domenica 22 luglio 2012

Pippo vola sulla città


Il libro di Antonio Quatela raccoglie le testimonianze di persone oggi anziane che sono state bambine e bambini a Milano negli anni della seconda guerra mondiale. Il risultato è un sorprendente mosaico di piccole storie che concorrono a ricostruire e a definire la Storia, con un linguaggio vivo e non retorico, attraverso immagini forti che aiutano a non dimenticare.

Bel lavoro quello che Antonio Quatela ha realizzato con il libro Pippo vola sulla città, ricostruendo, attraverso le testimonianze di bambine e bambini degli anni ’40, la Milano degli anni della seconda guerra mondiale.

Oggi questi ragazzi hanno tutti un’età intorno agli ottant’anni ma, attraverso i loro ricordi, rendono con estrema freschezza e immediatezza il clima di quella tragica epoca. I primi bombardamenti su Milano, nella zona di via Padova, si collocano nella notte tra il 15 e 16 giugno 1940, solo qualche giorno dopo l’infausta entrata in guerra strombazzata dal balcone di Palazzo Venezia da un tronfio Mussolini.


Volano su Milano con i loro carichi di bombe gli aerei alleati e, tra essi, quello che è stato battezzato dal popolo Pippo, un aereo da caccia che opera soprattutto di notte bombardando e mitragliando a bassa quota. Nulla si sa con certezza della sua denominazione; per quanto il nome apparisse bonario e scherzoso, era uno strumento di morte e di distruzione.

I testimoni se lo ricordano bene, rievocando il suono delle sirene che annunciava l’arrivo degli aerei, ricordano i rifugi sotterranei, segnalati da cubitali scritte U.S. sui muri dei palazzi, dove si stipavano i milanesi per sfuggire alle bombe.

Nei ricordi, ricorrono gli anni della scuola spesso alle prese con maestre e maestri di acclarata fede fascista, ritornano le divise da balilla e da piccola italiana, spesso ambite per non essere esclusi dalla comunità scolastica.

E’ poi c’è tutto il repertorio degli anni di guerra, la scarsità di cibo, le finestre oscurate, la borsa nera, gli sfollamenti in Brianza e nelle valli bergamasche, la ferocia dei nazisti e dei fascisti repubblichini, soprattutto dopo l’8 settembre 1943.

Le testimonianze più toccanti sono quelle dei bimbi ebrei, tra cui, su tutti, il ricordo di Liliana Segre, unica sopravvissuta della sua famiglia deportata ad Auschwitz.

I bambini di allora, alcuni già ragazzi e già avviati al lavoro, raccontano, pur nella tragedia assoluta, una Milano viva e combattiva e la ricordano con il cinico incanto della loro età, non rinunciando ai giochi di strada in uno scenario di macerie e di morte, con forti dosi di incoscienza e tanta voglia di normalità.

Nell’immaginario di questi ragazzini di allora, la bomba sulla scuola di Gorla, che provoca centinaia di giovani vittime, segna profondamente le loro coscienze, così come la fucilazione di quindici partigiani in piazzale Loreto.

Grazie ai loro ricordi, a beneficio di chi abita ora in questa zona della città, si scopre che la fabbrica di biciclette Bianchi era in quella che allora si chiamava piazzale Tonoli, dedicato ad uno studente fascista morto durante un assalto al giornale socialista Avanti, e che ora è piazza Ascoli.

Si scopre che la sede del famigerato gruppo rionale fascista “Tonoli” era in via Andrea del Sarto e che i feroci fascisti del Battaglione Azzurro dell’Aeronautica hanno massacrato quattro giovanissimi antifascisti in via Botticelli il giorno dell’Epifania del 1945.

Mentre i fascisti della Guardia Nazionale Repubblicana “Aldo Resega” avevano sede in un garage in via Stoppani 36, si ricorda che l’Ortica era terra di oppositori e di ribelli, nonché di fabbriche all’interno delle quali cresceva l’antifascismo. Nell’area della ex Innocenti fanno ancora bella mostra di sé i rifugi antiaerei di inconfondibile forma conica.

Alcuni ragazzini, con le loro famiglie, sono stati anche attivi durante la Resistenza, contribuendo coraggiosamente alla sconfitta dei fascisti e dei loro alleati tedeschi.

Il libro, grazie al coro intonato dei suoi protagonisti, racconta questo e molto di più e offre occasione di cogliere, attraverso piccole storie, la storia con la esse maiuscola.

Da leggere e far leggere, soprattutto nelle scuole per non perdere il senso dell’impegno civile e dei valori della pace e della convivenza.


Intervista ad Antonio Quatela

Antonio Quatela è nato e vive a Milano. Insegna lettere e storia nei licei artistici, si occupa da tempo di studi sulla Resistenza; è presidente della sezione “25 aprile-Città Studi” dell’Anpi e autore di saggi di storia e letteratura. Per meglio comprendere il valore del libro, gli abbiamo rivolto alcune domande.

Da cosa nasce l’idea del libro?

L’idea del libro nasce durante la presentazione del volume Oltre il ponte (un testo che raccoglie le vicende degli anni del fascismo, della guerra e della Resistenza attraverso le testimonianze di adulti protagonisti di quella stagione), scritto con Roberto Cenati, attuale presidente dell’ANPI provinciale di Milano. A conclusione di quella serata, un partecipante mi raccontò che aveva un ricordo vivissimo, quando era ragazzino, di un attacco aereo che lo coinvolse, per così dire, perdutamente appollaiato su un vespasiano. Racconto che ascoltai con curiosità e molta simpatia e che di fatto diede inizio al lavoro. Il racconto è titolato "Di lassù si vede meglio" ed è inserito naturalmente in Pippo vola sulla città. Da quel momento scattò l’idea e la “caccia” alle storie vissute dai giovani protagonisti di quella fase cruciale della nostra storia.

E’ stato arduo raccogliere le testimonianze e dare loro dignità letteraria?

Ho impiegato quasi due anni per la raccolta delle testimonianze e la messa a punto dei testi, cercando di rispettare sempre, con la collaborazione attiva dei protagonisti, i linguaggi e gli stili narrativi propri di ognuno. E penso di esserci riuscito, creando un coro di solisti.

Esiste un filo rosso che unisce tutte le persone che hanno contribuito al libro?

Il “filo rosso” che unisce quella generazione di giovanissimi è il contesto storico-quotidiano che vivono, giorno dopo giorno, nella città di Milano, nella scuola fascista, nella tragedia dei bombardamenti e nella percezione che presto arriverà la Liberazione. E poi c’è il fantomatico “Pippo il bombardiere”, vissuto tra il favolistica e la realtà, tanto che si era creata una sorta di mitologia di quell’aereo che ancora oggi aleggia nell’immaginario e che svolge sicuramente la funzione di raccordo di queste formidabili “storie minime” all’interno della grande Storia.

Sul boia nazista Brunner gli inganni dei servizi tedeschi


BERLINO - I servizi segreti tedeschi (Bnd) ingannarono le autorità sul caso dell'ex criminale di guerra nazista Alois Brunner: lo scrive lo Spiegel, citando dei documenti declassificati.Secondo l'autorevole settimanale di Amburgo, il Bnd depistò il Bundestag, la polizia criminale e la procura di Francoforte. Nel 1997, scrive il giornale, in risposta ad una richiesta della procura che voleva sapere cosa il Bnd sapesse su Brunner, i servizi dissero che "non avevano dati su di lui". Ma secondo quanto pubblicato a luglio sempre da Spiegel, il Bnd fra il 1994 e il 1997 distrusse le 581 pagine del dossier sull'ex ufficiale delle Ss.Responsabile della deportazione di circa 128.500 ebrei originari di diversi Paesi occupati dalle truppe hitleriane, Alois Brunner visse dagli anni '50 in Siria dove occasionalmente incontrava dei giornalisti, sempre secondo lo Spiegel. Il governo siriano ha sempre smentito la presenza sul suo territorio di Brunner, la cui morte non è provata, ma è ritenuta certa dal Centro Simon Wiesenthal che è specializzato nella caccia agli ex nazisti. I pochi documenti rimasti in cui viene menzionato il criminale sono contraddittori, in particolare quanto alla questione se abbia o meno lavorato per il Bnd.

MORTI NEI LAGER NAZISTI E NASCOSTI DA UNA LEGGE ITALIANA

Prigionieri italiani

Sangue innocente e oblio di Stato. Non erano dispersi, ma i governi italiani d’ogni ordine e grado (o colorazione se preferite) non l’hanno mai detto.Insabbiatidi guerra: uccisi due volte. Nato il 26 settembre 1905 a Vico del Gargano e deceduto il 12 giugno 1944; sepolto ad Amburgo, nel cimitero militare italiano d’onore (posizione tombale: riquadro 4, fila E, tomba 9). Si chiamava Antonio Comparelli, combattente antifascista pugliese, è uno dei circa 17 mila italiani che nel 1957 e ’58 furono occultati in vari cimiteri tedeschi da un italianissimo Commissariato Generale Caduti in Guerra (sigla: “Onorcaduti”) che li identificò, ne scrisse i nomi, date e luoghi di origine sulle tombe. Ma alle famiglie nessuna notizia. Non una lettera, né un telegramma e neppure un avviso tramite uffici militari. Genitori, mogli, figli, fratelli, sorelle e parenti furono tacitamente condannati all’angoscia e alla disperata speranza di veder tornare un giorno il loro congiunto.

