"Ho ordinato e pagato il 16 luglio a Tarsia "L'Osservatore Romano". Oggi 22 agosto è arrivato il primo numero". Così scriveva padre Callisto Lopinot nel suo diario del 1941. Niente di eccezionale, non fosse che il sacerdote era il cappellano del più grande campo di concentramento per ebrei e stranieri costruito in Italia dopo le leggi razziali del 1938, quello di Ferramonti di Tarsia, in Calabria. Dunque, il quotidiano della Santa Sede arrivava in un luogo impensabile in un periodo in cui il regime certo non godeva dei favori della Chiesa. In una circostanza il giornale del Papa vi arrivò persino con più copie. "Il 24 dicembre - annota infatti lo stesso anno padre Lopinot - molti cattolici ed ebrei alle ore 12.30 hanno ascoltato nella cappella il discorso radiofonico del Santo Padre. Quando poi "L'Osservatore Romano" ha riportato il discorso, questo è stato addirittura divorato da tutti gli internati di qualsiasi nazione e lingua. La notizia di una tiratura a parte ha avuto una così grande richiesta che mi sono deciso a ordinare 100 esemplari. Molte persone vogliono un numero per se stesse".
Già in questi particolari si può cogliere la singolarità di quel campo, tanto atipico da essere definito qualche anno fa "un paradiso inaspettato" dal "Jerusalem Post" o "il più grande kibbutz del continente europeo" dallo storico Jonathan Steinberg dell'università di Cambridge. Ma a renderlo differente da tutti gli altri, da quelli fascisti più tristemente famosi, come la Risiera di San Sabba e Fossoli, e soprattutto da quelli nazisti, fu la qualità di vita che gli internati riuscirono a mantenere nonostante tutto. Fra il 1940 e il 1943 più di duemila persone vissero in questo luogo che, malgrado l'aspetto esteriore - quello sì, simile in tutto a un lager - rappresentò per molti ebrei una fonte di vita e di salvezza. E qui, attraverso padre Lopinot, si concretizzo in maniera esplicita la sollecitudine di Pio xii verso le vittime dell'antisemitismo, con l'invio a più riprese di somme di denaro e di altri aiuti.
Proprio il ruolo essenziale svolto dal Vaticano, e dal Papa in prima persona, nel principale campo di concentramento fascista è evidenziato con particolare forza da Mario Rende nel libro Ferramonti di Tarsia (Milano, Mursia 2009, pagine 276, euro 19) nel quale grazie a documenti e a testimonianze originali ne ricostruisce la storia. Ma più che sui fatti - peraltro già noti - si sofferma sui due uomini straordinari, dimenticati troppo in fretta, che resero possibile questo miracolo della compassione e del rispetto della dignità umana: padre Lopinot, appunto, che tenne le relazioni fra il Vaticano e la comunità ebraica, occupandosi dei bisogni spirituali e materiali degli internati, cattolici e non, e il direttore del campo, il commissario Paolo Salvatore, un funzionario statale che non esitò ad arrivare alle mani pur di difendere gli ebrei. Il campo - allestito nella valle del fiume Crati, a circa sei chilometri da Tarsia, nel Cosentino, in una zona malsana, malarica e paludosa - fu aperto il 20 giugno 1940 e raggiunse una punta massima di 2.700 persone nell'estate 1943. Era costituito da 92 baracche su un'area di circa 160.000 metri quadrati, circondato da un recinto di filo spinato, sorvegliato dall'esterno dalla milizia fascista e all'interno da agenti di pubblica sicurezza.
Dall'autunno del 1941 gli internati di Ferramonti non furono più soltanto ebrei. Dalla Jugoslavia occupata, cominciarono ad arrivare numerosi uomini politici e semplici cittadini accusati di aver avuto contatti con i partigiani. Nel novembre 1941 arrivarono i primi nuclei di cinesi; altri profughi fuggiti dai campi di concentramento di Germania e Polonia giunsero da Rodi.
Tutto lasciava presagire una reclusione dura, resa più drammatica dalle notizie che arrivavano sulla sorte degli ebrei deportati oltre confine. Eppure, scrive Rende, "nelle stesse ore in cui nei lager nazisti i bambini ebrei venivano separati dai genitori e avviati a morte, Salvatore scarrozzava i bambini a bordo dell'auto di servizio fino al paese di Tarsia dove offriva loro un gelato".
Gli internati realizzarono ben presto una organizzazione interna basata sull'elezione di un delegato per ogni baracca. I prescelti, riuniti in una sorta di assemblea, eleggevano un rappresentante generale di tutti i reclusi. Il direttore del campo riconosceva ufficiosamente l'esistenza degli organi di autogestione e vi si appoggiava per mantenere la tranquillità necessaria.
