sabato 1 dicembre 2012

VITTIME


I Fratelli Goldenberg (primo Nome sconosciuto)

I due figli: figlio e figlia di Baruch e Faiga Goldenberg. Sono nati e vissuti a Biala Podlaska, Polonia. Il bimbo aveva 6 anni e sua sorella 4 quando sono morti.



Valentina Zbar

Valentina, figlia di Arkadi e Liudmila Zbar. E' nata nel 1935 a Kharkov, Ucraina. Lei morì lì con i suoi genitori nel 1941. Aveva sei anni.


Heinrich e Margarete Jacoby 

Heinrich Jacoby è nato a Belgard, in Germania il 15 ottobre 1864. Sua moglie Margarete è nata a Eidtkonen, in Germania il 11 novembre 1875. Essi sono stati deportati dalla Germania e sono periti nella Theresienstadt: Heinrich il 18 gennaio 1943, all'età di 79 anni, e Margarete il 22 agosto 1943, all'età di 68 anni.


Elisabeth Gersch e sua figlia Eva

Elisabeth Gersch (nata Grunfeld) è nata nel 1914 nel TG-Mures - Transilvania (Romania). Era sposata con Rodolfo e vivevano in Deda Bisztra - Romania, dove Elisabetta era una casalinga. Nel 1936 ebbero una figlia che chiamarono Eva (in foto). Durante la guerra, la famiglia viveva nel ghetto Regin. Elisabeth e Eva furono deportate ad Auschw
itz, dove furono gassate nel 1944: Elisabeth aveva 40 anni ed Eva 8 anni.


Maryla Albin

Maryla Albin è nata nel 1928 a Dzuryn - Polonia. I suoi genitori erano Rachmiel Edmund e Eugenia Albin. Durante la guerra ha vissuto in Czortkow, dove lei e suo padre morirono nel 1943. Maryla aveva 15 anni.


Marina Smargonski

Marina, figlia di Nahum e Anna-Nyuta Smargonski. E' nata a Riga, in Lettonia il 30 agosto 1938. Durante la guerra la famiglia  e Marina viveva a Riga. Perirono nel ghetto di Riga nel mese di dicembre del 1941.Lei aveva 3 anni. Suo padre morì in un campo di concentramento in Germania.


Renee Albersheim

Renée, figlia di Fritz e Helene Albersheim. E' nata a Berlino, Germania nel 1930. Durante la guerra la famiglia viveva in Lituania, paese d'origine di Helene. Rene e i suoi genitori sono stati incarcerati nel ghetto Kovno, dove morirono.


Hannah e Joskowitz SUA Figlia Zhunia

Hannah Joskowitz e sua figlia Zhunia. Hannah, figlia di Rivka-Dvora e Shmuel-Shmelko Pilizer, è nata a Lodz intorno al 1900. Era sposata con Yaacov Joskowitz. La loro figlia, Zhunia, è nata a metà degli anni 1930, a Lodz. Madre e figlia sono state entrambi uccise nel campo di sterminio di Chelmno. Hannah aveva 40 anni quando è morta e Zhunia 10.

Mara Coblic
Mara, figlia di Yitzhak e Brachah Coblic, Nata nel 1936 a Chisinau, Romania (oggi Moldavia). Mara e la sua famiglia sono stati incarcerati nel ghetto Chisinua, dove lei e sua madre sono morte.

Gregory Shehtman
Gregorio, figlio di Haim e Feiga Shehtman. E' nato a Kiev, in Ucraina nel 1934. Nel settembre del 1941, Gregorio fu portato a Babi Yar, una gola appena fuori Kiev e ucciso.

Eta Halberstam
Eta, figlia di Yossef-Shmuel e Chaya-Rivka Halberstam, Nata nel 1942 a Bardejov, Cecoslovacchia. Eta è stata assassinata ad Auschwitz nel mese di ottobre 1942, quando aveva solo pochi mesi.

Emilia Martinelli Valori



Mamma Emilia, una grande donna contro l’orrore della Shoah

Emilia Marinelli in Valori è nata a Sansepolcro, in provincia di Arezzo, il 5 luglio 1902.
Nel 1938, lo stesso anno della promulgazione delle leggi razziali in Italia, si trasferì con la famiglia a Meolo, un paesino del veneziano.
La famiglia Valori gestiva un ampio magazzino di tabacchi e questa attività permise a Emilia di entrare in una fitta rete di contatti e informazioni.

Tra il settembre del 1943 e la fine di aprile del 1945 Emilia Marinelli usò questo magazzino come rifugio per molti ebrei perseguitati dai nazisti.
Mostrando grande sprezzo del pericolo, riuscì a sottrarre queste persone, soprattutto madri con bambini spesso molto piccoli, alla deportazione e allo sterminio.


In un nascondiglio segreto ricavato all’interno di quel vasto edificio in via Diaz a Meolo, che era stato chiuso dalla Guardia di Finanza e che aveva solo un piccolo spioncino dal quale filtrava l’aria, Emilia riuscì a nascondere fino a 100 persone, assistendole non solo materialmente, ma anche spiritualmente, con il calore della sua umanità, che donava speranza a chi aveva perso fiducia nel prossimo.
Accolse e protesse famiglie ebree provenienti da Milano, Torino, Ferrara e Venezia.
Questa attività era collegata a quella di sostegno alle forze partigiane, tra le cui fila militava il suo primogenito, il diciassettenne Leo.
Le SS, che avevano impiantato il loro quartier generale a Villa delle Colonne a Meolo, organizzavano frequenti retate e perquisizioni nelle abitazioni del paese e dei dintorni. Bussarono più volte anche alla porta di “mamma Emilia” (così era affettuosamente chiamata) e ogni volta lei rispondeva col calma e fermezza, senza tradire la minima emozione.

L’amore verso il prossimo, che in lei era profondamente radicato, la spinse ad aiutare, anche a rischio della vita, anche qualche fascista ricercato per sottrarlo a morte sicura. Ciò avveniva quando si accorgeva che la persona, anche se schierata ideologicamente da altra parte, non aveva commesso crimini di sorta e, quindi, non meritava di essere giustiziata sommariamente.