Addirittura una legge - davvero difficile crederci se non fosse tutto documentato in Gazzetta Ufficiale - emanata il 9 gennaio 1951, numero 204, all’articolo 4 recava il «divieto di rimpatrio delle salme sepolte nei cimiteri militari italiani dall’estero». Presidente del Consiglio era Alcide De Gasperi, che qualche anno prima aveva estromesso dal governo comunisti e socialisti su richiesta del governo Usa, ottenendo per il suo partito la vittoria del 18 aprile 1948.


Il giornalista d’altri tempi - E’ lo stesso periodo in cui qualcuno, nella sede del Tribunale Militare, ordinò di girare contro il muro affinché non si potesse aprire l’armadio con 695 rapporti e 2.274 denunce (“notizie di reato”) a carico di nazisti tedeschi e fascisti italiani responsabili di stragi con migliaia di morti civili innocenti. Lo troverà nel 1994 il giornalista Franco Giustolisi: «Questa è la storia di un’ingiustizia. La più tremenda ingiustizia che un popolo possa subire. Fu una carneficina. Nazisti e fascisti, SS e repubblichini fecero decine di migliaia di vittime. Gente senz’armi, civili in fuga dalla guerra. Per lo più donne, vecchi e bambini. Piccoli ancora in fasce. Altri mai nati. Non furono rappresaglie ma omicidi. C’è un palazzo a Roma in via degli Acquasparta, sede della Procura generale militare. Lì affluivano dopo la liberazione, i fascicoli di quegli eccidi. Ma arrivò un ordine dall’alto. Fu deciso di salvare migliaia di criminali, di uccidere una seconda volta una moltitudine di cittadini. Non ci furono processi. Tutto fu avvolto nel silenzio che il potere aveva imposto».

Non solo ebrei - La tragica conta ufficiale del ministero della Difesa attesta che i deportati italiani furono in tutto 800 mila, di questi 80 mila morirono di stenti o furono trucidati nei lager, 44 mila erano civili internati per motivi razziali o politici, gli altri erano militari che in varie zone di guerra avevano tentato di resistere ai tedeschi - mentre il re Savoia si era dato alla fuga con la famiglia - e militari che s’erano rifiutati di arruolarsi nella Repubblica di Salò. Le salme si trovano nei cimiteri militari italiani di Amburgo, Berlino-Zehlendorf, Francoforte, Monaco di Baviera, Mauthausen in Austria e Bielany in Polonia. Fra le vittime sepolte si contano anche 77 ragazzi e bambini.

Un uomo - «È giusto che le famiglie dei Caduti sappiano». Questa è la frase che è diventata lo slogan dell'impresa titanica che un uomo di Montorio Veronese, Roberto Zamboni, ha deciso di portare fino in fondo: restituire alle famiglie la memoria dei propri cari, scomparsi durante il secondo conflitto mondiale e dati per dispersi.Gli elenchi di Zamboni (sul suo sito significativamente intitolato “Dimenticati dallo Stato”) provengono dall’incrocio di dati oscurati in diversi archivi: Croce Rosa Internazionale, Vaticano e Commissariato per le Onoranze (Onorcaduti) del ministero della Difesa tricolore. Incrociando i riferimenti Zamboni ha aggiunto ai nomi anche notizie relative alla deportazione, alle date e alle cause della morte, alla condizione sociale e alla provenienza delle vittime.

«Per oltre un decennio ho raccolto i dati dei nostri Caduti militari e civili che furono internati o deportati nei campi nazisti e che, alla fine del loro calvario, furono sepolti in Germania, Austria e Polonia. Chi nel dopoguerra si occupò di ricercare, riesumare e traslare le salme nei cimiteri militari italiani, purtroppo si “dimenticò” d'informare i familiari dell'avvenuta inumazione, negando a migliaia di famiglie italiane di avere almeno una tomba su cui piangere».Dalla fine della Seconda Guerra mondiale, il suo è il primo elenco integrale (oltre 16mila nominativi di base) che sia mai stato reso pubblico, riguardante i connazionali deceduti in prigionia o per cause di guerra e sepolti nei sei principali cimiteri militari italiani in Austria, Germania e Polonia. Nelle liste sono trascritte le posizioni tombali dei caduti sepolti nei cimiteri militari italiani di Amburgo, Francoforte sul Meno e Monaco di Baviera. Per i caduti sepolti nei cimiteri militari di Berlino, Bielany/Varsavia e Mauthausen, è indispensabile richiedere le coordinate tombali al Commissariato generale onoranze caduti in guerra per poter stabilire se il caduto è stato inumato in fossa singola, in tomba collettiva o sepolto tra gli ignoti.

Val la pena di chiarire che Zamboni fornisce la data di nascita di ognuno, la data esatta di morte (quasi sempre Austria, Germania o Polonia) e il luogo dove sono sepolti: notizie, le ultime due, che le famiglie di origine hanno sempre ignorato. Per le numerose famiglie, infatti, quei ragazzi partiti giovanissimi per la guerra non sono più tornati. «Lo studio», spiega Zamboni, «partito inizialmente come ricerca familiare, si è con il tempo sviluppato e dilatato in una vera e propria ricerca, tuttora in corso, su un aspetto poco conosciuto a ricercatori e storici e, come avrei potuto appurare col tempo, totalmente sconosciuto ai parenti dei Caduti. Dov’erano state sepolte le centinaia di deportati civili morti dopo le liberazioni dei campi di concentramento? E le migliaia di Internati militari italiani deceduti per le violenze subite nei campi di prigionia? Erano realmente tutti dei dispersi o avevano trovato degna sepoltura?».

«Questa impresa, iniziata nel 1995», conclude lo studioso, «ha come scopo finale quello di far conoscere ai parenti di questi poveri sventurati le località di sepoltura dei loro cari. A questo proposito dal marzo del 2009 ho iniziato a catalogare, riscontrare e verificare gli elenchi in mio possesso per poterli rendere pubblici». La sua ricerca ha avuto una importante eco mediatica quando Savino Pezzotta, ex segretario generale della Cisl, ha trovato il nome di suo padre: Pezzotta Francesco. Artigliere alpino, rifiutò di aderire alla Repubblica di mussoliniana di Salò: morto il 9 giugno 1944, sepolto nel cimitero militare d'onore a Bielany in Polonia. «Quel soldato era mio papà», disse Pezzotta, «e non abbiamo mai saputo dove fosse sepolto». Ora il documento è stato affidato al nostro giornale e finalmente dopo oltre 60 anni le famiglie potranno conoscere la sorte dei loro cari.

Un sindaco neofascista - Ad Orta Nova, in Puglia, il sindaco Giuseppe Moscarella prima di mollare la poltrona dopo aver accumulato debiti per oltre 12 milioni di euro, ha pensato bene di dotare la biblioteca comunale dell’opera omnia di Benito Mussolini. Anche questo paese ha i suoi dispersi, ora ritrovati: Luigi Benedetto, nato il 18 marzo 1911, ammazzato il 2 aprile 1945, attualmente sepolto a Francoforte sul Meno nel cimitero italiano d’onore (posizione tombale: riquadro K, fila 2, tomba 6). Paolo Coletta, nato il 12 febbraio 1920, assassinato il 24 febbraio 1945, sepolto ad Amburgo nel cimitero militare italiano d’onore (posizione tombale: riquadro 2, fila V, tomba 44). Ed infine, Giuseppe Norscia, nato il 24 agosto 1920, ucciso il 22 maggio 1945, sepolto a Monaco di Baviera nel cimitero italiano d’onore (posizione tombale: riquadro 5, fila 20, tomba 42).

