domenica 19 giugno 2011

DA CEFALONIA a Minsk

STALAG-352, PARLA UN SOPRAVVISSUTO 24 dicembre 1943, il giovane prigioniero italiano viene deportato nel campo nazista in Bielorussia. Arrivava dalla Grecia dove aveva visto morire tutti gli altri. Di quei giorni ricorda: «Terribili erano, quelli della Wehrmacht»


La porta dell'inferno era quella che poco fuori Minsk, passato il reticolato di filo spinato, conduceva nel grande campo nazista per prigionieri di guerra di Masyukovschchina. Uno dei centocinquanta campi per militari. Il più grande di Bielorussia. Con quelli per civili, duecentosessanta. Masyukovschchina, Berezwecz, Borysów, Glubokoye, Arechauna, Maladechna, Vitebsk, Slutsk, Gomel, Grodno, Slonim, è qui che sono stati portati molti soldati, sottufficiali e ufficiali italiani dopo l'8 settembre del 1943. Poi vittime di fucilazioni, fame, torture, malattie.
Era il 24 dicembre del '43 quando il giovane prigioniero italiano venne invece scaricato alla stazione di Minsk. Arrivava da Cefalonia dove aveva visto morire tutti gli altri. Di quei giorni ricorda la grande confusione, gli spari, i militari caduti, l'odore dei cadaveri: «Sono stati quelli della Wehrmacht, a Cefalonia c'erano loro. Bruciavano i morti».
In Grecia era arrivato dall'Albania, dal deserto e dalle pestilenze di Durazzo: «Mi portarono a Zante, poi mi dissero: Cefalonia. La sera me ne andavo ad Argostoli, al Comando Marina, quello sul mare e coi cannoni. Là c'era lo spaccio, il bollettino di guerra. Fino a quando non giunse la notizia che Badoglio aveva firmato l'armistizio. Pensavamo la guerra fosse finita, invece fu l'inizio dell'inferno».
La fuga nelle retrovie di Balsamata a bordo di camionette, i combattimenti, i cannoni distrutti, le insidie dei caccia tedeschi: «Mi catturarono a settembre, la mattina del 23. Prima che arrivassero i tedeschi, il nostro capitano, Alfredo Cartocci, ci fece ammainare la bandiera italiana perché non cadesse in mano ai tedeschi. Prima di bruciarla, ci chiese di renderle onore con il moschetto. Poi vennero i tedeschi e ci disarmarono. Il capitano ci disse che eravamo prigionieri di guerra e di non reagire. Poche ore e i tedeschi fucilarono lui, il tenente Casaretto e tutti gli altri. Mentre ci portavano ad Argostoli, davanti all'ospedale da campo di Fragkata vidi diversi cadaveri. I tedeschi avevano fucilato duecento persone: dottori, malati, gente con la croce rossa al braccio».
Ad Argostoli i soldati vennero rinchiusi nel carcere dell'isola: «Dagli altri soldati, quelli che arrivarono dopo di noi, venimmo a sapere che avevano fucilato i nostri ufficiali».
Ai primi di ottobre, un piroscafo lasciò Argostoli. Il 28 settembre, uno era naufragato con il suo carico di prigionieri italiani: «Avevo paura, c'erano le mine, sotto il mare. Poi salimmo sulla nave e ci portarono a Patrasso. Al porto trovammo i tedeschi con i mitra spianati. Ecco i banditi di Cefalonia, ci gridarono. A Patrasso ci misero in un grande magazzino. Poi un giorno mi presero e mi portarono a lavorare nel Canale di Corinto».
Infine, Atene: «Dalla prigione fuori città, ci portarono alla stazione. Un treno lunghissimo, una trentina di vagoni piombati, carri bestiame, erano, carri bestiame con il filo spinato».
Il treno per Minsk lasciò la Grecia ai primi di novembre. Quaranta, cinquanta prigionieri per vagone: «Il treno passò da Sofia, poi dalla Romania. Saliva sempre più a nord. Solo tre volte ci fecero scendere. E mentre noi facevamo i bisogni, loro ci insultavano».