Il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano con decreto dell’11/12/2009 ha conferito a Emilia Marinelli Valori la Medaglia d’oro al merito civile, alla memoria, con la seguente motivazione: “Donna di elevatissime qualità umane e morali, nel corso del secondo conflitto mondiale, con eroico coraggio e a rischio della propria vita, offrì sostegno alle forze partigiane e organizzò un’attività clandestina per dare ospitalità e assistenza a molti ebrei e ad altri perseguitati, che riuscì a sottrarre alla deportazione e alla morte. Fulgido esempio di elette virtù civiche, di abnegazione e di generoso altruismo fondato sui più alti valori dell’umana solidarietà. 1938-1945 Meolo (VE)”.
 La signora Emilia Marinelli Valori aveva ricevuto il 15 novembre 1998 a Yad Vashem a Geusalemme il riconoscimento di Giusta fra le Nazioni.
In suo onore è stato piantato un ulivo tra gli "alberi dei giusti" nel Planting Center di Gerusalemme.
Emilia Marinelli Valori è morta a Roma il 22 marzo 1988.

Frieda Belinfante


Frieda Belinfante (1904-1995), musicista e violoncellista, è stata una delle prime direttrici d'orchestra della storia della musica. Nasce in una famiglia di musicisti ad Amsterdam, dove comincia gli studi sotto la guida del padre, il pianista Ari Belinfante. Si perfeziona con Hermann Scherchen e vince un prestigioso concorso per direttori d'orchestra indetto dalla Orchestre de la Suisse Romande. Compositrice di concerti per violoncello, comincia l'attività di direttrice nella seconda metà degli anni '30 alla guida della "Het Klein Orkest" e della "Orchestra Studentesca J. Pzn Sweelinck" di Amsterdam. Dichiaratamente lesbica e per metà di origine ebraica è costretta a interrompere la carriera a causa dell'occupazione nazista. Durante il secondo conflitto mondiale prende parte alla Resistenza olandese antifascista. Falsifica documenti per gli ebrei in fuga. Nel 1943, insieme allo scrittore gay Willen Arondeus, fa parte del gruppo che organizza una pericolosa azione di sabotaggio: la distruzione di tutti i dati dell'anagrafe nazionale. L'azione ha successo, centinaia di ebrei riescono a mettersi in salvo, ma il gruppo viene scoperto e quasi interamente annientato. Isolata dai compagni, Frieda si salva nascondendosi per mesi sotto falsa identità e fingendosi un uomo. Nell'inverno del 1944 lascia l'Olanda e in fuga attraverso il Belgio e la Francia raggiunge la Svizzera dove viene internata in un campo di rifugiati a Montreux, insieme ad altri 160 ebrei olandesi. Finita la guerra fa ritorno in Olanda, ma non riesce a riambientarsi. Lascia definitivamente l'Europa nel 1947 per emigrare negli Stati Uniti. Nei primi anni si sposta frequentemente per stabilirsi in seguito nel sud della California. Riprende la carriera a Hollywood. All'inizio degli anni '50 fonda l'Orange County Philharmonic Orchestra, di cui sarà direttrice con successo per qualche anno. Anche negli USA il suo stile di vita non le rende le cose facili. Perde infatti il lavoro quando la comunità di Orange County scopre che è lesbica. Nonostante ciò Frieda continuò ad essere attiva come insegnante fin oltre gli ottantant'anni. Occasionalmente torna anche sul podio. È morta nel 1995 a poco più di 90 anni. Su di lei è stato realizzato il documentario . . . But I was A girl (. . . Maar Ik Was Een Meisje) regia di Toni Boumans, Frame Media Productions, 1999, Olanda. Basato su un'intervista di otto ore che la stessa Frieda, novantenne, rilasciò nel 1994 al giornalista Klaus Müller, poi co-produttore e autore del documentario Paragrafo 175 ( 2000 ) sulla persecuzione dei gay e delle lesbiche durante il nazismo, raccoglie le testimonianze di chi la conobbe: la sorella Rachel, gli amici e gli allievi, la compagna di venti anni più giovane, fotografie e materiali d'archivio e di repertorio. Sullo schermo appare la stessa Frieda che racconta dei primi anni in Olanda, di sua madre che desiderava un figlio maschio ("ma, io ero una femmina" dice Frieda), del primo amore (la moglie di un suo insegnante), dell'impatto della Shoah sulla sua vita, della sua posizione di donna lesbica all'interno della Resistenza olandese, del suo breve matrimonio con il flautista Jo Veldkamp e delle sue amanti, tra le quali la compositrice Henriëtte Bosmans.

KHALED ABDUL WAHAB


Arabo tunisino che salvò degli ebrei durante la Shoah


Dopo la conquista hitleriana della Francia, gli ebrei delle colonie come Marocco e Algeria subirono le conseguenze delle leggi antisemite imposte da Vichy, ma le loro vite non furono messe a rischio. Invece in Tunisia, che le truppe tedesche e il loro alleato italiano occuparono nel novembre 1942, passarono subito le "leggi razziali" che imponevano agli ebrei di portare la stella gialla e disponevano la confisca dei loro beni. Prima che le truppe britanniche liberassero la Tunisia sei mesi più tardi, i nazisti inviarono 5.000 ebrei nei campi di lavoro forzato, dove almeno 46 di essi morirono, secondo Yad Vashem. Circa 160 ebrei tunisini furono deportati nei campi di sterminio in Europa. La persecuzione nazista colpì immediatamente Jakob Boukris, un ricco produttore di elettrodomestici, sua moglie, Odette, e la loro figlia di 11 anni, Anny. Le truppe tedesche concessero loro una sola ora di tempo per evacuare la spaziosa casa nella città costiera di Mahdia, che trasformarono in una baracca svaligiandola di tutti i beni di valore. La famiglia e due dozzine di ebrei trovarono rifugio in una produzione d'olio vicina, ma alcuni giorni più tardi un altro visitatore apparve all'improvviso a mezzanotte. Si trattava di Khaled Abdul Wahab, un uomo particolarmente affascinante di 32 anni, figlio dello storico più eminente della Tunisia, che li avvisò di andarsene immediatamente. Il giovane faceva da tramite fra la popolazione locale e gli occupanti nazisti e usava questa posizione per ingraziarsi i tedeschi, con la stessa tattica di Oskar Schindler in Polonia, offrendo spesso ai funzionari nazisti pranzi e interminabili bevute. I tedeschi avevano organizzato un giro di prostitute con un certo numero di donne locali, e anche ragazze tedesche. Una sera, un ufficiale ubriaco si era lasciato scappare di avere scovato una donna ebrea particolarmente bella e di volerla violentare la notte successiva. La vittima designata, come Abdul Wahab aveva capito subito, era Odette Boukris. Fra la mezzanotte e la mattina, Abdul Wahab portò la famiglia Boukris e gli altri ebrei nel frantoio della sua fattoria isolata, li nascose e nutrì il grande gruppo fino a quando i tedeschi furono cacciati dai britannici quattro mesi più tardi. E' morto nel 1997 a 86 anni. La sua famiglia ufficialmente ricordava solo il salvataggio da lui effettuato di un giovane soldato tedesco abbattuto con l'aereo dai britannici. Nel 2009 gli è stato dedicato un albero sia nel Adas Israel Garden of the Righteous di Washington sia nel Giardino dei Giusti di tutto il mondo a Milano, con una cerimonia alla presenza della figlia Faiza.

