domenica 12 giugno 2011

“Scampati per miracolo al massacro”

MACERATA – Nel dramma della II guerra mondiale, l’odore della morte riempiva i polmoni anche al di là del filo spinato dei campi di concentramento. La tragedia delle privazioni, delle mutilazioni e delle sofferenze è stata vissuta anche nei campi di battaglia dove i soldati italiani erano stati inviati a combattere una guerra tanto sbagliata quanto inutile. Dai teatri di guerra più devastanti e in particolare dal fronte orientale, quello della campagna di Russia, chi ne fece ritorno riportò le stesse lacerazioni di quanti sono stati internati.

Anche per loro, oggi, è il Giorno della memoria, che commemora accanto alle vittime dell’Olocausto, quelle del nazionalsocialismo e del fascismo. Pietro Grasselli e Ivo Pianesi sono due dei maceratesi chiamati alle armi, appena ventenni, e spediti nella steppa russa a combattere per la Patria. Due soldati accomunati da età, terra di appartenenza e da un destino che gli ha risparmiato la vita, ma con due vicende personali diverse. L’uno pontiere, l’altro telegrafista, sono partiti senza sapere quello che avrebbero trovato, senza sapere che nelle infinite distese della steppa russa avrebbero visto morire uno dopo l’altro i loro compagni di avventura, sopraffatti dal freddo e dalle ferite, accasciandosi “nella neve come fagottelli”.
“Nell’autunno del ’42 arrivai al comando tappa a Cerkovo con una divisa di panno e un cappotto con la pelliccia – ricorda a distanza di quasi 70 anni Ivo Pianesi –, credevo di dovermi occupare delle stazioni radio e invece mi ritrovai a combattere al fianco della fanteria e delle altre forze militari. A dicembre eravamo già accerchiati. L’assedio durò un mese sotto i continui attacchi dei russi. Quando potevano gli aerei S79 italiani buttavano casse di viveri e munizioni senza paracadute e una metà si rompevano nell’impatto. Il 16 gennaio ‘43 attaccammo per aprirci un varco, noi avevamo i mortai, loro i razzi katiuscia. Riuscimmo comunque a sfondare la sacca di accerchiamento, ma fu una trappola. I russi ci attaccarono alle spalle e fu un massacro”. Da lì i sopravvissuti iniziarono la ritirata nella neve con quasi 40° sotto lo zero. Dopo quattro giorni di marcia e centinaia di morti seminati nella steppa, Pianesi arrivò in una piccola isba, stremato. “Mi tolsi le scarpe e sprofondai nel sonno. Fu un errore. I piedi diventarono grossi come pagnotte, dovetti riprendere il cammino usando le scarpe come ciabatte”. Quell’errore gli costò l’amputazione delle falangi di entrambi i piedi. Ma non subito. “Dovetti aspettare cinque mesi, che cadessero da sé le parti rovinate, poi al Rizzoli a Bologna mi operarono”.


Non riportò amputazioni ma fu inviato in Russia nel periodo peggiore della guerra Pietro Grasselli. “Dal dicembre ‘42 ad aprile ‘43. Per arrivare a Voroshilovgrad impiegammo 38 giorni a causa dei partigiani slavi che ci attaccavano. Eravamo stipati in vagoni pieni di uomini, armi e pidocchi”. Non furono molti i ponti che Grasselli riuscì a costruire sul Don. La disfatta era già iniziata e con essa la ritirata. A Pantelejmonowka il destino fece il suo corso. “Non avevamo nulla da mangiare, per sopravvivere sparavamo ai corvi e li mangiavamo crudi, fuoco non ce n’era. A volte gli anziani del posto ci davano dei semi di girasole, a volte qualche patata o un uovo. Il fronte si avvicinava, scappavano tutti e io volevo andare con loro. Il tenente Turio De Barba mi disse di seguire il mio destino. Ero stato sempre con lui e decisi di continuare a farlo. Fui miracolato. Di quelli che partirono non tornò quasi nessuno”.





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