Vergogna giudiziaria - Niente indennità da parte della Germania alle vittime italiane dei crimini nazisti. È questo il contenuto della sentenza emessa il 3 febbraio 2012 dalla Corte internazionale di giustizia dell’Aja.A Berlino l’Italia ha mancato di riconoscere l’immunità legittimata dal diritto internazionale per i reati commessi dal Terzo Reich. Con questa motivazione i giudici dell’Aja hanno deciso di accogliere per intero il ricorso presentato dallo Stato tedesco con il quale chiedeva il blocco dei risarcimenti alle vittime italiane del nazismo. È stata quindi riconosciuta come valida la tesi sostenuta dalla Germania, che accusava il sistema giudiziario italiano di “venire meno ai suoi obblighi di rispetto nei confronti dell'immunità di uno stato sovrano come la Germania in virtù del diritto internazionale. Consentendo il pronunciamento dei tribunali su cause miranti al risarcimento di danni subiti durante la seconda guerra mondiale” sostenevano i tedeschi, il Belpaese aveva infranto “l'obbligo di rispettare l'immunità giurisdizionale di cui la Germania gode secondo il diritto costituzionale”. Con il recente verdetto il Tribunale dell’Aja ha ordinato al governo italiano di prendere tutte le misure necessarie affinché le decisioni nazionali prese finora che contravvengono all’immunità siano prive d'effetto. Le corti italiane, da parte loro, non dovranno più emettere sentenze che prevedano risarcimenti individuali per casi simili. La giurisprudenza italiana in materia, quindi, diventa priva di validità. La vicenda ha avuto inizio con due decisioni della Corte di Cassazione. La prima risale al 2004; con essa veniva riconosciuto il diritto al risarcimento a un uomo deportato in un lager. Secondo i giudici del Palazzaccio, infatti, lo scudo dell'immunità veniva meno nel caso di specie per via della gravità dei fatti. Nel 2008 gli ermellini tornavano a condannare la Germania a risarcire i familiari delle vittime delle stragi compiute durante l'occupazione del suolo italiano da parte delle forze tedesche. La pronuncia respingeva la richiesta avanzato dallo Stato alemanno contro una precedente sentenza emessa dalla Corte d'Appello militare di Roma. Quest'ultima aveva ravvisato i danni subiti dalle parti civili nella strage nazista del 29 giugno 1944, in occasione della quale vennero uccise 203 persone, tra le quali non vi era nessun militare. La Corte d’Appello militare aveva condannato Berlino a risarcire i familiari delle vittime di questo eccidio. La pronuncia della Suprema Corte con la quale gli indennizzi venivano confermati era stata considerata storica, poiché per la prima volta era affermato il diritto al risarcimento per le vittime dei crimini nazisti nell'ambito di un procedimento penale. Al di fuori dell’Italia, nessun paese aveva intentato cause per ottenere un indennizzo nei confronti della Germania, per via dell’immunità.La Corte internazionale di giustizia dell’Aja, tuttavia, ha invitato la Germania a negoziare a livello politico un risarcimento per tutte le vittime che avevano già ottenuto il giudizio favorevole dei tribunali italiani. Il Tribunale dell’Aja, si legge nella sentenza “ritiene che le richieste originate dal trattamento degli internati militari italiani, insieme a altre richieste di cittadini italiani finora non regolate, possano essere oggetto di un ulteriore negoziato” tra i due paesi. Nella pronuncia un passo è dedicato anche al trattamento riservato ai militari italiani internati, esclusi dal programma di risarcimento tedesco. La Corte dell’Aja, si legge, “considera motivo di sorpresa e di rammarico che la Germania abbia deciso di negare una compensazione a un gruppo di vittime, negando loro la protezione legale che sarebbe spettata ai prigionieri di guerra”, perché tali furono considerati, dal punto di vista legale, i militari italiani nei campi. La questione è rimandata alle calende greche. Ma i bambini, le donne, i vecchi uccisi dai nazisti e dai fascisti? E quelli imprigionati nei campi di sterminio? Meritano rispetto, ricordo, riconoscenza. Il loro sacrificio, insieme a quello dei partigiani, ha generato la Costituzione (recentemente svuotata di senso dopo l’approvazione del Trattato di Lisbona).

CINEMA NAZISTA (The Nazi film)

La caduta degli dei - Luchino Visconti

Due circostanze cinematografiche mi hanno suggerito questo sguardo all'indietro sul film tedesco del periodo nazista.

La prima è l'interesse che ha riscosso lo spettacolo di Luchino Visconti dedicato alla Germania hitleriana, “La caduta degli dei”.

L'altra, forse storicamente più concreta ma non esente da sospetti di ambiguità, l'iniziativa presa dal Festival di Oberhausen in Renania (“in collaborazione” dice il comunicato “con le commissioni di cinema e televisione delle università tedesche e delle scuole popolari superiori”) di riesumare nel corso della manifestazione documentari, cinegiornali e film culturali di propaganda nazista, girati fra il 1933 e il 1944, allo scopo, è sempre il programma ufficiale che lo afferma, “di analizzarne le tendenze ideologiche e di esporre la loro manipolazione della pubblica opinione di quel tempo”.

Candido desiderio d'analisi, a sessantacinque anni di distanza dalla fine di quella tirannide....

Qui voglio anche io ricordare le tappe principali del cinema della svastica. Non per riscoprirne le “tendenze ideologiche”, che a differenza di quanto accade agli studiosi del seminario di Oberhausen ci sono, chi sa come, note da un pezzo. Neppure per esaminarne il potere di mistificazione sullo spettatore tedesco della generazione scorsa, il quale nella grande maggioranza non ha aspettato il veicolo cinematografico per adeguarsi al Führerprinzip. Ma semplicemente per verificare un lato meno conosciuto del grande processo di schiacciamento svolto dalla macchina nazista, prima sopprimendo una cinematografia dotata di suoi precisi valori (la Germania era stata una delle forze mature dell'ultimo decennio del muto), poi assorbendone le energie superstiti nella corsa al potere, poi travolgendola nella catastrofe finale. Era un cinema composto da molti schiavi, moltissimi servi e aguzzini, pochissimi uomini che conoscessero ancora il concetto di libertà. Questi ultimi non sono tra i sopravvissuti.



Il partito nazista non aveva atteso la vittoria di Hitler per affermare i suoi gusti in fatto di film. Fino dal 1930 l'amministrazione Brüning esercitava la censura sotto il coperto controllo dei gruppi reazionari e filonazisti, vietando la circolazione dei film di propaganda elettorale di sinistra. Nel '30 e '31 squadracce suscitarono disordini nelle sale in cui si proiettava “M, Il mostro di Düsseldorf” e l'americano “All'ovest niente di nuovo”, giudicato “lesivo dell'onore del soldato tedesco”, e le autorità ritirarono il visto di circolazione ai due film, ciò che era esattamente quanto i dimostranti volevano.

Un altro film “maledetto”, ”Il testamento del dottor Mabuse” (1933) nella versione parlata, doveva entrare in noleggio quasi contemporaneamente alla nomina di Hitler a cancelliere; era di nuovo un esempio, secondo i nazisti, di quell'arte morbosa e degenerata che il nuovo movimento si proponeva di spazzar via. Ma la fama del regista, Fritz Lang, aveva fatto sì che prima ancora della fine delle riprese la pellicola fosse già stata contrattata in vari paesi europei, e i nazisti, sentinelle della nuova morale, non disdegnavano certo l'apporto di valuta estera. Così ricorsero al piccolo machiavello di autorizzare il “Mabuse” fuori dai confini, proibendolo in patria. Il film di Lang fu proiettato persino nell'Italia mussoliniana.

Il film “La caduta degli dei” illustra le gesta inaugurali del Terzo Reich: l'incendio del Reichstag (febbraio 1933), i primi roghi di libri (maggio 1933: tra i nomi immediatamente , il remarque di “All'ovest niente di nuovo”), “la notte dei lunghi coltelli” (giugno 1934).

Le prime due imprese trovarono la via dello schermo nei cinegiornali di propaganda. Sulla terza gravò subito il silenzio e l'oscurità; era troppo difficile maneggiarla anche sul terreno dell'informazione truccata. Tanto più che nel frattempo il cinema del regime era passato per intero nelle mani di quell'uomo accorto e senza scrupoli che era il dottor Josef Goebbels.

Hitler, il quale si piccava di atteggiarsi a intenditore di musica e pittura e dettava personalmente le disposizioni per “arianizzare” queste arti, non si era mai interessato molto di cinema e anche in seguito non intervenne quasi mai nel settore. Goebbels invece era a suo modo un appassionato. Allorchè nel settembre del '33 fondò la Reichsfilmkammer, fu chiaro che essa sarebbe stata la sua creatura prediletta a scapito delle altre forme artistico-culturali cui il suo ministero sovrintendeva e che andavano dalla scultura alle trasmissioni radiofoniche. D'altronde la Kammer cinematografica aveva anche chiari scopi di discriminazione e interdizione. Respingeva gli elementi ebrei e i sospetti al nuovo governo. Metà dei cineasti tedeschi si trovò dalla sera alla mattina senza lavoro.

Il loro esodo cominciò quasi subito. Partirono verso l'Austria (fino all'Anschluss), la Cecoslovacchia, l'Oanda, la Francia, la Gran Bretagna, l'America. Alcuni optarono per l'Italia: Max Neufeld e il teorico Rudolf Arnheim, il quale rimase a Roma fino al 1938 collaborando a “Cinema” e “Bianco e Nero”, e poi, vedendo che anche da noi il temporale montava, salpò per gli Stati Uniti.

Nomi famosi figurano in questi volontari esilii : Billy Wilder, Georg W. Pabst, Luise Rainer, Ernst Deutsch, Hans Richter, Conrad Veidt, Ewald A. Dupont, Paul Czinner, Robert Siodmak, Slatan Dudow, Max Ophiils, Joe May, innumerevoli altri. Peter Lorre, che aveva interpretato la parte dell'assassino pazzo di Düsseldorf in “M” di Lang, fuggì dicendo:

“In Germania non c'è posto per due mostri come Hitler e me”.

Più complesso il caso di Fritz Lang. Ebreo solo per metà e marito della nazistissima Thea von Harbou, sua sceneggiatrice, avrebbe potuto godere della benevolenza dei capobanda perchè sia Goebbels che Hitler erano suoi estimatori grazie alla vecchia saga dei Nibelunghi girata nel 1924. Nei Nibelunghi Hitler aveva letto un'apoteosi della razza germanica e aveva veduto le scenografie ideali per le future adunate di Monaco, Berlino e Norimberga. Offrì a Lang di diventare il regista ufficiale del Reich. Lang non era nè un eroe nè un politico, ma fin dal 1920 aveva diretto vari film imperniati su banditi pazzi avidi di potere, il cui motto poteva essere “oggi è nostra l'Europa, domani tutto il mondo”. Come risposta prese il treno per Parigi.

Ho già detto che Goebbels era un appassionato di cinema. Ciò non significa che fosse realmente un intenditore; dichiarava spesso che i suoi film preferiti erano “Il grande agguato dell'alpinista” - regista tirolese Luis Trenker e l'edizione muta di “Anna Karenina” (1927) con Greta Garbo, un connubio abbastanza osceno. Ma non gli era sfuggita la potenza della “Corazzata Potemkin” di Eisenstein, che considerava il modello assoluto di cinema rivoluzionario. E' noto che uno dei suoi primi atti d'imperio cinematografico, nel 1934, fu la convocazione generale dei registi tedeschi e l'ordine perentorio:

“Voglio da voi un “Potemkin nazista”.