STORIA DI ADRIANA




La piccola Adriana Revere, figlia di Enrico Revere, nato a Torino, maresciallo radiotelegrafista della Marina Militare Italiana con sede a La Spezia, e di Emilia De Benedetti, nata a Cuneo, abile pianista, non poté frequentare le Scuole pubbliche, causa le leggi razziali e frequentò la Scuola elementare ebraica.
Il padre venne espulso dalla Marina Militare, sempre perché di religione ebraica, riuscì a svolgere un modesto lavoro di rappresentanze.
Con i primi bombardamenti la famiglia Revere cercò rifugio a Vezzano Ligure, dove però verso la fine del 1943 Enrico Revere venne arrestato 2 o 3 volte di seguito e poi liberato. Il 3 febbraio del 1944 i carabinieri, su ordine del Prefetto Franz Turchi, catturano tutta la famiglia e li inviarono al Campo di concentramento di Fossoli di Carpi. Il 22 di febbraio del 1944 madre, padre e figlia vennero deportati ad Auschwitz. Viaggiarono nello stesso vagone piombato di Primo Levi, che nel suo libro “Se questo è un uomo” parla di loro e ricorda che madre e figlia all’arrivo vennero subito uccise nella camera a gas, mentre il padre passò la selezione, rimase ad Auschwitz per un periodo e in seguito venne trasferito a Flossenburg, dove fu fucilato il 28 ottobre 1944.
Nel 1952 il Signor Aharon Adolfo Croccolo di La Spezia decise di dedicare un concorso alla memoria di Adriana Revere, perché si ricordasse la Shoah e scelse quel nome perché era uno dei più cari al cuore degli ebrei spezzini.
Questo concorso ebbe un’enorme sviluppo e dal 1973 è un’istituzione permanenente.

sabato 18 agosto 2012

La testimonianza di Matìe di Bordan


Un contributo significativo, nel giorno della "Giornata della Memoria", può venire, per esempio, dal racconto della esperienza di Mattia Picco di Bordano, classe 1920 (Matìe da Menone per i suoi compaesani).

Soldato del XXXIII Corpo di Fanteria, sul fronte jugoslavo, venne catturato dai tedeschi dopo l'8 settembre e mandato prima nel Campo IV B nei pressi di Berlino poi, nelle vicinanze, a lavorare nella fabbrica dell'Arado, dove si costruivano aerei da guerra. Durante l'estate del '44 venne trasferito in un campo vicino a Lubecca, per ritornare poi presso Berlino, sino alla Liberazione. Ecco uno stralcio del suo racconto sugli ultimi giorni passati nel Lager e sulle peripezie vissute per ritornare a casa:

A questo punto i tedeschi cominciarono a distruggere tutti i macchinari della fabbrica. Restammo tre giorni in balia degli eventi, però il cibo ci veniva distribuito regolarmente. Il terzo giorno ci radunarono in mezzo al cortile della fabbrica dove ci divisero in due gruppi: uno lo mandarono nella baracca e l'altro lo mandarono a cercare un superiore tedesco morto nel bombardamento. Io ero fra questi ultimi ma l'ufficiale tedesco non lo trovammo. (...)

Il giorno seguente il mio amico milanese venne a cercarmi perchè dovevano radunarci e poi scortarci in marcia fino all'autobahnn (autostrada). Ci fecero prendere però una strada secondaria perchè sull'autostrada si stavano ritirando le truppe tedesche in fuga dal nemico. Noi eravamo in mezzo a due fuochi: da una parte i russi, dall'altra gli americani. Ci fecero attraversammo il fiume Elba su un battello e poi ci abbandonarono al nostro destino. Camminammo per tre giorni nel bosco, allo sbando, finchè ci imbattemmo in un soldato delle SS che parlava bene l'italiano perchè aveva combattuto in Abruzzo e che ci regalò un po' di biscotti . Continuammo a camminare ancora per tutta la notte e incontrammo un gruppo di neri (americani) fatti prigionieri dai tedeschi. Proseguimmo e, giunti in un campo, vedemmo tante bandiere bianche. Pensavamo di trovarci in un ospedale, invece era un campo di soldati americani. Lì ci alloggiarono in una specie di teatro e ci diedero da mangiare. Restammo in questo luogo un paio di giorni. Poi ci fecero riattraversare il fiume Elba e ci portarono ad Allen Sud Salen in una caserma diroccata in seguito ad un bombardamento. Lì incontrai persone di ogni razza.

Ci fermammo in questo campo fino agli ultimi giorni di giugno. Ci davano da mangiare regolarmente, e il cibo era sicuramente migliore di quello che ci distribuivano i tedeschi. Ricordo ancora il sapore di una zuppa, una specie di “panade”. Nel frattempo noi avevamo preso nella cantina della caserma tedesca dei piselli, della farina, della margarina e anche un po' di cioccolata. (...) In luglio da qui, ci trasferirono nella fortezza di Ulm: lì c'erano diversi friulani fra i quali alcuni di Gemona. Il campo era comandato dai francesi che non ce l'avevano “molto buona” con noi italiani, perchè ci accusavano di averli “pugnalati alla schiena”.

