spirito, anche Gertrud Kolmar colse nella terribilità della sua sorte la possibilità liberatoria di sfidare se stessa fino in fondo, intensificando, in un arco di tempo relativamente breve, la propria esistenza, in modo tale che la morte non poteva più minacciare una tale ricchezza.

______________________________

Gertrud Kolmar – Das Tier

Komm her. Und siehe meinen Tod, und siehe dieses
ewige Ach,
Die letzte Welle, die verläuft, durchzitternd meine
Flaus,
Und wisse, daß mein Fuß bekrallt und daß er flüchtig
war und schwach,
Und frag nicht, ob ich Hase sei, das Eichhorn, eine
Maus.
Denn dies ist gleich. Wohl bin ich dir nur immer böse
oder gut;
Der Willkürherrscher heißest du, der das Gesetz erdenkt,
Der das nach seinen Gliedern mißt wie seinen Mantel,
seinen Hut.
Und in den Mauern seiner Stadt den Fremdling drückt
und kränkt.
Die Menschen, die du einst zerfetzt: an ihren Gräbern
liegst du stumm;
Sie wurden leidend Heilige, die goldnes Mal verschloß,
Du trägst der toten Mutter Haut und hängst sie deinem

Kinde um,

Schenkst Spielwerk, das der blutigen Stirn Gemarteter

entsproß.
Denn lebend sind wir Vieh und Wild; wir fallen:
Beute, Fleisch und Fraß –
Kein Meerestau, kein Erdenkorn, das rückhaltlos ihr
gönnt.
Mit Höll und Himmel schlaft ihr ein; wenn wir
verrecken , sind wir Aas,
Ihr aber klagt den Gram, daß ihr uns nicht mehr
morden könnt.
Einst gab ich meine Bilder her, zu denen du gebetet
hast,
Bis du den Menschengott erkannt, der nicht mehr
Tiergott blieb,
Und meinen Nachwuchs ausgemerzt und meinem Quell
in Stein gefaßt
Und eines Höchsten Satz genannt, was deine Gierde
schrieb.
Und hast die Hoffnung und den Stolz, das Jenseits, hast
noch Lohn zum Leid,
Der, unantastbar dazusein, in deine Seele flieht;
Ich aber dulde tausendfach, im Federhemd, im
Schuppenkleid,
Und bin der Teppich, wenn du weinst, darauf dein
Jammer kniet.

*** *** ***

L’animale

Vieni qui. E vedi la mia morte e vedi questo
eterno patire,

L’ultima onda che tremando si perde sul mio

pelo,
E sappi che il mio piede con gli artigli fu
debole e sfuggente,
E non chiedere se sono lepre, scoiattolo, o
topo.
Perché non importa. Sempre ti voglio male
o bene;
Sei il tiranno che inventa la legge,
E la misura secondo le sue membra, come fosse il suo mantello,
il suo cappello.
E tra le mura della sua città lo straniero
stringe e offende.
Muto ti adagi sulle tombe degli uomini
Fatti a pezzi da te;
Soffrendo, diventarono santi, cinti d’oro.
Porti la pelle della madre morta e la metti addosso
a tuo figlio,
Regali giochi sbocciati dalla fronte insanguinata
dei martiri.
Perché in vita siamo bestiame e selvaggina; cadiamo:
preda, carne e pasto –
Non rugiada di mare, né raccolto di terra che voi senza riserva
concedete.
Con l’inferno ed il cielo vi addormentate; quando
crepiamo siamo carogne,
Ma il vostro cruccio è che non ci potete più
ammazzare.
A chi un tempo pregasti, io diedi le mie
immagini,
Finché riconoscesti il dio dell’uomo, non più
il dio degli animali,
Ed estirpasti la mia prole e chiudesti tra pietre
la mia fonte
E ciò che scrisse la tua brama chiamasti
una frase dell’Altissimo.
E tu hai la speranza e l’orgoglio, l’al di là, e ancora hai
del soffrire la ricompensa
Che si rifugia inviolabile nella tua anima;
Ma in una veste di piume e squame, io sopporto
mille volte,
E se tu piangi, sono il tappeto, sopra cui s’inginocchia
la tua pena.

