E' un tardo pomeriggio dal cielo terso, sullo sfondo i Monti Pisani corrono lasciando intravedere qua e là qualche abitazione, comunicando un senso di maestosità e allo stesso tempo di bellezza, una bellezza che placa, che riverbera la pace che ancora regna in questi luoghi.
La signora Anna Calloni, insegnante, mi accoglie nel giardino di casa, mi fa sedere ad un tavolo e mi presenta i suoi ospiti: alla mia destra il signor Giuseppe Buzzigoli, "piovuto" a Molina nel 1973 ed innamoratosi ben presto del paese e della sua storia; poco distanti le signore Alina Andreotti, 86 anni, sua cugina Maria Paola, che di anni ne ha 80, e Franca Roventini, nata 84 primavere fa.
Per tutti loro non è un avvenimento nuovo parlare dei fatti accaduti a Molina di Quosa durante la guerra: questo è divenuto oramai un rito, ma un rito che non ha assolutamente perso vigore, anzi, che si rinnova di volta in volta animato dal fuoco della memoria; un rito che non si ripete mai allo stesso modo, ma muta adattandosi all'occasione, alle domande di chi vuol sapere, alle immagini che si riproducono nella mente di chi c'era suscitando emozioni vive.
La signora Calloni da anni opera per perpetuare tra i suoi alunni il ricordo delle stragi avvenute a Molina: il "Progetto Memoria", avviatosi a fine anni Novanta e ben presto patrocinato dal Comune di San Giuliano, si è servito - e si serve tuttora - di documenti e testimonianze orali per ricostruire le vicende di quando il fronte era fermo sull'Arno, grazie anche alla preziosa collaborazione del Circolo "Le Storie", nato nel 1996 per iniziativa di Giuseppe Buzzigoli e Vittorio Sfingi al fine di svolgere attività di ricerca sulla storia di queste zone. Ragazzi delle elementari e delle medie impegnati nel dialogare con le fonti e nell'elaborare riflessioni in merito, nel "vivere la storia" in un modo che generalmente non si pratica nelle scuole: questo il senso del Progetto. Un'azione che ha dato il suo contributo nel riportare alla luce la vita, l'impegno, e spesso anche la morte, di chi a Molina viveva nei mesi dell'occupazione nazista.
"Dopo questo armistizio noi siamo caduti nel baratro": sono queste le parole che la signora Maria Paola ricorda di aver udito dal Federale fascista del paese nei giorni successivi all'8 settembre. I tedeschi occuparono ben presto la zona, in un momento nel quale i Monti si prestavano ad accogliere i flussi di disperati che cercavano rifugio dopo il terribile bombardamento di Pisa del 31 agosto.
Paura, confusione, incertezza: che cosa stava accadendo? I bambini di Molina vedevano che i fatti erano ben diversi da quelli che gli erano stati raccontati a scuola, in un'opera quotidiana di indottrinamento; «Noi non si studiava la geografia - mi dice la signora Maria Paola - noi si studiava l'Italia e la colonie; un po' di Libia, l'Abissinia, l'Eritrea, e poi l'Albania; per il resto, niente: solo il Mare Nostrum, che poi non si sapeva perché era Nostrum. Eravamo catechizzati». Solo tornando a casa dopo scuola, qualcuno poteva sentire voci dissenzienti da quelle delle maestre, perché l'adesione al fascismo era più che altro una necessità: l'unica via se si voleva «mettere insieme il pranzo con la cena». Eppure vi fu qualche fascista pronto a collaborare con i tedeschi, soprattutto nell'opera di reclutamento portata avanti dalla Todt, il grande motore del Reich per il settore edilizio, bisognosa di braccia servili da reperire nei territori occupati.
I tedeschi non erano tutti uguali: i soldati della Wehrmacht, ovvero dell'esercito regolare, dimostrarono di portare avanti un codice etico che poco aveva a che fare con le atrocità del conflitto: guerra a chi guerreggia, ma rispetto della popolazione civile. Così, le mie interlocutrici mi dicono che i soldati della Wehrmacht erano «persone squisite»; ricordano addirittura la figura di un giovane che regalava rose alle bambine di Molina. La tragedia cominciò con l'arrivo in massa delle SS.
Con il passare dei mesi la vita si faceva sempre più difficile: bombardamenti, raid tedeschi, portarono molte persone a cercare rifugio sui monti, soprattutto a partire dalla primavera del 1944. «Noi si scappò da una mia zia - dice la signora Franca - e a casa sua dormivo sul tavolo»; chi aveva casa sulle montagne poteva dirsi fortunato: gli altri dovettero creare rifugi di fortuna, spesso baracche, in situazioni di assoluta carenza d'igiene. La stagione calda certo aiutò la popolazione in fuga, e i boschi delle montagne provvidero a sostenere chi aveva lasciato tutto: «quell'anno lì vennero tanti frutti, - mi dice ancora Franca - un'annata di frutta abbondantissima». Le famiglie andate sui Monti dimostrarono uno spirito di solidarietà che ancora oggi è ricordato con orgoglio da chi allora c'era: coloro che potevano aiutavano chi non era in grado di far fronte a tutto: poco importa se nelle case si dormiva anche a decine, sui tavoli, sulle madie, per terra.