Ci perquisivano tutti e se ci trovavano addosso roba di valore ce la prendevano e se la tenevano loro. Passati quindici giorni circa, ci accompagnarono in stazione e ci inviarono verso l'Austria. Mentre aspettavamo il nostro convoglio, c'era un treno americano fermo sui binari: noi italiani salimmo e raccattammo tutto ciò che poteva esserci utile, soprattutto cioccolata, biscotti e gallette. Avevamo paura ma tutti andammo ugualmente a rubare qualcosa. Giunti in Austria, in una caserma, ci fecero lavare e in seguito visitare. Poi ci mandarono al Brennero dove militari italiani ci diedero dei panini e qualcosa da bere. Ripartimmo in treno e nei pressi di Verona a Pescantinas, ci fermarono in un binario morto. Qui incontrai alcuni conoscenti di Braulins i quali mi informarono che lo Stato aveva messo a disposizione alcune corriere per raggiungere le varie regioni d'Italia. Quella diretta in Friuli era ormai al completo così restammo a piedi. Per fortuna passò un camion diretto in Friuli, per la precisione a Nimis, che trasportava scarti di sedie. Ci diede una passaggio fino a Tricesimo dove arrivammo a mezzanotte passata. Sulla strada viaggiavano tanti camion inglesi che riconobbi perchè trascinavano dietro al mezzo la solita catena di circa cinquanta centimetri ( di cui però ignoravo e ignoro tutt'ora l'utilizzo). Nessuno di loro ci caricò. Per fortuna più tardi si fermò un camioncino, con a bordo i fratelli Tono e Bono di Venzone, i quali gestivano una macelleria. Per prima cosa si assicurarono che non avessimo pidocchi e al nostro diniego ci fecero salire. Facevano anche i contrabbandieri e avevano il furgone carico di mais. Ci chiesero di dove eravamo e noi rispondemmo che uno era di Braulins, che uno era di Bordano e che il terzo, che si era unito a noi, abitava ad Osoppo. Quest'ultimo scese all'altezza del bivio che dall'attuale ristorante “Il Fungo” porta ad Osoppo, mentre io e Antonio Feragotto (suocero di Pieri Pacheti) scendemmo in Campagnola all'incrocio dove attualmente c'è il semaforo. Siccome il ponte di Braulins era stato distrutto attraversammo il Tagliamento a nuoto, perchè a causa del buio, non avevamo visto che poco più a valle avevano costruito un ponte provvisorio. Antonio mi chiese se volevo passare la notte a casa sua, ma io desideravo arrivare a Bordano, così mi incamminai verso il mio paese. La prima persona che incontrai fu Tonine, la sorella di Letizia , la quale, quando mi riconobbe, cominciò a gridare ad alta voce il mio nome. Chiamò i miei genitori che, da quando la nostra casa era stata bruciata, dormivano sul fienile. Era il 29 luglio e ricordo che era domenica...

Benes (Stani Belsky) – GUFO NERO

Benes (Stani Belsky) – Gufo Nero – Mitragliere polacco originario di Varsavia, classe 1923, fa parte della squadra speciale del “Gufo Nero”.  In precedenza faceva parte della 26 brigata Garibaldi Distaccamento Beucci. Già operativo con una imboscata contro auto tedesche lungo la Via Emilia ed in altri due scontri a fuoco contro le truppe nazifasciste.

Modena (Viktor Pirogov) – Battaglione Russi

Modena (capitano Viktor Pirogov) – Battaglione Russi –  Originario di Rostov, è riuscito a fuggire da un campo di prigionia tedesco nel 1943. Prima si è rifugiato nel casolare dei fratelli Cervi a Gattatico in seguito sempre  nella bassa reggiana a Villa Seta di Cadelbosco Sopra in localita Gorna dove ha conosciuto Nalfa Bonini, diventata staffetta e sua fidanzata. Salito in montagna ora guida il Battaglione Russi del Battaglione Alleato creato da Roy Farran.

Colonello Eugen Dollmann – SS

Colonello Eugen Dollmann – SS – Il colonello delle SS Eugen Dollmann è da sempre uno degli uomini di fiducia di Adolf Hitler in Italia e ne è il traduttore ufficiale in tutti gli incontri nella penisola italiana tra lui e Benito Mussolini e gli alti vertici del fascismo. Con l’avvento della Repubblica Sociale Italiana è stata dislocato in territorio reggiano dove risiede in una villa alle porte di Reggio Emilia. A lui spetta l’ultima parola su ogni tipo di rappresaglia sul territorio. Ma Dollmann, abile doppiogiochista, per cercare di salvare la pelle, sta già preparando il terreno per la resa verso gli Alleati…

Michael Lees – SOE

Michael Lees, SOE – Missione Envelope – Il capitano inglese Michael Lees, paracadutato sul Cusna ai primi di gennaio del 1945 guida la missione inglese Envelope del SOE (il servizio segreto di guerra britannico) che  a Secchio di Villa Minozzo ed opera nel territorio reggiano. Lees è una delle due menti di “Operazione Tombola” insieme al maggiore Roy Farran del 2nd SAS.  E’ stato lui il 4 gennaio 1945 a disporre la creazione della squadra speciale “Gufo Nero” al servizio della missione britannica. Prima di essere operativo sull’Appennino Reggiano con la missione Envelope Lees è stato chiamato in azione in Yugoslavia ed in Piemonte per altre missioni oltre le linee nemiche. Sposato durante la guerra con Gwendaline ,anche lei agente segreto del SOE.

Gino (Gino Beer) - GUFO NERO

Gino (Gino Beer) SOE- Gufo Nero - Diciannove anni originario di Genova è  di famiglia di origine ebraica da parte di madre. Nel 1943 è sfuggito con la sua famiglia alle deportazioni nei lager nazisti da parte delle SS e delle milizie fasciste, rifugiandosi sugli Appennini. Prima quello Ligure dove ha iniziato a collaborare con la Resistenza come staffetta poi quello Emiliano dove è stato in seguito assoldato dalle squadre partigiane e dalle missioni  inglesi operanti tra  Modena. Parma e Reggio Emilia.  Per lui combattere i nazifascisti è “vivere o morire” ed è pronto  a tutto.

L’Alta Corte australiana nega l’estradizione in Ungheria dell’ex nazista Karoly Zentai


L’Alta Corte di Giustizia australiana ha respinto definitivamente mercoledì scorso l’estradizione in Ungheria di Karoly Zentai (8 Ottobre 1921), un australiano di origini ungheresi che ha raggiunto ormai la veneranda età di 90 anni, accusato di crimini di guerra a Budapest durante la II guerra mondiale. Per diversi anni, infatti, ha stabilito la sua residenza a Perth, in Australia, dopo aver vissuto in Germania nelle zone occupate dagli americani e dai francesi dopo la seconda guerra mondiale.