Ma non lo ebbe, perchè tra le due rivoluzioni correva qualche differenza e perchè nessuno dei bravi cineasti allineati sull'attenti in quell'ufficio era o si sentiva Eisenstein. Uno solo, dei più oscuri e balordi, prese Goebbels in parola e uscito di lì andò diligentemente a preparare il suo “Potemkin”. Si chiamava Karl Anton.

Il film uscì nel 1936 col titolo “Schiave bianche”, in Italia “La resa del Sebastopoli”.

Val la pena di riassumerne in due righe il soggetto.

Allo scoppio della rivoluzione, il governatore di Sebastopoli viene gravemente ferito e perde la memoria. Sua figlia, scampata alla morte, è salvata assieme al padre da un marinaio zarista fedele. Il commissario bolscevico che comanda la piazza è l'ex cameriere del governatore, segretamente innamorato della ragazza. Egli riesce ad attirare in un agguato il fidanzato di lei, che è anche capo dei “bianchi”. Poi impone alla ragazza, strappata dal suo rifugio, di essere sua in cambio della vita del fidanzato e del padre. Essa sta per cedergli ma proprio allora la controrivoluzione ha il sopravvento e i prigionieri riescono a salvarsi sull'incrociatore Sebastopoli, che fa rotta verso un porto neutrale.

Se mi piace questo “Potemkin” ritoccato? Non saprei dirvene la pochezza realizzativa e il servilismo dell'ispirazione; ma dal sunto del soggetto si può almeno rendersi conto che più che a un film di Eisenstein assomiglia a un libretto di Salvatore Cammarano.




I primi film nazisti dovettero quindi riparare su più pedestre propaganda.

Uscirono “Hitlerjugend Quex”, in cui vediamo un giovanetto, fanatico della nuova idea, denunciare alla polizia il padre comunista e poi morire per mano dei bolscevichi nelle vie di Berlino.

Uscì anche un film su Horst Wessel, il “protomartire” della causa nazionalsocialista, ucciso - nel film - da comunisti ed ebrei. Per i personaggi cattivi furono cercati ebrei autentici. Uno si rifiutò di collaborare alle riprese e gli furono mozzate le orecchie. Poi la produzione ritenne opportuno modificare il personaggio del protagonista, che nella realtà era stato un imbroglioncello ricercato per reati comuni, e mutò il titolo da “Horst Wessel” in “Hans Westmar”, uno dei tanti (in Italia “Uno dei tanti”).

Altrove la propaganda assumeva toni d'accusa universale, superoministica e profetica.

Ricordo “Fuggiaschi” (1934) di Gustav Ucicky, che si svolge in Manciuria nel 1928 ma sotto le spoglie avventurose è un allegorico quadro contro la Società delle Nazioni, che la Germania aveva lasciato nell'ottobre '33.

Nell'infuriare della rivoluzione cinese, una locomotiva fuori uso sosta in una stazioncina impedendo ai viaggiatori cosmopoliti (inglesi, francesi ecc.) di mettersi in salvo. Mentre essi in preda al panico si perdono in chiacchiere e diatribe, un ingegnere tedesco, esule volontario dalla repubblica di Weimar, ripara i congegni a rischio della vita, da solo riesce a rimettere in movimento il treno e porta l'imbelle gruppetto al sicuro. Sotto i simboli ferroviari, il discorso era trasparente. Tanto più che per il ruolo del Sigfrido era stato scelto il più biondo e imponente degli attori teutonici, il più amato dal pubblico, l'amburghese Hans Albers.

Intanto Goebbels aveva varato anche le nuove leggi sulla censura, provvedimento sempre urgente in regime autoritario. Strettissime e spietate, rimasero in vigore fino alla caduta del Reich, con ulteriori giri di vite nel periodo bellico. Tra ciò che inesorabilmente “non doveva essere veduto” da occhi tedeschi, figuravano almeno due personalità altissime del cinema: Charlie Chaplin e Erich von Stroheim.

A Stroheim non si perdonava d'aver interpretato con potenza il personaggio dell'Unno cattivo prima, del tedesco aristocratico poi (specie nella “Grande illusione” di Renoir); a Chaplin, a parte l'origine israelita, non si perdonavano le pronte prese di posizione politiche contro il nazismo, che sarebbero sfociate presto - più presto anche di quanta l'America lo avesse gradito - nella formidabile satira di “Il dittatore” (1939).

Ma già prima del “Dittatore”, Goebbels aveva mosso guerra a Chaplin cercando di nuocergli con una clamorosa accusa di plagio. Aveva trovato nella sequenza della catena di montaggio di “Tempi moderni” l'imitazione di un brano analogo di “A me la libertà” di René Clair. Il film di Clair era stato prodotto dalla Tobis francese, emanazione della Tobis tedesca di cui ora Goebbels era suprema autorità: pertanto il processo fu promosso da Berlino. Ma fallì e venne frettolosamente sopito quando il maggior testimone al riguardo, lo stesso Clair, anzichè dichiararsi leso dalla rassomiglianza, rese pubblico omaggio alla grandezza del presunto “plagiario” concludendo con la nota dichiarazione:

“A Chaplin tutti noi del cinema abbiamo rubato tanto, che è giusto si riprenda qualcosa”.


Nel 1935 le iniziative naziste in campo cinematografico furono la costituzione della Camera Internazionale del Film per un programma di collaborazione europea, e l'intensificazione dei soggetti epico-storici. La Camera Internazionale riuscì a ottenere l'adesione dell'Austria, Francia, Italia, Polonia, Svezia, Svizzera, Ungheria, con la creazione di organismi produttivi misti, molti dei quali furono statalizzati nel 1942 là dove s'era prodotta nel frattempo occupazione militare. Le pellicole a carattere storico ed eroico tentarono di fare di personaggi della Germania imperiale, o della letteratura nordica del passato, emblemi trionfanti e anticipatori del pensiero nazista. In questa chiave sono rivisti Guglielmo e Federico di Prussia, Schiller, il Tomas Glahn di “Pan” di Hamsun (lo scrittore norvegese poi collaborazionista, assai amato da Goebbels), il “Peer Gynt” di Ibsen, naturalmente impersonato da Hans Albers, e perfino “Giovanna d'Arco” (film di Ucicky, 1936), che dopo tutto combatteva gli inglesi.

Tanto fervore d'opere però non commuoveva eccessivamente gli spettatori, se William L. Shirer ricorda che “...nel '35 i film tedeschi venivano così frequentemente fischiati, che Wilhelm Frick, ministro degli interni, pronunciò un severo monito contro il comportamento del pubblico nei cinematografi”.

E un altro risultato negativo fu una seconda ondata di fughe dai ranghi del cinema tedesco.

Fra il '36 e il '38 se ne andarono più o meno segretamente Kurt Goetz, Frank Wysbar, Lillian Harvey, Adolf Wohlbrück (che prese in Inghilterra il nome di Anton Walbrook), Fritz Van Dongen (che assunse in America il nome di Philip Dorn), Detlef Sierck (che divenne a Hollywood, con qualche successo, Douglas Sirk). Tante diserzioni non avevano mancato di turbare fin dagli inizi Goebbels e i suoi funzionari, al punto che già nel '34 era stato commissionato al montanaro Trenker un film intitolato significativamente “Il figlio perduto” (in Italia “Il figliol prodigo”) con l'implicito scopo di deplorare le defezioni, condannarle come miraggi pericolosi e invitare i transfughi a un ritorno che sarebbe stato considerato con magnanimità. Il film poneva anche l'accento sulla comprensione del nazismo verso le minoranze di frontiera ed era particolarmente duro con gli Stati Uniti e la loro politica verso gli immigrati.

Ma, sul piano della propaganda, funzionò poco. I “figlioli prodighi” rimasero dov'erano. A loro si sarebbero aggiunti, all'epoca dello “Anschluss” con l'Austria, Walter Reisch e Otto Preminger.

Quest'ultimo ha ricordato i giorni violenti dell'annessione nel film “Il cardinale” (1963), nell'episodio del vicario Innitzer aggredito dalla Hitlerjugend entro la sede dell'arcivescovado di Vienna.

Due soli ritorni si registrano. Pabst, nel 1939, e l'attore Rudolf Forster, quasi nello stesso periodo. Tristi capitolazioni per il regista di “Westfront” e per l'uomo che era stato il Mackie Messer di Brecht in “Dreigroschenoper”.

Dei quadri del cinema di regime, invece, gli ossequienti e i convinti della prima ora erano stati Werner Krauss, Otto Gebrühr, specialista nella parte di Federico il Grande, il massiccio Heinrich George che finì i suoi giorni in campo di concentramento, l'Emil Jannings già interprete di “Faust”, “Varieté” e “L'angelo azzurro”, che il nazismo ricoprì di premi e di brutti film; e i registi Karl Ritter, Veit Harlan, Wolfgang Liebeneiner, Carl Froelich. Più, naturalmente, quella bizzarra e non priva di talento mandragora del nazismo, ex ballerina, sciatrice, teorica del cinema, che rispondeva al nome di Leni Riefenstahl.

Fu lei a girare i documentari “Vittoria della fede” (1933), sul primo congresso del partito dopo la salita al potere, “Il giorno della libertà” (1935), sulla festa della Wehrmacht, “Il trionfo della volontà” (1936), sull'adunata nazista di Norimberga del 1934.

