domenica 26 giugno 2011

Luigi Emer

Nato a Dermulo (TN) nel 1918, residente a Bolzano

Arresto
effettuato dalle SS, il 26 luglio 1944 a Cavalese (TN) durante un'operazione del battaglione partigiano da lui comandato

Carcerazione
- a Trento: Carcere di Via Pilati
- a Bolzano: Comando della Gestapo

Deportazione
nei Lager nazisti d'Italia: a Bolzano, matricola n. 9.861.

Liberazione
avvenuta il 30 aprile 1945, in seguito all'abbandono da parte dei nazisti del Lager di Bolzano e all'intervento della Croce Rossa e del Comitato di Liberazione Nazionale

Ritorno a casa
non specificato

La testimonianza
Mi chiamo Luigi Emer, nome di battaglia Avio, perché ero in aviazione.Sono nato a Dermulo, comune di Taio, provincia di Trento, il 27 agosto 1918.
Sono stato arrestato in seguito ad un combattimento contro un presidio nazifascista che si trovava a Cavalese. Partimmo di notte e arrivammo nel villaggio vicino a Molina. Nella Val di Fiemme avevamo incontrato un'altra formazione di partigiani, comandata dal povero Aldo Iseppi, e altri compagni, Franco Franch e Quintino Corradini, si eravamo uniti per attaccare questo presidio. Verso le dieci di sera una bomba a mano mi scoppiò fra le gambe e mi fratturò completamente la gamba destra e l'ulna del braccio sinistro. Le schegge mi riempirono per tutto il corpo provocandomi profonde lacerazioni e ferite. Come caddi i compagni volevano sospendere l'azione, ma io diedi l'ordine di proseguire e di portarla a termine. Portarono a termine l'azione e cercarono di portarmi in salvo caricandomi sopra un carretto e trascinandomi fino al villaggio Stramentizzo. Fra di noi c'era la regola per cui i feriti gravi che si rendevano intrasportabili dovevano essere fatti fuori con un colpo di pistola. Toccando il caso mio, si prepararono per spararmi il colpo di pistola alla testa, ma un compagno tuttora vivente a Bolzano disse "è inutile sparare, questo è morto". Avevo perso i sensi. Convinti che fossi morto se ne andarono di notte attraverso le montagne e mi abbandonarono sopra questo carretto. Il 26 agosto 1944 durante la notte ripresi i sensi, cercai aiuto ma nessuno rispondeva. Silenzio assoluto, buio pesto e cielo sereno. Io guardavo le stelle. Verso l'alba si avvicinarono alcuni partigiani paesani del posto, di Stramentizzo, fra i quali una ragazza, una certa Sabina che fungeva da staffetta. Vedendomi in quelle condizioni chiamò un medico il quale arrivò, mi fasciò la gamba destra e scappò subito via in motocicletta per paura di essere catturato. Questa ragazza cercò di alimentarmi dandomi un bicchiere di latte e una coperta che prelevò dalla stalla. Avevo soldi e armi addosso, li buttai su un cumulo di legna. Notai che la gente curiosa che si era avvicinata al carretto si stava allontanando. Alzai il capo e vidi che ero accerchiato dalle forze tedesche, dalle SS. Fui preso e catturato.