Karoly Zentai è sospettato di aver partecipato con due soldati ungheresi alla tortura e all’omicidio, commesso l’8 novembre 1944, di un giovane ebreo diciottenne di Budapest, Péter Balázs semplicemente perché non aveva indossato la stella gialla mentre era sul treno. L’ufficiale ungherese lo avrebbe quindi tratto in arresto e condotto presso la sua caserma di Arena utca 51 dove, insieme insieme ad altri due soldati – Mader Bela e Lajos Nagy – sarebbe stato selvaggiamente torturato a morte e, alla fine, gettato nelle acque del Danubio. Alla fine della guerra, Mader fu condannato all’ergastolo e Nagy alla pena capitale per crimini di guerra e, proprio nel corso del processo celebrato nei confronti di quest’ultimo, venne alla luce il ruolo svolto da Zentai nell’omicidio del giovane ebreo ungherese.

Zentai all’epoca era arruolato nell’esercito ungherese che, com’è noto, all’epoca era alleato con la Germania nazista. È stato inserito nella lista dei dieci criminali di guerra più ricercati dal Centro “Simon Wiesenthal”, che ha come principale mission quella di scovare i nazisti in ogni parte del mondo e, a tal fine, ogni anno redige una relazione sullo stato delle ricerche in tutto il mondo dei criminali di guerra nazisti. Sulla base di queste informazioni, nel 1948, le autorità ungheresi intrapresero immediatamente un’azione legale contro Zentai per trarlo in arresto ma, a quel tempo, già aveva provveduto a far perdere le sue tracce lasciando l’Ungheria e riparando nella zona americana della Germania occupata. Gli ungheresi chiesero la sua estradizione in modo da poterlo processare a Budapest ma, per motivi non del tutto chiari, l’ex ufficiale non fu rispedito in patria per rispondere dei suoi crimini.


Karoly Zentai, nel 1950, giunse dunque in Australia senza preoccuparsi neanche di celare la sua vera identità, facendosi semplicemente Charles, la traduzione inglese del suo nome. Oggi è un cittadino australiano e, ovviamente, nega tutte le accuse che gli sono state addebitate.

A distanza di molti anni Zentai è stato scovato dal Centro “Simon Wiesenthal”, grazie all’Operazione “Last Chance” lanciata ufficialmente in Ungheria il 13 luglio 2004, in seguito ai numerosi documenti presentati dal fratello della vittima, Adam Balázs, un anziano sopravvissuto all’Olocausto che vive a Budapest, allegando anche circa due dozzine di pagine contenenti le dichiarazioni dei testimoni a decorrere dal 1948, che provano che suo fratello Péter fu ucciso proprio da Karoly Zentai. Questo caso è stata seguito appassionatamente per lungo tempo proprio dal direttore del Centro “Simon Wiesenthal” Efraim Zuroff. Finché l’8 luglio 2005, Zentai è stato finalmente arrestato dalla polizia federale australiana e assicurato alla giustizia in attesa dell’estradizione in Ungheria richiesta dal Centro Wiesenthal per sottoporlo al giudizio di un tribunale militare ma, nel dicembre del 2009, l’ex ufficiale ungherese è stato rilasciato su cauzione. I familiari di Zentai hanno riferito che il loro congiunto ormai è un vecchio vedovo di 90 anni, affetto da una patologia cardiaca e una neuropatia periferica e, pertanto, non sarebbe sopravvissuto al viaggio in Ungheria.

Il governo australiano ha approvato la sua estradizione nel 2009, ma il provvedimento è stato rovesciato nel 2010, in prima istanza e poi definitivamente in appello nel 2011. L’Alta Corte, le cui decisioni sono definitive, ha concluso che Zentai non può essere estradato perché all’epoca in cui si sono svolti i fatti non esisteva in Ungheria il reato di “crimine di guerra”.

Ernie Steiner, figlio dell’imputato, ha più volte dichiarato che suo padre è disposto a collaborare con la giustizia australiano per far luce su questo episodio, ma non vuole assolutamente essere estradato in Ungheria. Le autorità giudiziarie magiare hanno reiterato la richiesta di estradizione dopo che il Centro “Simon Wiesenthal” ha accusato Zentai di essere fuggito dall’Ungheria, rifugiandosi in Germania al termine del secondo conflitto mondiale. Poche settimane or sono un magistrato di Perth ha stabilito che Zentai potesse essere estradato in Ungheria per affrontare le accuse di crimini di guerra che gli sono state addebitate, ma i suoi legali hanno presentato un ricorso contro questa sentenza emessa dalla corte federale di Perth, sostenendo che il reato di cui è accusato all’epoca dei fatti non costituiva reato secondo il diritto ungherese che è stato confermato dall’Alta Corte di Giustizia australiana.

A questo punto si attende fiduciosi che chi di competenza riesca a ripristinare il normale corso della giustizia – che, si badi bene, non significa affatto vendetta – ma il modo più efficace per rendere il doveroso omaggio alla memoria di chi ha pagato con la propria giovane vita la “colpa” di non indossare un ignominioso distintivo.

Nella struttura di Allach i detenuti erano utilizzati per costruire motori di aerei


Sono più di quel che si pensi i sardi finiti nei campi di concentramento nazisti: secondo uno studio di Aldo Borghesi, professore nell'istituto magistrale di Sassari e docente dell'Istituto sardo per la storia della Resistenza e dell'Autonomia, i deportati sarebbero 250. E furono nove a morire a Dachau: tra essi potrebbe esserci anche l'olbiese Salvatore Degortes. Pur risultando negli elenchi di Dachau, che fece scuola tra i lager tedeschi e come Auschwitz aveva la sconcertante scritta «Arbeit macht frei» (il lavoro rende liberi) sul cancello, venne rinchiuso nella struttura satellite di Allach. Campi minori come questi servivano spesso per avere a disposizione manodopera gratuita per le fabbriche. In particolare i prigionieri di quel campo venivano utilizzati nei laboratori di costruzione e riparazione di motori aerei della Bmw. Per uno strano gioco del destino il nipote Gavino ha fatto carriera come tecnico nel settore aeronautico.

VARIAN MACKEY FRY


Varian Fry nacque il 15 ottobre 1907 a New York, figlio di un agente di borsa e di una insegnante.

Dopo gli studi universitari ad Harvard si dedicò al giornalismo, specializzandosi negli affari esteri. Come giornalista per la "Foreign Policy Association" di New York fu mandato a Marsiglia nell'agosto 1940 dalla "Emergency Rescue Committee", un'organizzazione privata che aiutava i perseguitati nella Francia sotto occupazione nazista.

Lo scopo della missione, della durata prevista di tre settimane, era di aiutare duecento personalità del mondo culturale e scientifico, delle quali gli era stata fornita la lista, a fuggire dalla Francia occupata: per far ciò gli era stato assegnato un finanziamento di 3000 dollari.