Dal "Diario" di Etty Hillesum

Giovane scrittrice ebrea, morta ad Auschwitz, ho tratto questa preghiera che scrisse in una delle sue ultime lettere e, nonostante avesse già intravisto l'approssimarsi della morte, le sue parole sono di ringraziamento a Dio !


“Mi hai resa così ricca, mio Dio. Lasciami dispensare anche agli altri questa ricchezza a piene mani.

La mia vita è diventata un colloquio ininterrotto con Te, mio Dio, un unico grande colloquio.

A volte, quando me ne sto in un angolino del campo con i piedi piantati sulla tua terra e gli occhi rivolti al tuo cielo, le lacrime mi scorrono in faccia, lacrime che sgorgano da una profonda emozione e riconoscenza.

Anche la sera quando sono coricata e riposo in Te, mio Dio, lacrime di riconoscenza mi scorrono in faccia e questa è ormai la mia preghiera.

Sono molto, molto stanca, già da diversi giorni, ma anche questo passerà. Tutto avviene secondo un ritmo profondo che bisognerebbe imparare ad ascoltare e questo imparare ad ascoltare è la cosa più importante che si possa fare in questa vita.

Io non combatto contro di Te, mio Dio.

Tutta la mia vita è un unico grande colloquio con Te.

Forse non diventerò mai una grande artista come in fondo vorrei, ma mi sento già fin troppo al sicuro con Te.

A volte vorrei comporre delle piccole massime o scrivere storie appassionanti, ma poi mi ritrovo pienamente in una sola parola: Dio, e questa parola contiene tutto e allora non ho più bisogno di dire altre cose.

E la mia forza creatrice si tramuta in un colloquio interiore con Te e le ondate del cuore sono diventate via via lunghe e mosse, ma insieme anche tranquille. E mi sembra che la mia ricchezza interiore continuamente cresca ancora”.

Il silenzio dei vivi. All'ombra di Auschwitz, un racconto di morte e di resurrezione


TRAMA: Elisa Springer aveva ventisei anni quando venne arrestata a Milano, dove era stata mandata dalla famiglia per cercare rifugio contro la persecuzione nazista, quindi fu deportata a Auschwitz il 2 agosto 1944. Salvata dalla camera a gas dal gesto generoso di un Kapò, Elisa sperimenta l'orrore del più grande campo di sterminio. Eppure conserva il desiderio di vivere e una serie di fortunate coincidenze le consentiranno di tornare prima nella sua Vienna natale e poi in Italia. Da questo momento la sua storia cade nel silenzio assoluto, la sua vita si normalizza nasce un figlio e proprio la maternità è il segno della riscossa. È per lui che Elisa ritrova le parole che sembravano perdute per raccontare il suo dramma.

AUTRICE: Elisa Springer nasce a Vienna nel 1918 da una famiglia di commercianti ebrei. Con le persecuzioni ebraiche in Austria, Elisa decide di rifugiarsi in Italia, dove si trasferisce nel 1940. Denunciata alle SS da una donna italiana, viene arrestata e deportata ad Auschwitz, "deserto di morte senza speranza". All'età di ventisei anni, Elisa vive le atrocità del regime nazista, cominciando un raccapricciante cammino verso la spersonalizzazione, vittima di un mondo che "stava perdendo il suo io, il suo Dio". Tuttavia la forza fisica e spirituale della donna ne rivelano una capacità di resistenza straordinaria, un bisogno incontenibile di credere ancora nella vita, nonostante il supplizio di quei giorni. Elisa sopravvive e costruisce una nuova vita in Italia. Come molti altri reduci dai campi di sterminio, vive, decide di soffocare il suo dolore nel silenzio: per paura di non essere accettata nasconde sotto un cerotto il marchio tatuato nel campo di Auschwitz sull'avambraccio sinistro. La paura di sentirsi diversa, osservata da chi, non potendo comprendere a pieno il significato di quell'esperienza, rispondeva con scherno e indifferenza, la portano a tacere fino a che Silvio, il figlio di vent'anni, volendo capire il passato della madre, la interroga cercando verità fino ad allora represse. Elisa decide così, all'età di settantotto anni, di parlare "per non dimenticare a quali aberrazioni può condurre l'odio razziale e l'intolleranza, non il rito del ricordo, ma la cultura della memoria". Il racconto dei giorni trascorsi nei lager, redatto in italiano, non solo rende giustizia ai martiri che ne fecero esperienza, non solo permette a Elisa di riacquistare un'identità celata ormai da cinquant'anni, ma parla anche alla coscienza di ogni suo lettore. Inno alla forza della vita, le parole di questa donna non lasciano spazio all'incredulità e all'indifferenza; lucido ricordo di una vita dominata dal silenzio, il libro di Elisa Springer diventa testimonianza di un passato, anche italiano, da non rimuovere.