All'interno furono attrezzati una scuola, un asilo, un ambulatorio medico e, inoltre, si svilupparono varie attività artistiche, culturali e persino religiose. Infatti, il 22 maggio 1941, in occasione della prima visita del nunzio apostolico Francesco Borgongini Duca, gli internati chiesero di avere a Ferramonti un'assistenza spirituale permanente. Due mesi dopo fu inviato nel campo il cappuccino padre Lopinot, allora sessantacinquenne, che presto riuscì a ottenere la stima anche dei non cattolici. Tra i reclusi c'erano inoltre alcuni rabbini e all'interno del campo vennero aperte tre sinagoghe. A Ferramonti si recò più volte il rabbino capo di Genova, Riccardo Pacifici, celebrandovi solenni cerimonie.
Fu pure edificata una cappella cattolica - la notizia della posa della prima pietra venne pubblicata in prima pagina da "L'Osservatore Romano" il 24 dicembre 1941 - e il Papa fece pervenire in dono persino un harmonium.
Insomma, pur tra immaginabili difficoltà, grazie al direttore - capace di rimanere un uomo nonostante leggi infami, regolamenti disumani e fanatismi - si cercò il più possibile di vivere un'accettabile parvenza di normalità. Ciononostante la paura di essere consegnati alle forze tedesche era sempre molto grande. "In questo ambito - sottolinea Rende - fu molto viva l'attività di padre Lopinot che più volte interessò il Vaticano sulla sorte degli internati di Ferramonti. A sua volta il Vaticano intervenne più volte sul governo fascista per evitare qualunque deportazione da Ferramonti". E davvero nessuno venne deportato. Così come nel campo "non si verificò mai nessun episodio di maltrattamento o morte violenta di internati causati dalle forze di polizia o dalla milizia fascista".
Non solo, dopo l'armistizio, a pochi metri dal campo, lungo la statale 18, passò l'intera armata tedesca "Hermann Göring" in ritirata. "Per evitare pericoli - annota l'autore - con il beneplacito della direzione tutti gli ebrei che potevano furono fatti scappare nelle campagne circostanti. Per evitare intrusioni e a protezione degli ebrei rimasti si issò all'ingresso del campo una bandiera gialla a simbolo di epidemia e si piazzarono delle mitragliatrici nascoste tra le baracche".
Il 14 settembre entrarono nel campo gli inglesi, dando inizio alla seconda fase delle storia di Ferramonti, ma non meno impegnativa per il cappellano, che divenne la figura più importante in un momento in cui la situazione stava andando fuori controllo. Egli si impegnò per far arrivare nel campo vestiario e viveri per gli internati rimasti. Anche in questa circostanza padre Lopinot mantenne i contatti con il Vaticano, in particolare con il sostituto, monsignor Giovanni Battista Montini, al quale chiese un aiuto - una costosa fornitura di stoffa per confezionare abiti - che puntualmente ricevette e utilizzò per tutti i deportati (in precedenza c'era stato malumore perché una fornitura di cibo arrivata attraverso organizzazioni sioniste era stata distribuita solo tra gli ebrei).
Il libro di Rende non ha come scopo la discussione e la valutazione dell'atteggiamento di Pio xii nei confronti degli ebrei, ma certamente la lettura della documentazione riportata contribuirà a fare piena luce sugli eventi. "Tuttavia, al di là di ogni considerazione generale, non vi è alcun dubbio storico - afferma l'autore - che il Vaticano aiutò in maniera più che determinante la sussistenza e la protezione degli internati di Ferramonti".
A testimonianza di ciò resta soprattutto la riconoscenza degli stessi internati ebrei, espressa direttamente a Papa Pacelli nell'udienza da questi concessa a una loro rappresentanza il 29 ottobre 1944. "Mentre in quasi tutti i Paesi d'Europa, a causa della nostra appartenenza al popolo ebraico e della nostra professione di fede ebraica, eravamo perseguitati, imprigionati e minacciati di morte - disse Jan Hermann - la Santità Vostra non solo ha fatto pervenire al nostro campo tramite il nunzio apostolico monsignor Borgongini Duca il 22 maggio 1941 e il 27 maggio 1943 notevoli e generosi doni, ma ha voluto anche manifestare il suo vivo e paterno interessamento per il nostro benessere fisico, spirituale e morale. La Santità Vostra ha in tale guisa, al cospetto dei nostri nemici in quell'epoca ancora così potenti, quale prima e più alta autorità morale sulla terra, intrepidamente levata la voce universalmente venerata per sostenere apertamente i nostri diritti alla dignità umana (...) Quando nel 1942 ci sovrastò la minaccia della deportazione in Polonia, la Santità Vostra stese su noi la sua paterna mano protettrice ed impedì la deportazione degli ebrei internati in Italia salvandoci così da morte quasi certa".
Nessun commento:
Posta un commento