La notizia si diffuse e Fry fu contattato da migliaia di perseguitati, gran parte dei quali ebrei, in cerca di una via di scampo.

Nel dicembre 1940 fu arrestato e detenuto per un certo periodo su una nave; rilasciato, riprese la sua attività malgrado l'ostilità della polizia francese e del consolato americano.

Per aiutare chi era in pericolo rimase a Marsiglia per oltre un anno. Agiva in piena illegalità, procurando tra l'altro documenti falsi per i perseguitati e organizzando il passaggio clandestino del confine.

Si stima che abbia assistito circa 4000 persone, tra le quali oltre 1000 lasciarono illegalmente il paese.

Tra i molti nomi illustri citiamo Hannah Arendt, Marc Chagall e Alma Mahler.

Un'attività di quelle dimensioni non poteva sfuggire all'attenzione della polizia di Vichy, né poteva contare sul sostegno delle autorità diplomatiche statunitensi, che rappresentavano un paese non ancora in guerra con la Germania.

Proseguì la sua azione come clandestino dopo che gli era scaduto il passaporto, finché nel settembre 1941 fu catturato ed espulso dalla Francia.

Dagli Stati Uniti continuò ad aiutare l'emigrazione clandestina dalla Francia occupata e si attivò per far conoscere quanto stava succedendo in Europa e per promuovere una partecipazione attiva delle democrazie, e degli Usa in particolare, alle operazioni di salvataggio.

Negli Stati Uniti, però, la sua attività era considerata sospetta; il "Federal Bureau of Investigation" lo tenne sotto sorveglianza, impedendogli l'accesso a qualsiasi impiego governativo.

Continuò con difficoltà la sua attività di pubblicista, e infine si dedicò all'insegnamento in scuole secondarie.

Morì all'età di 59 anni, nel Connecticut, dove insegnava a tempo parziale.

Nel 1967 fu insignito del titolo di Cavaliere della Legion d'onore, la massima onorificenza francese.

Nel 1994 è stato riconosciuto Giusto delle Nazioni da Yad Vashem.

GIOVANNI e REGINA BETTIN


Giovanni Bettin nacque a Mellaredo di Pianiga (Venezia) il 30 giugno 1898.

Si sposò nel 1923 con Regina Gentilin, nata a Cazzago di Pianiga il 12 luglio 1903.

Nel settembre 1943 Regina gestiva una trattoria a Padova in Borgo S. Croce, mentre Giovanni lavorava come operaio alle officine La Stanga. Avevano due figli, Egidio e Dalmina, di diciotto e undici anni.

Regina era stata la balia di Lia Sacerdoti ed era rimasta affezionata a tutta la famiglia, composta da papà Edmondo e mamma Gabriella Oreffice, e dai figli Lia, all'epoca undicenne, e dal piccolo Michele di otto anni.

I Sacerdoti, dopo il 10 settembre, erano nella loro casa veneziana al Lido, quando i tedeschi intimarono al prof. Giuseppe Jona, Presidente della comunità israelitica, di consegnare l'elenco degli ebrei residenti, ma questi si suicidò per non accondiscendere alla richiesta.

In quei frangenti terribili, Regina assistette casualmente alla sosta in stazione a Padova, il 19 ottobre, del convoglio diretto ad Auschwitz-Birkenau, su cui, in diciotto carri bestiame, erano stipati in condizioni inimmaginabili gli ebrei romani catturati a Roma tre giorni prima.

Regina si mise in contatto con i Sacerdoti e si offrì di tenere con sé Lia e Michele. I bambini furono ospitati dai Bettin, che li facevano passare per loro nipoti, prima a Padova e poi, per sfuggire ai bombardamenti, a Mellaredo.

Dopo varie traversie, Edmondo e Gabriella Sacerdoti riuscirono a procurarsi documenti d'identità falsi grazie a Torquato Frasson, esponente del CLN vicentino (poi deportato con il figlio diciottenne Franco a Mauthausen, dove entrambi morirono nel maggio del 1945) e successivamente trovarono un rifugio sicuro a Schio grazie all'avv. Dal Savio.

Il 16 giugno 1944 Lia e Michele, dopo otto mesi passati in casa Bettin, si ricongiunsero con i loro genitori che da una settimana erano anch'essi ospiti dei Bettin a Padova.

Il 4 ottobre 1994 Giovanni e Regina furono riconosciuti Giusti delle Nazioni da Yad Vashem. Regina non era presente: era mancata il 7 luglio 1986.

Giovanni ricevette l'onorificenza da un rappresentante del Governo israeliano, nella sua città, davanti ai suoi figli e nipoti. Si spense pochi mesi dopo, a novantasette anni, il 15 settembre 1995.

GERTRUD LUCKNER


Gertrud Luckner nacque a Liverpool il 26 settembre 1900.

Il suo nome era Jane Hartmann, ma subito dopo la nascita fu data in affidamento ai coniugi Luckner di Friburgo in Bresgovia.

Fin dagli anni universitari si impegnò nel mondo del volontariato e dell'assistenza. Pacifista convinta, aderì alla Lega della Pace dei cattolici tedeschi, confessione che abbracciò poi nel 1934.

I piani criminali di Adolf Hitler le furono ben chiari fin dalla lettura, nel 1931, del Mein Kampf.

La sua esplicita avversione al nazismo la fece finire nell'elenco dei sospetti della Gestapo, che fin dal 1933, l'anno dell'avvento al potere di Hitler, ne intercettava regolarmente la corrispondenza. Quando il regime emanò i primi provvedimenti antisemiti, Gertrud si attivò consigliando agli ebrei di lasciare il paese.

Dal 1936, sotto la copertura di impiegata della Caritas tedesca, fornì aiuto e assistenza agli ebrei che volevano espatriare.

A coprire le sue attività provvedeva il presidente dell'organizzazione, Benedikt Kreutz. Il vescovo di Friburgo, Conrad Gröber, le rilasciò nel dicembre 1941, con la Germania in piena guerra e i campi di sterminio in piena attività, un salvacondotto volutamente vago e lacunoso, nel quale si specificava che Gertrud Luckner era incaricata di svolgere non meglio precisati compiti nell'ambito del servizio pastorale straordinario. Gertrud in realtà offriva agli ebrei il sostegno economico necessario a procurarsi falsi documenti per sfuggire alla polizia.

Nel 1943 fu arrestata con l'accusa di svolgere attività eversive.