Mi portarono alla caserma di Cavalese. Lì dalla mattina fino alla sera fui sottoposto a lunghi interrogatori, senza essere curato, fasciato e senza essere alimentato. Alla sera con la scorta armata mi portarono nel carcere di Trento, dove fui sottoposto a interrogatori, torture e sevizie. Continuamente svenivo, mi facevano delle iniezioni e come rinvenivo altre scudisciate. Questi interrogatori si protraevano per giorni e giorni, anche di notte. E così dall'agosto fino ai primi di ottobre. I primi di ottobre un giorno si presentò in cella un detenuto politico, un ex maestro che faceva l'infermiere. Mi sbarbò, mi lavò e mi diede qualche casacca da indossare. Tutti sospettavano che venissi condannato a morte. L'indomani mattina nel corridoio del carcere sentii dei passi ferrati, le SS entrarono nella mia cella e chiesero subito se riuscivo a stare in piedi. Io dissi che non ce la facevo. Mi caricarono su una barella e mi portarono fuori. Mi diedero un panino e una coperta, mi caricarono sopra un furgoncino, senza dirmi per quale destinazione, e mi portarono alla stazione di Trento. Lì mi caricarono sopra un vagone merci e fui trasferito alla stazione ferroviaria di Bolzano, dove mi portarono all'ospedale civile in via Fago, a Gries. Fui messo in una stanza assieme ad altri detenuti politici, fra i quali il povero Francesco Rella, l'avvocato Ferrandi, il dottor Lubich, l'avvocato - allora studente - Giorgio Tosi, e l'avvocato Steiner di Lana. Qualche giorno dopo mi trasportarono in sala operatoria e mi operarono la gamba destra e l'ulna del braccio sinistro. Rimasi ingessato per alcuni mesi, sempre sottoposto ad interrogatori da parte del Procuratore del Tribunale speciale l'avvocato Elsi, il quale era abbastanza burbero, ma non osò mai usare metodi violenti. Il secondo giorno che avevo la gamba ingessata mi fornirono un paio di stampelle e due agenti di scorta. Al mattino mi accompagnarono verso i servizi a lavarmi, e uno mi disse "tra poco verranno quelli delle SS'. Come mi scortarono in stanza, con le stampelle, dopo qualche istante entrarono quattro ufficiali delle SS. "Emer Luigi?" "Sì". "Rella Francesco?" "Sì". "Tutti e due condannati a morte". Il Tribunale speciale il 12 dicembre 1944 aveva confermato la nostra condanna a morte. Avevo sempre negato e taciuto su tutto ciò che sapevo, però di fronte alla morte ho dovuto dare le mie vere generalità. Da queste generalità una pattuglia risalì al mio paese d'origine, e voleva incendiare la casa dove risiedeva mia madre con i miei fratelli e sorelle, cosa che non avvenne per intercessione di alcune persone.
Ci prelevarono dall'ospedale ai primi del febbraio 1945. Facevo per prendere le stampelle, ma mi dissero "queste non servono più". Facevo per prendere qualche indumento da portare con me, ma dissero "non servono più". Francesco Rella aveva gli occhi bendati, era mezzo cieco. Ci sollevarono tutti e due e ci caricarono sopra una macchina, con la scorta, che arrivò fino al corpo d'armata. Al corpo d'armata fecero scendere il povero Francesco Rella che venne fucilato, massacrato negli scantinati. Sapendo qual era il mio destino aspettavo il mio turno, sennonché continuavo a rimanere in macchina. A un certo punto vidi che trascinavano per terra il corpo di un giovane, pesto e sanguinante, e lo caricarono in macchina. Era Walter Pianegonda di Schio, aveva la mamma e tre sorelline internate nel campo di concentramento e il papà, che era capo partigiano, era stato fucilato. Chiesi se potevo parlare, e il comandante disse "parlate pure". Chiesi dove stavamo andando, ma l'ufficiale non rispose. Walter Pianegonda disse "io vengo dal campo di concentramento, chissà che non ritorniamo lì". Pensavo ci avrebbero portato a Castel Flavon, dove avvenivano le esecuzioni, invece ci portarono veramente nel campo di concentramento di Bolzano in Via Resia.

Io fui ricoverato all'infermeria, ma prima fui portato all'ufficio della fureria, dove mi presero in forza e mi consegnarono un triangolo rosso col numero da portare obbligatoriamente sulla casacca. Il mio numero di immatricolazione era il 9.861. All'infermeria fui messo in un lettino dove ebbi occasione di conoscere il Professor Meneghetti, Rettore dell'Università di Padova, e il Professor Virgilio Ferrari, primario all'ospedale di Garbagnate e Milano, il colonnello Andreani di Verona e altri detenuti politici. Un amico che lavorava presso la falegnameria del campo mi fornì due stampelle. Un prigioniero pilota italoamericano di origine trentina, avendo saputo che ero trentino e potendo loro ricevere dei pacchi - mentre noi non potevamo ricevere niente - mi fece avere un paio di uova. E' un particolare a cui tengo. Prima di consumarle qualcuno mi disse "nel blocco E c'è il conte Volkenstein che sta per morire di fame, potresti portarle a lui?" e così gliele portai. Il regalo di due uova era come un lingotto d'oro. Che siano state le uova o altro, il conte Volkenstein del Castel Toblino si rimise in sesto e uscì anche lui dal campo. In seguito mi ospitò nel suo castello al lago di Toblino e mi fece conoscere il figlio. Mentre ero ricoverato all'infermeria, dovevo stare attento, molto attento e nascondermi alla vista dei famosi aguzzini, i due ucraini. Questi due ucraini erano sempre ubriachi, e quando vedevano uno di noi questo veniva torturato, massacrato, picchiato, insomma scene strazianti che è doloroso e triste rievocare. La gente era intimorita e paurosa, ma gran parte delle persone erano anche rassegnate al loro destino. Il mio destino era stato questo, - la storia è stata ricostruita in seguito - il Tribunale speciale, subito dopo la morte del partigiano Francesco Rella, infermo e cieco, disse alle SS "avete fucilato un infermo, volete fucilare un altro infermo?" Così il tribunale speciale era riuscito a commutare la mia condanna a morte in ergastolo, destinato ai blocchi di eliminazione in Germania.