ESTRATTO: “Lo strazio più grande, in questi cinquant'anni e stato quello di dover subire l'indifferenza e la vigliaccheria di coloro che, ancora adesso, negano l'evidenza dello sterminio. Come tanti altri sopravvissuti mi ero imposta di non parlare, di soffocare le mie lacrime nello spazio più profondo e nascosto della mia anima, per essere io sola, testimone del mio silenzio; così e stato fino a oggi!"

<...> "Ho taciuto e soffocato il mio vero "io", le mie paure, per il timore di non essere capita o, peggio ancora, creduta. Ho soffocato i miei ricordi, vivendo nel silenzio una vita che non era la mia; non è giusto che io muoia, portando con me il mio silenzio."

Volo Via (cortometraggio sulla Shoah)


Tratto da una storia vera. Uno dei peggiori episodi di violenza nei confronti dei piccoli riguarda il trasporto da Auschwitz a Neuengamme di venti bambini, nel novembre del 1944.

27 GENNAIO - PER NON DIMENTICARE


Giornata della memoria

La storia che non si conosce è destinata a ripetersi. Abbiamo il dovere di ricordare, abbiamo il dovere di capire che il male non è un’entità astratta e mostruosa fuori di noi, ma è in noi, potente e mostruoso, il male è non capire che dobbiamo rispecchiarci nel volto dell’altro e che ogni essere umano è mio fratello, di cui debbo prendermi cura.

Oggi, il giorno della memoria. Fiumi, deliri di parole.

Pochi o tanti chissà, ma abbiamo il dovere di ricordare perchè il male è dentro di noi e può prendere corpo e mostrare la sua mostruosità in qualsiasi momento. Un popolo che non ricorda è costretto a ripetere la storia e chi impone il proprio dominio vuole proprio questo che dimentichiamo o copriamo con tonnellate di retorica ciò che è stato.

mercoledì 18 gennaio 2012

La chiave di Sara

TRAILER


Parigi, ai giorni nostri. Julia Jarmond, giornalista americana che vive in Francia da 20 anni, sta facendo un'inchiesta sui dolorosi fatti del Velodromo D'inverno, il luogo in cui vennero concentrati migliaia di ebrei parigini prima di essere deportati nei campi di concentramento.

Lavorando alla ricostruzione degli avvenimenti si imbatte in Sara, una donna che aveva 10 anni nel luglio del 1942, e ciò che per Julia era solo materiale per un articolo, diventa una questione personale, qualcosa che potrebbe essere legato ad un mistero della sua famiglia.

A 60 anni di distanza è possibile che due destini si incrocino portando alla luce un segreto che sconvolgerà per sempre la vita di Julia e dei suoi cari?

A volte una verità che appartiene al passato comporta un prezzo da pagare nel presente...

mercoledì 11 gennaio 2012

1945 - Il viaggio di Hans Jonas


Nel 1945 Hans Jonas torna a casa, a Mönchengladbach in Germania. Manca da più di dieci anni. Nel '33 è scappato dai nazisti. È fuggito a Londra, poi a Gerusalemme. Poi è scoppiata la guerra. Nel '44 si è arruolato nelle Brigate ebraiche, esercito britannico, è da lì è iniziato il suo viaggio di ritorno.

La campagna d'Africa, lo sbarco in Sicilia, l'Italia intera fino alle Alpi, l'Austria, la Germania. La battaglia vinta da Jonas contro il nazismo sta tutta in questo viaggio, dove l'ebreo tedesco in divisa riconquista il terreno perduto e le truppe di Hitler si ritirano come un virus debellato dalla cura.