Subì otto mesi di interrogatori in diverse carceri, finché fu destinata al lager di Ravensbrück, dove indossò il triangolo rosso degli oppositori politici. Il 3 maggio 1945 il campo fu liberato dall'Armata Rossa.

Anche dopo la guerra, Gertrud Luckner si adoperò, dall'interno della Caritas tedesca, per garantire assistenza ai reduci delle persecuzioni naziste. Nel 1966 fu onorata come Giusto delle Nazioni a Yad Vashem.

Morì a 95 anni a Friburgo, la città dove le sue spoglie riposano. Dal 1987 la scuola professionale della città porta il suo nome.

PIETRO e GIULIANA LESTINI

Pietro Lestini nacque a Roma il 23 novembre 1892.

Subito dopo l'occupazione tedesca di Roma (10 settembre 1943) l'ing. Lestini costituì una rete clandestina per nascondere e proteggere dai nazifascisti uomini politici, militari, prigionieri alleati ed ebrei.

Il primo rifugio fu il teatrino messo a disposizione dal parroco della chiesa di san Gioacchino nel quartiere Prati, padre Antonio Dressino. Venivano forniti aiuti in denaro, viveri, vestiti borghesi.

Nel giro di poche settimane la situazione precipitò: il 16 ottobre avvenne la brutale razzia del ghetto e nei giorni successivi furono arrestati anche alcuni commercianti ebrei di via Fabio Massimo.

Si impose la necessità di trovare un ricovero più sicuro.

Lestini, che aveva come preziosa collaboratrice la figlia Giuliana, allora ventunenne studentessa universitaria (è nata l'11 gennaio 1922), se ne inventò uno incredibile: un nascondiglio aereo in uno spazio angusto tra le capriate e la volta a botte della cupola, che lui conosceva bene per aver diretto i lavori di manutenzione e di restauro della chiesa.

Sul ballatoio con ringhiera che corre tutt'intorno alla base della cupola, s'apre una porticina che immette in uno stanzone. Quella soffitta, dal 25 ottobre 1943, accolse a turno decine di rifugiati, assistiti in ogni necessità. Per ragioni di sicurezza la soffitta fu murata nei primi giorni di novembre, e l'unico contatto con l'esterno restò il passaggio attraverso il rosone.

Il cibo era preparato da suor Marguerite Bernes del Convento delle Piccole suore della Divina Provvidenza o Figlie della Carità, che si trova di fronte alla chiesa.

L'organizzazione fu denominata S.A.S.G. (acronimo che significa appunto Sezione aerea di san Gioacchino).

Riuscirono così a sfuggire ai persecutori gli ebrei Alberto e Leopoldo Moscati (padre e figlio quindicenne) e i fratelli Arrigo e Gilberto Finzi. Alberto Moscati, sofferente di claustrofobia, lasciò il rifugio prima del tempo. Le donne di queste due famiglie, Anita e Nora Finzi, e la signora Moscati, con altre italiane e straniere furono nascoste da suor Marguerite Bernes in locali dell'Istituto.

In caso di malattia, o di altre cause connesse alle difficoltà della loro condizione, i rifugiati erano temporaneamente accolti in casa Lestini.

La soffitta fu abbandonata a fine maggio 1944. Pochi giorni dopo, il 4 giugno, Roma veniva liberata dagli alleati.

L'ing. Lestini morì a Roma l'8 agosto 1960.

Nel 1995 Pietro e Giuliana Lestini sono stati riconosciuti Giusti delle Nazioni da Yad Vashem.

Giuliana, preside in pensione, vive tuttora a Roma.

sabato 4 agosto 2012

La prostituta eroina dimenticata da tutti

Hedwig Porschütz ha salvato gli ebrei durante il nazismo, ma nessuno la ricorda mai


Esistono eroi che purtroppo per pregiudizi non vengono celebrati. Una di queste personalità è Hedwig Porschütz, una prostituta di Berlino che ha salvato vari ebrei dalla morte nazista, ma a causa del suo lavoro non ha mai ottenuto riconoscenza per il suo comportamento.

PROSTITUTA PER CRISI - L’orrore hitleriano è stato opposto da molti tedeschi, che durante la fase più tragica del regime nazionalsocialista si sono opposti per le più svariate motivazioni alle persecuzioni contro gli ebrei. Molti di loro erano persone semplici e sono finite nel dimenticatoio, e il loro operato fu celebrato grazie all’iniziativa di un ministro cittadino della Spd, Joachim Lipsitz. Altre persone però non hanno ottenuto neppure questo riconoscimento postumo, ed una di questi eroi si chiama Hedwig Porschütz. Nata come Hedwig Völker nel 1900 nel quartiere di Schöneberg, la berlinese cambiò vari lavori in gioventù, ma diventò disoccupata agli inizi degli anni trenta. Quando arrivò la grande crisi che travolse la repubblica di Weimar, Hedwig Porschütz iniziò a vendere il suo corpo per potere sopravvivere insieme al marito, anch’egli senza lavoro. Le sue attività di prostituta si concentravano ad Alexanderplatz, la grande piazza della parte orientale di Berlino dove la Porschütz aveva un alloggio. La vita della prostituta è sconosciuta fino agli anni quaranta, quando inizia ad avere un rapporto molto stretto con Otto Weidt, uno degli eroi della Berlino anti nazista, anche se è conosciuta la condanna subita per la sua professione.

EBREI SALVATI - Nella fabbrica di Otto Weidt trovarono ospitalità molti ebrei perseguitati dal regime hitleriano. Un cerchio di amicizie permetteva a Weidt di aiutare coloro i quali erano finiti nel mirino nazista a causa della loro etnia. Tra questi c’era in un ruolo di primo piano, come illustra Die Zeit, Hedwig Porschütz, che conduceva per l’imprenditore berlinese i fondamentali affari sul mercato nero. Questi servivano sia per fornire di vivere gli ebrei nascosti nelle officine, sia per corrompere i funzionari della Gestapo al fine di non far deportare i rifugiati nei campi di sterminio. La prostituta lavorava formalmente nella fabbrica di Weidt, anche se i suoi veri compiti erano le missioni di supporto agli ebrei nascosti dall’imprenditore berlinese. La stessa Hedwig Porschütz ospitò alcune donne a casa sua. Tre di loro si salvarono dai nazisti, mentre una fu deportata ad Auschwitz.