La gente però «moriva di fame», e, come mi dice Franca, «alcuni sono morti per le mine mentre andavano nei campi a raccogliere qualcosa». Ad aggravare i lutti pensò poi la febbre tifica che colpì i rifugiati. Ma per il momento i tedeschi sembravano non riuscire a rompere il guscio protettivo dei Monti Pisani, pur sapendo bene che solo lì potevano essere le anime che mancavano da una Molina ormai deserta.
Era la notte tra il 6 e il 7 agosto; circa 300 persone si trovavano in una radura sulle montagne, conosciuta come "La Focetta". In un rastrellamento di cui non si fece in tempo ad accorgersi, i tedeschi piombano sulla popolazione inerme. Volevano braccia da lavoro: le donne ed i bambini furono quindi lasciate andare, gli uomini trattenuti. Solo una donna non fu mandata via: Livia Gereschi (nella foto), 34 anni, insegnante: la sua colpa quella di aver sfruttato la sua conoscenza del tedesco - era laureata in lingue - per invocare la liberazione degli uomini. Oggi è considerata un'eroina della Resistenza, e la scuola dove la signora Anna ha insegnato fino ad ora è a lei dedicata. Guardando le sue foto, ci si rende conto di come Livia fosse una donna dalla bellezza icastica, ma allo stesso tempo dotata di grande forza.
Assieme a tutti gli uomini fu portata a Ripafratta; qui, seduti ad un tavolo in via Vanella, i tedeschi operarono la selezione tra gli "abili" e gli "inabili" al lavoro. A chi era inabile, «gli dicevano che lo portavano all'ospedale»: «mio zio - dice ancora Franca - che aveva un occhio di vetro, pensò di dire che non poteva lavorare». Credeva di essere lasciato in pace. Fu ucciso assieme agli altri. Portati alla scuola di Nozzano, dove era il comando delle SS, i prigionieri furono tenuti reclusi per quattro giorni; l'11 agosto alcuni furono portati in località Pancone, altri invece, come Livia, a La Sassaia, presso Massarosa. In tutto furono in 69 a morire. Se ne salvò uno solo, Oscar Grassini. Il signor Giuseppe mi racconta la vicenda: avventatosi contro un tedesco mentre si dirigeva di fronte al plotone che l'avrebbe ucciso - si andava quattro per volta - e ferito ad una gamba, Grassini cadde a terra e si finse morto; il colpo di grazia, che il soldato delle SS voleva indirizzare alla nuca, lo colpì invece di striscio ad un orecchio. Grassini attese così che i suoi sicari si allontanassero, e solo ore dopo fu soccorso da un soldato della Wehrmacht: si salvò, ma al prezzo di un braccio ed una gamba.
La percezione che quegli uomini non sarebbero tornati fu immediata tra i familiari. Mi racconta Franca: «mia zia andò a cercare suo marito - l'uomo senza un occhio -, e quando tornò si buttò sul divano, singhiozzava, diceva:"non li vediamo più"». Quello del 6-7 agosto non sarebbe stato però l'unico eccidio che quella gente avrebbe conosciuto.
Qualche settimana più tardi infatti, il 31 del mese, don Giuseppe Bertini, parroco di Molina, sarebbe accorso in difesa di alcuni uomini catturati dai tedeschi: «non sono partigiani, - avrebbe detto - sono padri di famiglia». I tedeschi lo avrebbero caricato su un furgone diretto a Massa e ucciso all'arrivo.
Sono lutti che non si cancellano. E le persone che sono con me lo testimoniano. La loro vita, il loro impegno, sono una delle tante fiammelle che ancora oggi illuminano il ricordo di quei tragici anni. Un tesoro di memoria che il tempo però ruba inesorabilmente; proprio per questo è importante l'atto del trasmettere. Chiedo alla signora Anna che effetto abbia sui ragazzi il lavoro portato avanti da lei e da alcune sue colleghe: «quando i professori vogliono comunicare qualcosa, i ragazzi sono molto ricettivi, si appassionano» - mi risponde -; «del resto, questo fa parte della nostra memoria, della mia memoria: mia madre e mio padre sono di qui, me lo raccontavano sempre cos'era successo. Io in classe ne ho sempre parlato. I bimbi, se noi insegnati ci crediamo e vogliamo trasmetterlo, si appassionano»
Ma qual è il senso di tutto questo? « Quando fai la storia - prosegue Anna -, e ti appoggi sulle storie, allora la storia ha un senso. Il rapporto fra la storia e le storie è fondamentale, perché dalla storia si deve andare alle storie, e viceversa. E questa interazione, quando c'è possibilità di farla, facciamola, perché è fondamentale».
Voce di chi ogni giorno parla di storia, in un tempo nel quale sembra non ci sia posto per il ricordo, tempo appiattito sull'hic et nunc che identifica la memoria con ricorrenze del calendario di cui molto spesso si ignora il senso. Una fiammella che però brilla, e continuerà a farlo.
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