Ma quando Jonas bussa alla porta della casa dove è vissuto insieme al padre, alla madre e al fratello, non trova più nulla. Nuova gente ha occupato la casa, approfittando dell'esproprio nazista. Quello che gli apparteneva, gli è stato tolto. Allora cerca sua madre, ma anche lei gli è stata tolta: è morta ad Auschwitz. Allora cerca il suo editore, ma si è rifugiato in qualche cantina e non pubblica più da anni.

Jonas è rimpatriato in un deserto, in una patria azzerata. Basta questo per dire un'altra volta addio. Trascorrerà il resto della sua vita in Israele e negli Stati Uniti. Tornerà in Germania solo per conferenze o viaggi di studio. Ci spiegherà che dobbiamo darci un'etica biologica, ci insegnerà il principio di responsabilità verso il mondo in cui viviamo, che ci contiene e nutre.

"Caserme rosse". Il lager di Bologna


A Bologna, in via di Corticella al civico 147, si trova il portale di ingresso di ciò che resta del “lager di Bologna” dopo il bombardamento aereo alleato del 12 ottobre 1944, che demolì oltre il 90% della cubatura dei fabbricati allora esistenti, dove erano rinchiusi migliaia di rastrellati in attesa della deportazione. Cinque dei sei imponenti fabbricati a forma di U, le palazzine comando, altri fabbricati minori, sotto il peso distruttivo di 750 ordigni da 100 libbre sganciati durante l’attacco aereo del 47° Bomb Wing dell’Air Force americana che avvenne dalle ore 12 alle ore 14, come si è appreso dall’apertura avvenuta qualche anno fa degli archivi dei servizi segreti americani riguardo i bombardamenti aerei della seconda guerra mondiale, furono rasi al suolo. Gli americani pensavano di colpire un complesso militare nemico, non sapevano che Caserme Rosse era un campo di prigionia. Solo su Caserme Rosse quel giorno caddero oltre 34.000 kg di bombe costruite sì per demolire, ma soprattutto per ferire ed uccidere gli uomini: ogni ordigno era in grado di colpire, con il suo effetto schegge, uomini allo scoperto nel raggio 60 metri dall’esplosione.




I reclusi nel lager di Caserme Rosse, oltre a temere la furia nazista ed il sempre presente pericolo dell’immediata deportazione nei campi di prigionia o di sterminio organizzati da Adolf Hitler, seguivano con l’udito, ogni volta con grande apprensione, il passaggio in cielo dei bombardieri. A loro non era permesso di fuggire al riparo di un rifugio. Se il bombardamento fosse avvenuto avrebbero dovuto subirne le conseguenze all’interno delle camerate rigurgitanti di prigionieri.

Padre Saccomano, un frate Barnabita, era stato condotto a piedi dall’Eremo di Tizzano, prigioniero dei tedeschi con altri 75 rastrellati, era l’8 ottobre 1944. Quel giorno a Caserme Rosse giunsero, meglio si aggiunsero altri 1500 prigionieri a quelli già presenti, tant’è che non vi era angolo di camerata o giaciglio libero per i nuovi arrivati.

Anche quel 12 ottobre i fascisti avevano rassicurato ed andavano ripetendo che non c’era da avere paura, perché già altre volte i nemici avevano sorvolato Caserme Rosse senza mai sganciare una bomba.

“Era da poco passato il mezzogiorno ed il cielo era solcato da innumerevoli fortezze volanti, sentimmo il caratteristico scroscio delle bombe sganciate sul nostro capo ed il loro esplodere nelle nostre immediate vicinanze. Le Caserme Rosse erano prese di mira”.

Così, dai ricordi di Padre Saccomano, ci è dato di sapere come cessò l’esistenza di quel tremendo luogo di dolore che è stato Caserme Rosse per decine e decine di migliaia di rastrellati e deportati, punto di partenza di un viaggio spesso senza ritorno.


Il 12 ottobre 1944 Bologna subì, dopo il 25 settembre 1943, il secondo più grave bombardamento di tutta la guerra, che provocò oltre 400 morti e 600 feriti in città. A Caserme Rosse numerosi furono i morti ed i feriti; sotto le bombe i tedeschi ed i fascisti si erano subito eclissati, fu così facile fuggire anche per i rastrellati rimasti illesi.

