domenica 13 novembre 2011

Arnaldo Pellizzoni: prigioniero di guerra numero 20765 - Stammlager VI G


Arnaldo Pellizzoni (Lissone il 24/8/1915 - 24/12/1999) ha venticinque anni, quando viene richiamato alle armi nel Maggio 1940; partecipa alla seconda guerra mondiale, prima sul fronte francese poi sul fronte greco-albanese. Sull’ isola greca di Tinos, occupata dagli italiani, viene fatto prigioniero dai tedeschi subito dopo l’ 8 Settembre 1943 e deportato in campo di concentramento in Germania, prigioniero numero 20765.

Liberato dagli americani nell’ Aprile 1945, ritorna a Lissone il 4 Settembre 1945.

Nel documento “Per non dimenticare: diario di guerra di Arnaldo Pellizzoni” ho ritrascritto parti del diario di mio padre; altri fatti me li ha raccontati.

Il diario si riferisce ai cinque anni, dal 1940 al 1945, in cui l’Italia è stata trascinata in una guerra inutile e sciagurata da un regime dittatoriale, il fascismo, che "aveva fatto della guerra un dato fondamentale della propria azione politica e dell'educazione dei giovani, lo sbocco inevitabile di una concezione falsa di dominio e di oppressione”. Sono anche gli anni di vita che un giovane, dai 25 ai 30 anni, avrebbe desiderato, come tanti suoi coetanei, vivere diversamente: penso a quante sofferenze abbia provato personalmente e con lui i suoi diretti familiari. Nonostante tutte le traversie, è riuscito a sopravvivere, a resistere ed a ritornare dal campo di concentramento, a differenza di tanti altri, caduti o dispersi in guerra, o dei 20.000 militari deceduti in prigionia.

Dice Gerard Schreiber, ufficiale della marina tedesca, nel suo libro “ I militari italiani internati nei campi di concentramento del Terzo Reich 1943–1945 Traditi - Disprezzati – Dimenticati”: “… i militari rinchiusi nei campi di prigionia nazisti, nel rifiutare ogni forma di collaborazione con la Repubblica Sociale Italiana e con il Terzo Reich, attuarono anche loro, sia pure senza l’uso delle armi, una forma di resistenza …”

La prigionia nei lager tedeschi va considerata parte integrante della resistenza antifascista e si iscrive a pieno titolo nella Storia della Resistenza che ebbe molte forme: quella operata dagli intellettuali e da uomini politici (che si opposero alla dittatura fascista, assassinati o imprigionati per diversi anni o mandati al confino o costretti a rifugiarsi all’estero), quella degli operai in sciopero nelle fabbriche, quella dei partigiani sulle montagne; resistenti furono anche i civili che li aiutarono, i militari che si schierarono con il Regno del Sud.

Anche Nuto Revelli, scrittore-partigiano, così si espresse sulla vicenda dei militari italiani internati: “ la prigionia nei lager tedeschi è una pagina della Resistenza almeno nobile ed eroica quanto la nostra guerra di liberazione”.

Il diario di mio padre è fitto di annotazioni nel primo anno di guerra: dalla partenza dall’Italia fino all’arrivo a all’isola di Tinos. Credo che ciò sia dovuto al forte impatto con la cruda realtà della guerra da parte di un giovane venticinquenne, che vede la morte particolarmente vicina e che vede morire alcuni suoi commilitoni.

Il diario diventa scarno durante il presidio sull’isola di Tinos: è questo forse il periodo che, nonostante la lontananza dalla propria terra e dagli affetti familiari (una sola volta rientrerà a Lissone durante i due anni di permanenza sull’isola), trascorre con una certa tranquillità.

Pur essendo gli Italiani degli occupanti, riesce a stabilire una buona relazione con una famiglia greca (i Prelorenzo, di antiche origini italiane) che addirittura gli chiedono di fare da padrino al battesimo del loro figlio ultimogenito Giovanni: ho potuto conoscere personalmente Giovanni in occasione di una sua visita in Italia.

Durante la permanenza a Tinos trascrive a penna su un quaderno il suo diario, di piccole dimensioni e scritto a matita, forse per timore che l’originale diventi illeggibile.

Il diario è sintetico ed essenziale dopo l’8 Settembre e durante la permanenza nel campo di concentramento in Germania. Nel lager ogni sforzo è rivolto alla sopravvivenza; tra la fatica del lavoro, acuita da una alimentazione scarsa e di poche calorie, le marce di trasferimento dal campo alla fabbrica e ritorno, i controlli e le perquisizioni, di tempo per scrivere ne rimane ben poco.

Alcuni episodi mi sono stati raccontati direttamente da mio padre gradualmente. Credo che per diversi anni, perfino all’interno delle famiglie, le esperienze di quel periodo fossero considerate un argomento di cui era meglio non parlare. Penso che anche mio padre abbia condiviso l’affermazione di un altro deportato italiano: “raccontare poco non era giusto, raccontare il vero non si era creduti, allora ho evitato di raccontare, sono stato prigioniero e bon, dicevo …” .

Pur con una rabbia interiore, il suo intimo desiderio era di ricostrursi una vita, accantonando nella memoria i disagi e i patimenti subiti.

Anche lui era uno dei 600.000 Internati Militari Italiani (IMI): secondo questo status, deciso da Hitler il 20 Settembre 1943, agli IMI doveva essere riservato, e fu riservato in concreto, un trattamento peggiore che a qualsiasi altra persona catturata in guerra.

Erano diventati tali per quel “NO” che dissero quando “con lusinghe e minacce” fu chiesto loro “di riprendere le armi per il Grande Reich e poi per la Repubblica Sociale Italiana di Mussolini”.

Renato Pellizzoni, figlio di Arnaldo, attuale presidente dell’ANPI Sezione di Lissone

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