La vita nel lager di Bolzano di Via Resia è indescrivibile. La gente soffriva e penava affamatissima, andava a rovistare persino nelle immondizie per cercare qualche buccia di patata. Bisognava cercare di evitare l'incontro con gli ucraini o con la Tigre. Nel campo erano deportati anche dei religiosi, ricordo Don Guido Pedrotti e Don Luigi Longhi, mi pare si chiamassero così, e altri religiosi che erano stati catturati non so dove. Nel campo un giorno incontrai un mio carissimo amico, Quintino Corradini, soprannominato Fagioli, il quale era ferito ad un occhio e fu destinato al blocco celle. E' riuscito a sopravvivere. Nel blocco celle era detenuta anche Nella Mascagni. Moltissime erano le donne, oltre alla famiglia di Walter Pianegonda c'era Laura Conti, una dottoressa della quale mi sfugge il nome, poi una certa Cicci, che faceva da capogruppo alle donne, moglie di un certo Novello da Garda, e - particolare curioso - c'era anche la prima moglie di Indro Montanelli. Poi naturalmente c'erano famiglie di ebrei coi bambini.




Noi dal triangolo rosso, politici e partigiani, eravamo i più perseguitati, i più presi di mira. Io riuscii a nascondermi più volte, a farla franca, a scantonare, ma altri furono picchiati, torturati e seviziati. Nel campo tra noi deportati la solidarietà si manifestava in conforto, un conforto morale e spirituale, perché quello che ci aspettavamo tutti era di essere condannati da un momento all'altro, o portati nei campi di eliminazione in Germania. Noi non potevamo ricevere niente, né posta né pacchi. Dall'esterno arrivavano solo messaggi, soprattutto Laura Conti teneva questo contatto con l'esterno, ad esempio con il CNL e con Franca Turra. Solo il blocco degli Italo americani poteva ricevere pacchi.
Sono rimasto dentro fino alla liberazione, che è avvenuta tramite l'intervento della Croce Rossa Internazionale e del Comitato di Liberazione Nazionale sia di Milano che di Bolzano. Oltre ai politici e agli ebrei, c'erano altri tipi di detenuti, renitenti al lavoro e tedeschi disertori che rifiutarono di prestare servizio nella Wehrmacht. Il giorno che ci hanno liberati eravamo tutti increduli, sembrava di affacciarsi su un altro mondo, vedere altra gente, vedere un po' di movimento era una realtà che non conoscevamo più e che avevamo dimenticato. Fui ospitato in una famiglia delle Semirurali a consumare un pasto.
Nel campo riuscivo a tenere un blocco di appunti, che mi avevano procurato quelli che lavoravano in una tipografia. Lo conservo ancora come ricordo di quei mesi. Per esempio c'è un santino che mi ha dato il prete venuto a celebrare la Pasqua del 1945. Sopra ci sono i nomi di molti detenuti politici, tra cui un tedesco. C'era il dottor Leoni, il colonnello Andreani, Padre Ghino Andreani. Ci tengo anche una tessera della cellula clandestina del partito comunista del campo di concentramento. E poi la tessera che mi è stato consegnata al mio rilascio. C'è scritto "Comitato di cooperazione nazionale, campo di concentramento di Bolzano. Il Signor Emer Luigi, matricola 9.861 è un ex detenuto politico proveniente dal campo di concentramento di Bolzano. Egli merita perciò l'aiuto di tutte le autorità civili e militari e di tutti i cittadini dell'Italia liberata. Il possessore di questa tessera deve essere subito munito del documento di scarcerazione".

Nessun commento:

Posta un commento