Di Caserme Rosse conosciamo bene data e modalità di chiusura del campo di detenzione. Conosciamo meno bene ciò che avvenne dopo l’8 settembre 1943. Sappiamo per precise testimonianze dirette che già il 9 settembre 1943 i tedeschi ed i fascisti armati di fucile a baionetta montata conducevano a Caserme Rosse tutti i militari italiani che venivano rastrellati alla stazione ferroviaria, nelle strade e nelle piccole caserme. Nelle nostre zone la grande massa dei militari italiani non era, come si pensa, sbandata; bensì essi, tentarono di salvarsi, obbedendo ad un preciso ordine impartito dai superiori di fuggire dalle caserme e di togliersi la divisa per sottrarsi alla cattura da parte dei tedeschi. Il “tutti a casa” fu conseguenza della mancata organizzazione ed esecuzione di un piano di resistenza armata generalizzato ai tedeschi da parte del Re, di Badoglio e dei comandi superiori, che pensarono a mettersi in salvo lasciando l’esercito allo sbando.

Già la sera del 9 settembre 1943 Caserme Rosse rigurgitava di soldati di ogni arma dell’esercito, della marina e dell’aeronautica, catturati con estrema facilità dai tedeschi nel momento in cui scendevano dai treni.Caserme Rosse raccolsero per mesi, sicuramente fino a novembre e dicembre 1943, decine di migliaia di militari. La quasi totalità di questi furono deportati in Germania con vagoni bestiame piombati. Durante la permanenza dei militari il tentativo di fuga veniva punito con l’immediata fucilazione: i tedeschi tiravano al bersaglio sui fuggitivi. Chi veniva solo ferito o catturato illeso veniva messo al muro ed immediatamente fucilato. Stessa sorte toccava a chi aiutava a fuggire: anch’essi, se individuati, venivano immediatamente fucilati, come ci ha testimoniato l’aviere scelto Luigi Lorenzato. Le

Lorenzato arrivò a Caserme Rosse il 9 settembre 1943, la caserma era già piena zeppa di militari. Lorenzato ricorda: “nel breve periodo trascorso a Caserme Rosse sentivo tutti i giorni, spesso, colpi di arma da fuoco, che erano indirizzati verso chi tentava la fuga. Numerosi miei compagni di prigionia persero la vita per mano dei tedeschi, mentre tentavano di fuggire. In una occasione avevo aiutato alla fuga un prigioniero. Con altri fui messo in fila, per riconoscere chi aveva aiutato il fuggitivo. Rimasi terrorizzato di essere riconosciuto, fortunatamente i tedeschi mi scrutarono, ebbi un colpo di fortuna e passarono oltre”.

Nell’ottobre del 1943, come ci ha lasciato scritto Monsignor Giulio Salmi, “Arrivarono dapprima i Carabinieri, colpevoli di un solo giuramento”. I Carabinieri romani e laziali, come i commilitoni campani, si erano rifiutati di rastrellare gli ebrei. Per questo vennero considerati inaffidabili dai tedeschi e dal maresciallo Graziani ministro della difesa nazionale della "repubblica di Salò", come ci è stato rivelato dalla recente apertura degli archivi della C.I.A. riferiti al 1943-44.

 
Ai primi del 1944, terminò la fase del rastrellamento dei militari italiani già in armi dopo l’8 settembre del '43. Anche per colpa e responsabilità della cosiddetta “repubblica di Salò", un fortissimo accanimento fu rivolto verso i giovani in età di leva, in particolare le classi 1924-1925, che vennero richiamate per essere al servizio, in realtà, dell’occupante tedesco. I tedeschi, più che combattenti (essi giudicavano molto negativamente il soldato italiano), cercavano manodopera gratuita da avviare allo sfruttamento nel dispositivo di produzione bellica e nelle campagne della Germania, per sostituire a costo nullo i militari nazisti richiamati alle armi. Praticamente tutti i giovani abili per la "repubblica di Salò" che giunsero a Caserme Rosse furono destinati in Germania, subendo anch’essi uno sfruttamento bestiale e disumano. Chi invece godeva di minore vigoria fisica e di minore salute era inviato, sempre come manodopera gratuita da sfruttare, alla Todt (*), per il consolidamento dei sistemi di difesa passiva tedeschi sul nostro territorio nazionale.