Niente cibo, niente acqua, per i prigionieri dei carri bestiame. Molta gente morì: «Cinque solo del mio vagone. I tedeschi, i morti, li abbandonavano sui binari».
Il 24 dicembre del '43, il treno giunse a Minsk. Quel giorno, cinquecento e forse più prigionieri di guerra italiani camminarono sotto la neve dell'inverno bielorusso vestiti della sola divisa estiva, quella della Grecia: «Ci portarono in un grande campo, poco fuori Minsk. Ci spogliarono e ci tolsero i documenti. Dopo la doccia di massa, ci rasarono i capelli. Eravamo pieni di pidocchi e loro avevano paura dei pidocchi. Poi ci diedero degli zoccoli di legno e una divisa tedesca. Una divisa tutta a strisce. Un pigiama, sembrava. Dietro, c'era scritto IMI».
Era grande, il campo nazista poco fuori Minsk. Gli hitleriani lo chiamavano Stalag. Tutt'intorno, filo spinato, torri, riflettori, mitragliatrici, baracche di legno: «Quattro, me ne ricordo, perché a noi il campo non ce lo facevano vedere. Uscivamo che era buio e tornavamo che era buio. Ma doveva essere grande il campo, tantissime dovevano essere le baracche: ogni giorno arrivavano prigionieri».
Nessuno poteva alzare lo sguardo, nel grande campo nazista: «Se uno poco poco alzava la testa, bastonate. Ci ordinavano di stare sempre con la testa bassa e guai a guardarli negli occhi, altrimenti bastonate o un colpo di mitra. Terribili erano, quelli della Wehrmacht. Pure a Cefalonia, c'era la Wehrmacht. Loro, l'hanno fatto, tutto quel macello».
Quaranta, cinquanta prigionieri per baracca nel grande campo di Masyukovschchina: «Dormivamo sui tavolacci, come topi. La sera bollivamo la divisa per paura dei pidocchi, poi la lasciavamo asciugare sulla stufetta».
Il giovane prigioniero, lui, lavorava alla stazione di Minsk: «Caricavo e scaricavo macchine tedesche, quelle che arrivavano dal fronte. Lavoravo sotto la neve, con il pigiama a strisce e gli zoccoli di legno. Gli altri, invece, scavavano trincee, trasportavano armi e munizioni».
La stazione di Minsk era a tre chilometri. Era l'urlo dei soldati a svegliare i prigionieri: «Entravano nelle baracche con il mitra: Raus! Poi iniziava l'appello. Tornavamo che era buio. Per cena, rape, brodaglia e un po' di pane nero con margarina. Mai una patata. Così, ogni giorno, per giorni».
Brutta vita, quella dei prigionieri dello Stalag-352: «Un giorno arrivò un ufficiale tedesco con un capitano della milizia fascista. L'italiano ci chiese come ce la passavamo. Malissimo, come potevamo passarcela? Ci disse: se aderite alla Repubblica Sociale Italiana, il Comando tedesco vi dà divise nuove e da bere e mangiare come i tedeschi. Ci guardammo. Fucilateci pure, gridammo, meglio morire piuttosto che passare con voi. Ammazzateci pure come avete fatto con gli altri a Cefalonia».
Era il giugno del '44 quando il giovane prigioniero venne caricato a forza da quelli della Wehrmacht: «Ci portarono via con loro. Sembravano impazziti. Avevano paura dei russi. Ci portarono a Varsavia, lasciandosi dietro cadaveri e baracche. In Polonia mi rinchiusero in un campo, poi mi portarono a Lubecca, dove venni liberato dagli inglesi».
Il 3 luglio del '44, l'Armata Rossa entrò a Minsk. A Masyukovschchina ufficiali e soldati sovietici trovarono, rannicchiati in baracche intasate di tanfo, novantotto prigionieri di guerra italiani. Ma non erano più uomini quelli che si trovarono davanti e li portarono in un ospedale da campo.
Fra il dicembre del 1943 e il giugno del 1944 furono cinquemila gli italiani ad essere rinchiusi nel campo nazista per prigionieri di guerra di Masyukovschchina. Molti riposano in Bielorussia senza più un nome.

Nessun commento:

Posta un commento