CONDANNA A VITA - Il ruolo della prostituta però non fu mai riconosciuto, neanche dopo la guerra, a causa di una condanna subita nel 1944. La polizia la prese a far acquisti sul mercato nero, e la sua attività di meretrice aggravò la condanna a sei mesi di carcere. La donna aveva perso la casa durante i bombardamenti su Berlino, e insieme al marito si trasferì in un altro quartiere della capitale dopo che il suo compagnò torno, molto malato, dalla guerra. La condizione di estrema povertà accompagnò la Porschütz per il resto della sua vita, ma la donna non ebbe neppure la gratificazione della riconoscenza. Nel 1959 l’ufficio competente per i risarcimenti di Berlino stabilì che le sue azioni pro ebrei non costituissero atti di resistenza al regime nazista tali da meritare una ricompensa. La condanna per prostituzione fu uno dei motivi per i quali alla Porschütz fu negata anche questa soddisfazione. Nel 1997 la donna morì in un ricovero per anziani. Solo il 20 luglio del 2012 è stata dedicata una targa alle sue azioni, a memoria delle prostituta che aveva salvato gli ebrei.

Olocausto e best seller: poco attendibile la testimonianza di Denis Avey

Denis Avey ai tempi dell’internamento nel lager

Auschwitz. Ero il numero 200543, l’opera di Denis Avey (con Bob Bromby) è da alcune settimane al vertice della classifica delle vendite (settore saggistica) in Italia, dopo aver ottenuto ottimi riscontri sul mercato britannico.

Il testimone, oggi novantaduenne, racconta di essersi arruolato nel 1939 nell’esercito britannico e di avere combattuto in Africa, nell’area compresa tra l’Egitto e la Libia, contro i nazifascisti. Catturato, venne trasferito in Italia e successivamente in un campo di prigionia nei pressi di Auschwitz.

Si tratta del campo E 715, dove furono internati prigionieri di guerra inglesi, utilizzati nella costruzione di una fabbrica, la Buna, che doveva servire alla produzione di gomma sintetica. Nel cantiere lavoravano anche prigionieri ebrei, provenienti da un vicino campo di concentramento, quello di Buna-Monowitz (Auschwitz III).

Il trattamento riservato a questi ultimi dalle SS e dai kapò era assai peggiore rispetto a quello concernente i prigionieri inglesi, sottoposti alla sorveglianza di soldati della Wehrmacht. «Noi non eravamo destinati allo sterminio, loro sì», scrive Avey. (pag. 140).

La testimonianza del prigioniero inglese non riguarda solo le difficili condizioni di lavoro nel cantiere di Buna, ma si estende anche alle condizioni di vita all’interno del campo di detenzione degli ebrei (Auschwitz III).

Avey dichiara, infatti, di avere attuato uno scambio di identità con l’ebreo olandese Hans e di essere disceso per due volte nell’inferno di Auschwitz III al fine di poter documentare «dall’interno» il processo della soluzione finale («Nella mia mente prese forma l’idea di prendere il suo posto. Solo così avrei potuto rendermi conto di persona di quanto stava accadendo», pp. 166-167).

Il successo commerciale del libro è in gran parte legato a questa testimonianza dal luogo infero, come ben evidenziato anche dalla copertina dell’edizione di lingua italiana: «Era il 1944. Sono entrato ad Auschwitz di mia volontà».

Denis Avey oggi, a 92 anni.


Analizziamo il valore di questa testimonianza. Nella prefazione al libro lo storico Martin Gilbert afferma che il gesto di Avey «ci permette di gettare una luce inedita su uno degli angoli più oscuri del regno delle SS» (pag. 8).

In realtà, i dati informativi forniti dal prigioniero inglese sono già noti da tempo e tutti reperibili nel libro, che Avey sembra conoscere, di Primo Levi «Se questo è un uomo»: il rientro degli ebrei dal cantiere di Buna, la scritta sopra il cancello «Arbeit macht frei», l’impiccato, l’appello, l’orchestra dei prigionieri, il Krankenbau, la Frauenhaus, la zuppa serale a base di cavolo, il fetido dormitorio, la colazione a base di pane nero, la marcia mattutina verso il cantiere.

Non c’è nulla di nuovo, nulla di inedito in ciò che Avey scrive. Si consideri, poi, che la duplice rischiosissima incursione ha richiesto la complicità di due prigionieri inglesi (Bill Hedges, Jimmy Fleet), dell’ebreo olandese Hans (il soggetto dello scambio), di un ebreo tedesco, di un ebreo polacco e del kapò del kommando di appartenenza di questi ultimi.

Sei persone in tutto: quattro rimaste anonime e i due inglesi che, essendo, a quanto pare, deceduti, non hanno potuto fornire alcuna conferma al racconto di Avey.

L’unica voce narrante è quella del militare inglese, che si offre nel segno del «prendere o lasciare». Confrontata con quella autorevolissima di Primo Levi, tale voce appare per di più assai flebile: nessun dato circostanziato, nessun nome identificativo di aguzzino o di vittima («Non sono nemmeno sicuro che Hans fosse il suo vero nome, ma io lo chiamerò così», pag. 157; «Non chiesi mai ai miei complici il loro nome», pag. 183 ; «Cercai di memorizzare i nomi dei kapò e delle SS, senza riuscirci», pag. 185).

A questo punto, tenendo conto sia dei corposi impedimenti alla realizzazione della duplice incursione sia del contenuto scontato e generico del racconto, risulta difficile, per non dire impossibile, dare credito a tale testimonianza.

Del resto, l’autore appare inaffidabile anche in relazione ad un altro passaggio drammatico della sua esperienza militare: quello dell’inabissamento nel 1941 della nave Sebastiano Venier che trasportò da Bengasi verso l’Italia Avey e altri prigionieri: colpita da un siluro, la nave «colò a picco con tutto il suo carico di uomini intrappolati dentro» (pag. 114).

In realtà, come accertato anche dal coautore Bob Bromby, la nave raggiunse la costa greca e tutti i prigionieri si salvarono (pp. 301-304).

La vicenda della Shoah con i suoi milioni di morti è una cosa terribilmente seria, che è stata documentata con circostanziati racconti da aguzzini e da vittime superstiti.

I confusi (inverosimili) ricordi di un ex-militare novantaduenne, ancorché ricevuto con tutti gli onori il 10 gennaio 2010 dal premier Gordon Brown al n. 10 di Downing Street e inserito nell’elenco dei ventisette inglesi «eroi dell’Olocausto», non servono alla causa (nobilissima) dell’accertamento della verità storica.