Dopo quest'ultimo, Hitler in persona la incaricò di realizzare il film sulle imminenti Olimpiadi sportive di Berlino. La Riefenstahl intese il senso dell'ordine diretto.


Il vastissimo spettacolo che ne nacque resta forse il massimo documento propagandistico del Terzo Reich su tutti i piani, dal messaggio pagano (il prologo del film) alla dimostrazione di una efficientissima organizzazione armata. La regista girò quattrocentomila metri di pellicola per utilizzarne seimila, che poi vennero suddivisi in due film separati: “Olympia” e “Festa dei popoli” (in Italia “Olimpia” e “Apoteosi di Olimpia”) e presentati in pubblico appena nel 1938, cioè a due anni di distanza dalle Olimpiadi. Ma questo ritardo alla Riefenstahl e a Hitler poco importava. Il significato ultimo del film era tale, che acquistava maggior valore riferito ai vicini avvenimenti politici e strategici (sbocco in Austria, patto d'acciaio, occupazione dei Sudeti, polemica per Danzica) piuttosto che agli ormai sbiaditi lauri sportivi del '36.

L'ultimo anno prima della guerra è contrassegnato da molte biografie-filmate, rivendicatrici del genio tedesco, e da soggetti politicizzati che ostentano già la grinta del film bellico.

Tra le prime è la vita del dottor Koch, con Jannings; tra i secondi, “Il governatore” di Viktor Touriansky,che si scaglia contro i vizi del regime parlamentare, “La squadriglia degli eroi” di Karl Ritter, sulla rinascita dell'arma aerea tedesca sotto la direzione di Hermann Góring. Ritter però aveva realizzato in precedenza un film più notevole: “Sei ore di permesso” (1937), episodi su un reparto in sosta fra due treni, durante gli ultimi mesi della prima guerra mondiale.

E siamo al '39. In marzo le truppe naziste entrano in Cecoslovacchia, in settembre in Polonia. I cinegiornali dell'UFA (Universum-Film AG - casa di produzione cinematografica tedesca) fanno conoscere in tutto il mondo la picchiata e il sibilo degli Stukas. Gli impianti cinematografici di Barrandov, risalenti al 1933 e considerati i migliori d'Europa, vengono immediatamente arianizzati e sottratti agli assurdi pigmei, nome col quale Göring amava designare il popolo cèco.

Fin dal 1940 gran parte della produzione filmistica tedesca è trapiantata a Barrandov, perchè gli studi berlinesi di Neubabelsberg, vicini ad un aeroporto, vengono danneggiati dai bombardamenti inglesi, e così i laboratori di Vienna e Monaco. Ben presto e per le stesse ragioni le case cinematografiche principali della Germania, la Terra Film, la Berlin Film ecc., si attestano su succursali frettolosamente allestite in zone più sicure: Budapest, L'Aia, anche Roma. E' il tempo in cui Goebbels accarezza un altro progetto grottesco: fare di Rodi l'isola del cinema, una specie di Hollywood nazista.

Che Rodi sia allora territorio italiano non lo turba affatto. Come molta parte dei gerarchi tedeschi, nutre per l'alleato dell'Asse una cordiale disistima che dalle cose militari si estende alle cose del cinema. Conta di depredare Cinecittà come ha depredato Barrandov, e come deprederà musei e cattedrali in mezza Europa.

“L'UFA”... scrive nel suo Diario intimo...”ha elaborato un piano per cui potremo gradualmente mettere le mani sull'intera esportazione cinematografica italiana sul continente. Spero che gli italiani cadano nella trappola”.

Mobilitato integralmente, il cinema nazista del tempo di guerra (oltre alla produzione evasiva e leggera, specialmente curata dalla Wien Film di Willy Forst) si concentra su tre o quattro obiettivi principali: la propaganda antinglese, il discorso delle rivendicazioni di frontiera, l'odio verso il comunismo e l'Unione Sovietica, la riconferma dell'ideologia nazista come fatto sociale e morale, e - più importante d'ogni altro tema - la necessità dello sterminio degli ebrei.

I campi e i forni crematori sono già in azione, la “notte dei cristalli”, nel novembre 1938, ha dato il via ai saccheggi, agli arresti in massa e alla distruzione delle sinagoghe: ma solo dopo lo scoppio della guerra questa campagna si fa apertissima e viene appoggiata ufficialmente dal cinema.

Nel 1940, “I Rothschild” di Erich Waschneck ha il pregio d'essere contemporaneamente antisemita e antibritannico.

Süss l'ebreo

Subito dopo esce “Süss l'ebreo” di Veit Harlan, tratto dal romanzo omonimo che però esponeva concetti alquanto diversi, tanto che il suo autore, Lion Feuchtwanger, era stato perseguitato dai nazisti.

Negli studi berlinesi la lotta antiebraica registra un episodio tragico: la moglie di un attore molto noto, Joachim Gottschalk, viene condannata alla deportazione perchè semita. Gottschalk si uccide con lei e il figlio. Il fatto è così commentato nel bollettino delle Kulturpolitische Informationen:

“Da oggi in poi l'attore Joachim Gottschalk non deve essere più ricordato per nessuna ragione, nè verbalmente nè per iscritto”.

E' la sola lapide per il triplice suicidio, al quale però nel 1947 Kurt Maetzig, nella Germania orientale, dedicherà il film “Matrimonio nell'ombra” con Paul Klinger nella parte di Gottschalk e Ilse Steppat nella parte di Meta Wolff.


Un grandissimo successo in chiave antinglese fu, nel '41, “Ohm Kruger eroe dei boeri” di Hans Steinhoff, con Emil Jannings. Si ignorò tuttavia il fatto che uno dei coraggiosi luogotenenti di Kruger, Jan Christian Smuts, fosse in quello stesso momento uno dei più irriducibili avversari del nazismo, come maresciallo da campo dell'esercito britannico. Nel '42 si pensò di realizzare come film di propaganda, manifesto dell'avidità degli armatori inglesi, il dramma dell'affondamento del “Titanic”.

Gli esterni si dovevano girare a Gotenhafen (oggi Gdynia). A regista fu prescelto un curioso tipo di cineasta, né ottimo né pessimo, che fino allora s'era dilettato a far la fronda con pellicole avventurose d'imitazione americana: Herbert Selpin, autore di “Il sergente Berry” (1938), poliziesco ambientato al Messico, e “Canitoga” (1939), sui cercatori d'oro.

A Gotenhafen, già piazzaforte militare, Selpin si trovò subito a litigare con la burocrazia dell'ammiragliato, e un giorno, perdute le staffe, si mise a sbraitare in un pubblico locale contro “questo esercito di merda”. Fu immediatamente rimandato a Berlino e Goebbels gli chiese ragione dell'insulto. Selpin non ritirò la frase. Venne tradotto in carcere e la notte del 1° agosto 1942 un commando della Gestapo irruppe nella sua cella e lo strangolò. Poi il cadavere fu appiccato con le sue bretelle alle sbarre dell'inferriata perché si potesse archiviare il fatto come suicidio, il che puntualmente accadde. Negli studi cinematografici fu affisso un cartello che diceva:

“E' severamente proibito parlare del caso Selpin”, e il film Titanic venne completato dal regista Werner Klinger.


Karl Ritter diresse GPU (1942), contro l'Unione Sovietica. Vari film sulle minoranze tornarono di moda via via che le armate naziste penetravano ad Est: “Uomini nella tempesta” (1941) ambientato in Jugoslavia, “Il vincitore” (1941), “Nemici” (1941) e “Ritorno in patria” (1942) in Polonia.

Specialmente per questo ultimo il regista Gustav Ucicky prodigò tutti i suoi sforzi al fine di dimostrare che il popolo della Volinnia non chiedeva di meglio che d'essere ricuperato al Reich; ma fu sabotato ripetutamente durante le riprese, e il collaborazionista Igo Sym, direttore dei teatri di Varsavia per nomina di Goebbels, affiancatore di Ucicky per quella pellicola, cadde poco dopo sotto i colpi della Resistenza polacca.

Un altro film inquietante apparve nel '41 ad opera di Wolfgang Liebeneiner: s'intitolava “Io accuso” e sosteneva, su un esempio preciso, la validità dell'eutanasia, fondamento della politica di genocidio. La cosa più agghiacciante è che non si trattava di una ipotesi o di un sondaggio psicologico.

Ricorda Leon Poliakov che quando il film uscì “le soppressioni per eutanasia erano già segretamente in atto in Germania”, aggiungendo alcune notissime considerazioni sulla profonda logica interna tra eutanasia e sterminio.

Non è meno significativo che “Io accuso” venisse designato nel cosiddetto pradikat (il giudizio ufficiale dell'ufficio cinema tedesco) come “formativo per il popolo e di speciale valore artistico”. Ma c'è un ultimo dettaglio repellente che riguarda l'Italia, uno di quei punti oscuri che nessuno generalmente ricorda. “Io accuso” di Wolfgang Liebeneiner risultò tra i premiati alla mostra cinematografica di Venezia.

La mostra veneziana ritorna indirettamente in causa subito dopo, allorché Goebbels riorganizzò la Camera Internazionale del Cinema, ormai forte di diciassette nazioni per lo più alleate o satelliti o occupate militarmente.

“Nostro scopo”... disse Goebbels in quell'occasione... “sarà di dare vita a una cinematografia europea che affermi la tradizione di cultura e civiltà dell'Europa che finalmente ritrova se stessa in un ordine nuovo”.