La ricerca affannosa di nuovi deportati per la Germania portò a metà del 1944 ai rastrellamenti a tappeto prima nelle Marche ed in Toscana, poi a settembre e ottobre in Emilia Romagna. Tutte le stragi nazifasciste erano accompagnate da feroci rastrellamenti verso la popolazione civile, con i molteplici scopi di fare terra bruciata attorno alla Resistenza, di seminare il terrore e di raccogliere quanti più uomini e donne possibile da avviare ai luoghi di detenzione e di transito, in cui venivano selezionati e divisi i prigionieri per la Germania da coloro che sarebbero stati utilizzati nei lavori forzati in Italia. Fra questi centri di raccolta è ormai certo che il grande primato negativo per il numero dei transitati, spetti a Caserme Rosse. Secondo Don Giulio Salmi, che fu Cappellano dei rastrellati di Caserme Rosse, nel solo periodo maggio-ottobre 1944 essi furono almeno 36.000.

Dai dati dello storico tedesco Lutz Klinkhammer, nel suo libro "L’occupazione tedesca in Italia. 1943-1945”, risulta che nella città e provincia di Bologna dal 15 luglio all’11 agosto 1944, furono rastrellati 3336 uomini e 47 donne. Di essi 1903 uomini e 38 donne vennero deportati in Germania; 1151 uomini passarono in forza alla Todt; 286 uomini e 9 donne risultarono inabili.

Sempre nel mese di agosto nella provincia di Bologna altri 7436 uomini e 139 donne vennero catturati, l'89% di essi erano civili rastrellati. Di questi, 5.600 furono deportati in Germania, 1500 restarono in Italia a disposizione della Todt; 500 i dichiarati inabili.

Questi ultimi dati danno l’idea del tremendo tributo pagato prima dai militari poi dalle popolazioni civili, alla deportazione nei lager nazisti e transitati da Caserme Rosse.

Adolf Eichmann. L’assoluta banalità del male

Nell’aprile 1961 iniziava in Israele il processo al gerarcha nazista Adolf Eichmann, conclusosi nel 1962 con la sua impiccagione. In occasione del cinquantesimo anniversario il magazine tedesco Der Spiegel rievoca sulla base di documenti inediti, la fuga, l’arresto e il processo ad Eichmann, responsabile dei convogli ferroviari che trasportavano gli ebrei nei campi di concentramento nazisti.



L’ex ufficiale riuscì a sfuggire al processo di Norimberga e nel 1950 si trasferì in Argentina adottando una nuova identità. Nell’immagine a lato il documento che gli venne rilasciato dalla Croce Rossa a nome di Ricardo Clement.

Per anni Eichmann visse a Buenos Aires protetto dalla nuova identità. In questa città aprì una lavanderia, allevò conigli e lavorò come operaio in una fabbrica della Mercedes Benz. Tenne contatti con Josef Mengele, il medico del lager di Auschwitz-Birkenau, partecipò alle cerimonie organizzate da immigrati nazisti in onore del presidente argentino Juan Peron e si lasciò andare a rimembranze nostalgiche affermando che durante la guerra “saremmo potuti andare oltre. Non abbiamo fatto il nostro lavoro come avremmo dovuto. Potevamo fare meglio.”

La sua vera identità venne alla luce nel 1957, quando suo figlio fece rivelazioni compromettenti alla fidanzata, alla quale si era incautamente presentato con il suo vero cognome. La ragazza riportò i racconti del giovane al padre, il quale collegò il cognome Eichmann al criminale nazista ricercato in tutto il mondo. Ne parlò al procuratore tedesco Fritz Bauer, il quale informò il Mossad israeliano. Nel 1960 i servizi segreti israeliani rapirono Eichmann e lo portarono in Israele, dove venne processato e impiccato il 31 maggio 1962.

Durante il processo Eichmann negò di odiare gli ebrei e riconobbe soltanto “la responsabilità di aver eseguito ordini come qualunque soldato avrebbe dovuto fare durante una guerra”.

Per questa sua dichiarazione, Hannah Arendt, la storica tedesca di origini ebraiche scomparsa nel 1975, descrisse l’ex SS-Obersturmbannfuhrer Adolf Eichmann come “l’incarnazione dell’assoluta banalità del male”.