Ma in pratica nasceva soltanto l'impero cinematografico della UFA, sotto rigido controllo degli organi nazisti e con presupposti quasi colonialistici. A presidente nominale del neocostituito organismo fu eletto appunto il conte Volpi di Misurata, ideatore del festival veneziano. La rigorosa concentrazione economica, oltre che artistica, delle forze del cinema trovò ulteriore conferma nel 1942 “Il trionfo della volontà”, documentario di Leni Riefenstahl con la statalizzazione di tutte le società di produzione, distribuzione, noleggio, esportazione, esercizio, pubblicistica ed editoria cinematografica.


Il 1943 vide i festeggiamenti per il venticinquennale della Casa UFA, in una Berlino già semidistrutta dalle fortezze volanti e in un'atmosfera che non doveva essere dissimile dal festino nuziale che conclude “La caduta degli dei” viscontiana.

Liebeneiner, il regista di “Io accuso”, e Harlan, il regista di “Süss l'ebreo”, furono laureati “professori”.

Venne proiettato in anteprima “Il barone di Münchausen”. Ma il cavaliere che sapeva volare su una palla di cannone, in quel momento non riusciva a confortare nessuno.

Intanto Harlan aveva già cominciato a girare “Kolberg”, sulla disperata resistenza della cittadella che aveva tenuto testa a Napoleone. Doveva essere l'ultimo appello, l'arma segreta del cinema nazista per reinfondere coraggio al popolo.

Mancò allo scopo. Le poche proiezioni del film ebbero luogo all'estrema vigilia della disfatta, tra le macerie di Dresda, gli incendi di Danzica, l'avanzata dei carri sovietici. Già, nei Lager riaperti, i soldati americani del Film Service riprendevano con i loro obiettivi le orrende visioni dei morti e dei superstiti, che sarebbero state proiettate nelle aule del processo di Norimberga.

Hitler era morto nel bunker.

Goebbels si uccise venti ore più tardi, dopo aver praticato un'iniezione letale a ciascuno dei suoi sei figli.

L'attore Emil Jannings, membro del Senato della Cultura Tedesca, medaglia di Goethe, anello d'oro del Film Germanico, fu interdetto a vita dall'attività cinematografica.

Veit Harlan, processato ad Amburgo per “crimini contro l'umanità”, venne assolto con formula dubitativa.

La scampò anche Ferdinand Marian, uno strano e pittoresco attore, una specie di Osvaldo Valenti teutonico. Era stato protagonista di “Süss l'ebreo”, e Cecil Rhodes in “Ohm Krüger”.

Si mormorava di sue orge efferate nel crepuscolo nazista, con droghe e siringhe.

Il sette agosto 1946 percorreva il settore americano di Berlino in una auto lanciata a pazza velocità. Non si fermò al fischietto della Military Police. Un momento dopo era morto, falciato da una raffica di mitra.

I FILM DEL NAZISMO

Schiave bianche
Hitlerjunge Quex
Hans Westmar, uno dei tanti
Fuggiaschi
Giovanna d'Arco
Il figlio perduto
Vittoria della fede
Il giorno della libertà
Il trionfo della volontà
Olympia
Festa dei popoli
Il governatore
La squadriglia degli eroi
Sei ore di permesso
I Röthschild
Süss l'ebreo
Ohm Kruger, eroe dei boeri
Titanic
GPU
Uomini nella tempesta
Il vincitore
Nemici
Ritorno in patria
Io accuso
Il barone di Münchausen
Kolberg

Il violinista di talento che architettò la Shoah


“Taceremmo la verità se non dicessimo che si esce provati dal confronto, durato parecchi anni di ricerca, con un personaggio verso il quale non è possibile provare alcuna empatia. Heydrich non lascia tregua al suo biografo: forse ci sono stati momenti di innocenza nella sua infanzia, nella sua giovinezza e negli anni di formazione, ma egli fece cancellare quasi tutte le tracce di questo periodo quando diventò capo della Polizia di sicurezza. In seguito, quando si fu posto l’obiettivo di raggiungere, al fianco di Himmler, la cerchia più ristretta del Führer, Heydrich si rivelò pronto a schiacciare non soltanto singoli individui ma popoli interi, pur di soddisfare la propria ambizione”. Lo storico Édouard Husson non nasconde la fatica anche emotiva che ha dovuto sostenere nell’affrontare analiticamente la vita dell’uomo che considera l’architetto della Shoah. Una fatica che però, dal punto di vista della ricerca storiografica, ha prodotto importanti novità interpretative.

Heydrich e la soluzione finale. La decisione del genocidio (Torino, Einaudi, 2010, pagine x+405, euro 32) non è, infatti, una biografia in senso tradizionale, ma un vero e proprio lavoro di analisi capace di fare sintesi delle teorie finora accreditate sullo sterminio degli ebrei in Europa e soprattutto di proporre una posizione originale che rende sorpassata la vecchia opposizione tra “intenzionalismo” e “funzionalismo”. Husson mostra, sottolinea Ian Kershaw nella prefazione, “come le parole d’ordine ideologiche della direzione del regime, formulate, abitualmente, in maniera indiretta da Hitler, servissero a mettere in movimento e a legittimare le iniziative ai diversi livelli del regime, a cominciare da quelle dello stesso Heydrich”.

L’interpretazione di Husson, docente di storia contemporanea alla Sorbona, si concentra proprio sul ruolo del capo dell’Rsha, Ufficio centrale per la sicurezza del Reich, nella marcia verso la “soluzione finale della questione ebraica”. E ne sottolinea il ruolo essenziale nell’accelerazione impressa all’attuazione del genocidio, sottolineando una dedizione alla causa ben oltre il richiesto. Un comportamento, quello di Heydrich ma anche degli altri capi del regime, che lo studioso spiega con la nozione di “lavoro nel senso della volontà del Führer” – riconoscendo in questo la parte giocata dallo stesso Hitler, “senza il quale nulla sarebbe accaduto” – che poggiava fortemente sulle caratteristiche feudali delle strutture del Reich: i rapporti tra il dittatore e i “vassalli” a lui legati da un sentimento morboso di lealtà personale.

In un lavoro di sintesi accurato e ampio, attraverso l’approfondimento di fonti già note e soprattutto lo studio di documenti inediti, Husson apporta elementi innovativi alla letteratura storica sull’argomento. Il primo è quello di stabilire un collegamento tutt’altro che irrilevante tra il verbale della conferenza di Wannsee del 20 gennaio 1942, in cui venne pianificata formalmente la “soluzione finale”, e numerose versioni anteriori del lavoro organizzativo in questa direzione svolto da Heydrich. Come rileva Kershaw, “Husson propone un’analisi magistrale di diversi documenti di massimo rilievo: non soltanto il testo di Wannsee ma anche le Direttive per il trattamento della questione ebraica (si rivela assai persuasivo nel dimostrare come alcuni brani del testo siano anteriori all’agosto 1941, data abitualmente fornita dagli storici)”.

Tra questi documenti lo studioso vaglia puntigliosamente la lettera indirizzata da Heydrich al ministro degli Esteri Ribbentrop il 24 giugno 1940 in cui, a fronte dell’inefficacia della politica migratoria, sostiene che “una soluzione finale territoriale diventa quindi necessaria”. E lo prega di volerlo “associare alle discussioni future che verranno sulla soluzione finale della questione ebraica”. Allo stesso modo lo storico analizza a fondo il memorandum del 21 gennaio 1941 a firma di Dannecker, il membro dell’Rsha inviato dal famigerato Eichmann a Parigi per preparare il “piano Madagascar”, in cui si fa riferimento a un progetto di “soluzione della questione ebraica in Europa” redatto da Heydrich e da attuare, secondo la volontà del Führer, in via definitiva dopo la guerra. E infine ricollega il tutto al documento del 31 luglio 1941 con il quale Göring affida a Heydrich l’attuazione di tale soluzione.

Il fine di Husson è dimostrare che Heydrich covava un pensiero intrinsecamente genocida fino dall’estate 1940. E la parte centrale del verbale della conferenza di Wannsee, anello fondamentale della catena, appare come un camuffamento che rimanda alla forma data da Heydrich ai suoi piani dell’anno precedente. Infatti nel gennaio 1941 esisteva un progetto di deportazione che corrispondeva a una fase antecedente alla politica antiebraica, meno radicale rispetto a quella realmente praticata nel gennaio del 1942, quest’ultima frutto di un cambiamento sostanziale della situazione bellica, la cui fine non era più così immediata.

Il secondo elemento innovativo è legato alla data, i primi di novembre 1941, indicata per l’ordine (o l’autorizzazione o l’indicazione che dir si voglia, data, senza ambiguità, da Hitler) di passare allo sterminio immediato degli ebrei di tutta l’Europa, e non più soltanto di quelli nei territori sovietici. “Tenuto conto delle lacune delle fonti, tale data – si legge nella prefazione – resta nell’ordine delle ipotesi. Ma molti elementi depongono in suo favore, in particolare, da un canto, la mole di indizi raccolti, che suggeriscono una decisa accelerazione del processo di massacro in questo preciso momento e, d’altro canto, il rapporto con la data del 9 novembre (1918), che Hitler da vent’anni ribadiva come quella dell’inizio della rivoluzione tedesca attuata, secondo lui, dai “criminali di novembre” (inequivocabilmente assimilabili ai suoi occhi agli ebrei)”. Inoltre c’era la possibilità di un allargamento della guerra. “Il conflitto mondiale incombe su di noi: l’annientamento degli ebrei è la conseguenza necessaria”, afferma il Führer a dicembre.

Forte dell’esperienza maturata nell’organizzare l’emigrazione forzata degli ebrei del Grande Reich, nelle deportazioni caotiche nella Polonia smembrata, nel contributo alle tecniche di sterminio dei “malati”, nella successiva formulazione del “piano Madagascar”, nel progetto di deportazione generalizzato degli ebrei verso la Siberia e nell’allestimento della conferenza di Wannsee, Heydrich impegnandosi nella “soluzione finale” dette un’ulteriore, formidabile prova della mescolanza di fanatismo ideologico e di predisposizione per l’organizzazione che lo caratterizzavano. Un talento che avevano purtroppo avuto modo di sperimentare anche i cattolici tedeschi soprattutto dopo le forti prese di posizione del vescovo di Münster, Von Galen, contro il regime nelle famose tre prediche dell’agosto 1941. Infatti, scrive Husson, “all’inizio della guerra Heydrich propose di arrestare tutta una serie di personalità cattoliche e di inviarle nei campi di concentramento. Era convinto che con la guerra si sarebbero intensificate le attività sovversive dei cattolici. Dopo le prediche di monsignor Von Galen, lo stesso dittatore aveva dovuto dissuadere Heydrich dall’idea di far arrestare il prelato”. Allo stesso modo in Polonia le élite cattoliche furono da subito bersaglio dei commando criminali del capo della Polizia di sicurezza al pari di ebrei, malati di mente e disabili.

Ma chi era quest’uomo e da dove veniva? Reinhard Heydrich era nato nel 1904 nel cuore storico della Germania, e precisamente ad Halle, città natale di Händel. Egli stesso crebbe in una famiglia di musicisti. Il padre Bruno dirigeva un conservatorio. Secondo Husson, “Reinhard è l’illustrazione più celebre di come, purtroppo, la cultura classica e in particolare la musica tedesca non abbiano impedito l’affermarsi, in uno dei Paesi più progrediti d’Europa, di quell’antiumanismo assoluto che è stato il nazismo. L’architetto del genocidio degli ebrei fu un violinista di talento”. Un talento per il quale nessuno lo ricorda.

Entrato in Marina a diciotto anni, a ventisette venne espulso per aver risposto con insolenza a una commissione disciplinare. Per sopravvivere e mantenere la famiglia (suo padre era ormai malato), ma anche per compensare le proprie frustrazioni, trovò un esercito che ai suoi occhi rappresentava l’élite della futura Germania: le Schutzstaffel. Fu presentato al loro capo, Heinrich Himmler, di soli quattro anni più anziano, che ne intuì subito le capacità. Tanto da affidargli l’organizzazione di un servizio segreto per contrastare i nemici interni. Fu l’inizio di una carriera fulminante che lo portò ad assumere l’incarico della sicurezza del Reich.

È difficile azzardare quale fosse il grado di antisemitismo del giovane Heydrich. Sicuramente frequentava ambienti per i quali gli ebrei erano il denominatore comune di tutti i nemici, esterni e interni, che avevano umiliato la Germania nel 1918. Si batté contro la falsa notizia, diffusasi durante la prima guerra mondiale, secondo cui il padre avrebbe avuto un’ascendenza ebraica. “Considerò – spiega lo storico – questa diceria, che era infondata ma che lo accompagnò ovunque, sintomo di quanto fosse radicato l’antisemitismo nella Germania del “dopo 1918″, come una macchia da cancellare. Pur tuttavia, ciò non sarebbe sufficiente a spiegare il suo successivo zelo nel perseguitare e poi nel liquidare gli ebrei d’Europa”.

Il male era molto più profondo: quella voce persistente rivelava, in realtà, il cancro ideologico che corrodeva un individuo e una società intera. Hitler ripeteva che gli ebrei dovevano andarsene dalla Germania. E Heydrich aveva intuito che prendere parte attivamente alla persecuzione lo avrebbe portato al centro del potere nazista. Così, appena trentaseienne, per compiacere il dittatore, pianificò la morte di undici milioni di ebrei europei.

Destinato a essere l’architetto anche del genocidio delle popolazioni slave e zingare se la Germania avesse vinto la guerra, Heydrich fu ucciso a Praga da due uomini della resistenza cecoslovacca, alla fine della primavera del 1942. Ma l’organizzazione criminale che aveva messo in piedi era sufficientemente solida perché i suoi uomini, a partire da Eichmann, ne proseguissero l’opera di morte.

“Il 26 maggio 1942, vigilia dell’attacco che gli sarebbe costato la vita, Heydrich aveva fatto eseguire, in occasione di una serata di gala a Praga, alcune opere musicali del padre. Quasi avesse provato la sensazione di essere infine arrivato, di avere ottenuto una rivincita sugli anni di frustrazione e di declino della famiglia Heydrich, come si fosse trattato di riabilitare suo padre, vittima della guerra persa e delle crisi economiche. Occorreva accatastare una montagna di cadaveri per placare un risentimento sociale e colmare il vuoto lasciato dalle illusioni perdute nel 1918? Niente – conclude Husson – esprime meglio il crollo morale e psicologico di una società e di un uomo, avvenuto in meno di una generazione, del confronto terribile tra un’ascesa politica e sociale perseguita con simile accanimento, da un canto, e, dall’altro, i sei milioni di vittime di cui è disseminata la scalata verso la vetta di Heydrich e del nazismo; scalata che, fortunatamente, non ebbero il tempo di portare a termine”.

La figlia di Hitler


RUDOLSTADT (Turingia)
«Con mia madre feci pace solo due anni prima della sua morte, ma non riuscii mai a chiamarla mamma. L´uomo che mi generò non lo conobbi mai, morì da nazista convinto sul fronte russo. Non l´ho mai sentito come un padre, ho vissuto col timore di vergognarmi di suoi possibili crimini di guerra. Eccomi, io fui uno dei tanti bambini nati con l´organizzazione Lebensborn, gli ariani perfetti voluti da Hitler. Riuscii a darmi da sola la vita normale che il nazismo mi negò organizzando la mia nascita, solo da adulta seppi com´ero nata. Oggi sono una nonna felice, anche se l´uomo che mi ridette una vita, mio marito, è appena morto, stroncato dal cancro».

Il paesaggio innevato splende dalla terrazza della casetta di Rudolstadt, tra valli e colline boscose e quasi toscane della Turingia, dove ascolto Barbara Orlop narrare i suoi ricordi. Lebensborn, fonte della vita, si chiamava quella creazione della demoniaca perfezione nazista.

nei centri Lebensborn le donne nubili provatamente ariane e fedeli alla tirannide potevano incontrarsi con giovani, aitanti uomini altrettanto ariani e fedeli. Il più delle volte, soldati o ufficiali delle Ss. Dovevano incontrarsi per procreare, oppure se avevano già fatto sesso prima con un uomo ariano e nazista doc la madre partoriva là. Poi il bimbo diveniva proprietà del Partito-Stato. Veniva affidato a famiglie di piena fiducia delle Ss, della Gestapo, della Nsdap (il partito nazista). L´Rsha, l´ufficio centrale per la sicurezza del Reich, vegliava su tutto. Niente famiglia naturale, ma bimbi ariani da spargere per il Paese, per procreare la razza superiore. Non dovevano essere persone felici, solo perfetti e fedelissimi ariani.

«Classe 1918, mia madre Else aveva subito un trauma tremendo. Sua mamma si tolse la vita nel 1933, fu lei a trovare il cadavere. Dall´inizio mia madre fu una nazista convinta, si iscrisse alla Nsdap, divenne capo del Bund deutscher Maedchen, l´Unione delle fanciulle tedesche, a Erfurt». Mentre parliamo Frau Barbara offre un buon caffè caldo con ottimi dolci, tradizione dell´ospitalità e del quotidiano familiare dei tedeschi. Apre una cartella conservata con cura, mostra documenti e foto della sua vita. «Ecco, guardi, questa era mia madre da giovane… e questo palazzotto nel verde è l´istituzione nazista dove sono nata io». Edificio Lebensborn a Wernigerode, Hartmannsweg numero uno. Là, come dice il freddo certificato di nascita nazista stilato da un´anagrafe speciale e segreta, con tanto di timbro con l´aquila che sormonta la svastica, Barbara vide la luce. Come bimba dichiarata benvenuta nel Reich dal regime, ma non voluta dalla mamma. «Lei e l´uomo che mi generò si conobbero negli ambienti delle organizzazioni naziste. Lui era un militare, già sposato». Andarono a letto insieme, erano entrambi ariani. Lei scelse di partorire con l´organizzazione Lebensborn. «Non aveva detto a nessuno in famiglia, neanche ai suoi fratelli, di essere iscritta al partito, e solo molto dopo loro seppero che aveva avuto un bambino».

Era il novembre 1940, Hitler aveva già scatenato la Seconda guerra mondiale quando Barbara venne al mondo, battezzata come tutti i bimbi Lebensborn con un tetro cerimoniale nazista: ufficiali Ss officianti all´altare, il pugnale Ss sul petto del neonato. Varsavia, Danzica, Rotterdam e Coventry erano state rase al suolo dalla Luftwaffe, quasi tutta l´Europa era occupata dalla Wehrmacht e – tra un´America ancora neutrale e l´Urss che si era spartita la Polonia con i nazisti – nel mondo in cui Barbara nacque, solo caccia Hurricane e Spitfire della Royal Air Force resistevano, nel cielo sopra Londra, alla Germania che sembrava invincibile. I tedeschi non avevano ancora assaggiato la guerra in casa, il consenso alla tirannide restava altissimo. Else accettò subito la proposta del Lebensborn: dare Barbara in adozione a una famiglia di fiducia del regime. Non ci pensò un momento, le sue certezze poggiavano tutte sulla fede nel Fuehrer, non sull´affetto verso la piccola. «Fin dall´estate del ´41, passai come una palla da una famiglia affidataria a un´altra. Alla fine approdai a Tautenburg dalla famiglia F., e lì crebbi», racconta Barbara mostrando le foto di lei piccola in braccio alla madre adottiva. «Mamma e papà adottivi furono buoni con me. Finché il regime restò al potere furono ricompensati con soldi e aiuti in natura, il letto per me, la carrozzina, i vestiti, ogni rifornimento. Qualche soldo glielo mandava anche mia madre, ma si faceva vedere poco o mai, non voleva che la riconoscessi».

Nel 1945, la svolta. Per il mondo, e per la vita della piccola Barbara. «Nella Germania distrutta dalla guerra di Hitler regnavano freddo, fame e miseria. Ai miei genitori adottivi andava malissimo, mio padre guadagnava a stento qualcosa come operaio forestale. Mia madre, quella vera? Non so come visse la fine della dittatura in cui aveva gettato anima e corpo, ma so che di tanto in tanto continuava a mandare dei soldi. Continuavano anche le sue visite, là da loro, dove crescevo, e io cominciai a sospettare che la mia vera madre fosse lei. Ma a ogni mia curiosità o bisogno d´affetto lei reagiva con freddezza infastidita. Sapeva solo criticare, davanti a me bambina, il modo in cui mi educavano e mi crescevano. I miei genitori adottivi furono sempre molto cari con me, ma per le loro figlie naturali io ero “il verme”, il “parassita”. Quella che rubava dai loro piatti il poco che c´era da mangiare. Furono dure, aggressive con me».

Ogni giorno, crescendo, Barbara si sentiva più sola, diversa dagli altri, coetanei e adulti. «Il Natale, anche per i bambini di quella Germania che Hitler aveva lasciato distrutta, all´anno zero, era la festa più attesa e gioiosa. Ma i miei genitori adottivi avevano troppo poco, e non ce la facevano a scontentare le loro figlie naturali. Quando veniva il momento della distribuzione dei doni sotto l´albero, a me dicevano “il tuo Natale arriverà quando verrà tua madre”. Ma mia madre ormai non si faceva più vedere, nemmeno per portare qualche soldino in più per farmi un regalo. Passai molte notti sveglia, piangendo nel mio lettino, sognandola e aspettandola invano».

Venne il dopoguerra della Germania divisa. Barbara si trovò a crescere nella Ddr. «Mi sentivo sola al mondo, capivo che la mia madre vera non mi aveva mai voluto, ma non sapevo ancora perché e come ero nata. La disperazione mi spinse a farmi avanti. Dalla piccola Tautenburg, il villaggio dove vivevo con la famiglia adottiva, andai da sola alla scuola di Dorndorf, la più vicina. Chiesi al preside di accettarmi. Di mia iniziativa. Erano anni poveri, andavo a scuola facendo sette chilometri a piedi, quando andava bene il lattaio o il becchino del paese mi davano un passaggio col furgone del latte o con il carro funebre. Conseguii la Abitur, la licenza liceale, cominciai gli studi superiori in un collegio di Stato. Nel weekend ero l´unica a restare al collegio, non avevo una famiglia dove andare. I miei genitori adottivi mi avevano già congedato, era venuto “il momento di salutarsi”, mi avevano detto. Conobbi lì mio marito, ci sposammo presto. Solo allora mia madre si fece viva, per dirmi di “non sposarlo, è solo un operaio”. Ma noi studiammo, diventammo insegnanti. Lui mi riportò alla vita, mi ha regalato un´esistenza felice di moglie, di madre e nonna».

L´età adulta fu per Barbara la rivincita col passato, per costruirsi una vita normale. I figli, poi i nipoti. «Il passato riemerse nel 1968, durante una gita organizzata dal sindacato. A Wernigerode. Sapevo che ero nata là ma nulla di più. Chiesi informazioni, e per la prima volta appresi – vede questo certificato con la svastica? – che ero nata non per far felice una coppia, una famiglia, ma per i disegni razzisti del Reich». I contatti con la madre si fecero più radi. «Dal 1970, lei volle rompere ogni rapporto con me. Non mi ha voluta vedere per trentasette anni, fino a due anni prima della sua morte». Altre svolte: la crisi del blocco sovietico, la caduta del Muro, la riunificazione. «Nel 2007, ormai anziana e malata, accettò di vedere me, i miei figli, i miei nipoti. A volte piangeva, mi disse “non hai mai avuto nulla da me”. “È acqua passata”, le rispondevo. Non la chiamai mai mamma, ma accettai le sue lacrime, le fui vicina sul letto di morte. Eppure non volle mai rivelarmi nulla, mai, fino al suo ultimo respiro. Poi riuscii da sola a scoprire chi era l´uomo che mi aveva generato. Trovai il suo certificato di morte: caduto in battaglia a Nikola´evka, sul fronte russo, il 27 luglio 1943, nei ranghi del 542mo reggimento granatieri della Wehrmacht, col grado di sottufficiale».

«Coraggio, mamma, quel che non t´uccide ti rafforza», le dice il figlio. Barbara è scossa dai ricordi. Poi si riprende, racconta ancora. «Ogni anno ci incontriamo, a Wernigerode, noi figli del Lebensborn. Io e altre due donne, una belga e una norvegese, abbiamo storie simili, ci chiamiamo “sorelle”. Siamo tre donne forti, andiamo avanti. Ma la maggioranza degli ex bimbi Lebensborn che si rivedono o si conoscono a quei raduni sono persone distrutte. Distrutte da quando seppero come e perché sono venute al mondo».

Generazione perduta

Gli stati totalitari tendono per natura a cercare di distruggere la realtà per poi ricostruirla secondo la propria ideologia e visione del mondo. Perciò, oltre a espandere i confini del Terzo Reich e a tentare di sopprimere o decimare le popolazioni considerate inferiori, i nazisti hanno varato una serie di progetti finalizzati all´incremento e al miglioramento della razza ariana. Uno di questi progetti, denominato Lebensborn (Sorgente di vita) fu ideato dal capo delle Ss Heinrich Himmler, l´infame “architetto del genocidio”. Il piano, varato (secondo lo storico Richard Breitman) il 12 dicembre 1935, avrebbe dovuto ovviare al basso livello di natalità in Germania, promuovendo al tempo stesso i principi eugenetici che tanta parte hanno avuto nella Weltanschauung nazista. Il piano, lanciato inizialmente in Germania, ebbe in un primo tempo una funzione di welfare, con la creazione di centri di maternità e l´assistenza economica erogata alle vedove delle Ss e alle madri nubili, purché di «puro lignaggio ariano».

i l primo di questi centri, Heim Hochland, fu creato nel 1936 a Steinhoering, nei pressi di Monaco, per ospitare le future madri «di puro sangue ariano» che qui davano alla luce i loro figli. Prima dell´inizio della Seconda guerra mondiale erano tredici i centri di questo tipo, dieci dei quali in Germania e tre in Austria; ma dopo il 1939 il piano Lebensborn fu esteso ai paesi occupati dai nazisti. Più numerose le strutture e gli uffici creati in Norvegia, nazione considerata come un serbatoio di eccezionale valore eugenetico; altri centri sorsero in Danimarca, Polonia, Belgio, Francia, Olanda e Lussemburgo, dove l´organizzazione incominciò a coordinare l´adozione di bambini «di elevato valore razziale» dell´Europa del nord e dell´est (per lo più orfani), da parte di famiglie tedesche. Per questi piccoli si costruirono anche vari orfanotrofi, dove tra l´altro si ospitavano bambini polacchi in tenerissima età (tra i due e i sei anni) rapiti dai nazisti per essere «germanizzati». Tuttavia, almeno apparentemente, l´organizzazione non era coinvolta in questi rapimenti. A chiedere aiuto a Lebensborn nei paesi occupati dalla Germania erano il più delle volte donne rimaste incinte in seguito a rapporti con soldati tedeschi che, dato l´ostracismo dei rispettivi ambienti, non avevano altra scelta per ottenere assistenza materiale e sociale.

In Germania furono circa ottomila i bambini venuti alla luce nei centri Lebensborn, e quasi altrettanti quelli nati nei centri norvegesi, mentre nei paesi occupati dai nazisti il loro numero è molto inferiore. Benché dopo la guerra l´organizzazione Lebensborn sia stata accusata del rapimento di bambini con «buoni requisiti razziali» da inserire in famiglie tedesche, i casi accertati di questo tipo sono relativamente pochi. Su circa diecimila bambini nati fuori dal territorio tedesco occupato dagli americani, quelli passati per le mani di Lebensborn non sono più di trecentoquaranta. Benché sia accertato al di là di ogni possibile dubbio che i nazisti abbiano commesso su larga scala questo tipo di crimini, non è stato possibile stabilire con chiarezza l´esatta misura del coinvolgimento di Lebensborn. D´altra parte, è un dato di fatto che l´organizzazione incoraggiava i rapporti sessuali dei soldati tedeschi con ragazze dei paesi occupati «dotate di requisiti razziali superiori», nell´ambito del programma pseudoscientifico nazista, finalizzato all´eugenetica e al dominio mondiale del Terzo Reich.