"Contro le bande si agirà con azioni pianificate. E' inoltre necessario garantire la continua sicurezza della truppa contro attentati e attacchi.[...] In caso di attacco, aprire immediatamente il fuoco, senza curarsi di eventuali passanti.[…] Data la situazione attuale, un intervento troppo deciso non sarà mai causa di punizione. Nel caso di attacchi, è necessario circondare immediatamente i luoghi in cui sono avvenuti; tutti civili che si trovano nelle vicinanze, senza distinzioni sociali o personali, devono essere arrestati. […] Una rapida punizione è più importante dell'invio immediato di un rapporto. Tutti i comandi responsabili devono usare la massima durezza nella persecuzione […]"
Con quest'ordine il feldmaresciallo Albert Kesselring, comandante delle truppe tedesche in Italia, nell'aprile del 1944 istigava le proprie truppe ad una radicalizzazione della lotta antipartigiana. Con l'aggravarsi della situazione militare doveva necessariamente assumere importanza maggiore, per i comandanti, non solo il fronte ma anche il controllo delle retrovie. Questa situazione si verificò nel settembre del 1944. Gli Alleati avevano sfondato la Linea Gotica a metà dello stesso mese presso il Passo della Futa, vicino il confine tosco-emiliano, ma il 27 si fermarono a 25 Km da Bologna per mancanza d'uomini e mezzi. La strada che collega il capoluogo emiliano al fronte si estendeva in un territorio dove si erge un acrocoro dell'altitudine di 800-1000 metri con le cime dei monti Sole, Venere e Caprara e dove sorgono numerose frazioni dei comuni di Marzabotto, Grizzana e Vado di Monzuno. In questa zona era molto attiva da qualche tempo la banda partigiana Stella Rossa, le cui azioni di sabotaggio e attentati avevano inferto duri colpi ai reparti tedeschi, che fungevano da collegamento tra il fronte e le retrovie. Per questo motivo già nel mese di Maggio era stato attuato nella zona un primo rastrellamento che aveva avuto come risultato alcuni morti da ambo le parti, l'uccisione di 5 civili e il saccheggio di generi alimentari da parte delle truppe tedesche.
Quello che invece avverrà tra il 29 settembre e la prima settimana d'ottobre sull'acrocoro, viene ricordato come uno dei più grandi sacrifici della popolazione italiana ed è ancora una ferita aperta per le persone che vi abitano.
Quella mattina fu dato l'ordine alla 16ma divisione corazzata granatieri delle SS Reichfurher di dare inizio ad un'azione a tenaglia per stringere la zona dell'acrocoro ed eliminare ogni forma di resistenza senza alcuno scrupolo. Il piano di battaglia prevedeva l'azione di più reparti: quello dell'artiglieria avrebbe accerchiato l'acrocoro per eliminare la resistenza partigiana; quello degli esploratori, guidato dal ventinovenne maggiore Walter Reder avrebbe rastrellato tutta la zona circostante. Gli ordini iniziali in quel caso furono quelli di arrestare tutti gli uomini tra i 15 e i 45 anni; ma non fu così. Alle 9 di mattina i reparti esploratori delle SS guidate da 11 fascisti locali delle Brigate Nere, si diressero verso la frazione di Casaglia. Lì 147 persone, donne, vecchi e bambini si rifugiarono nella chiesa di Don Ubaldo Marchionni, che tentava di rincuorarli con la preghiera. I partigiani, d'accordo con la popolazione e con il prete, decisero di rifugiarsi sul monte Sole, dove avrebbero potuto dar battaglia ai nazifascisti, senza coinvolgere i civili nello scontro.
Quest' ultimi potevano stare in chiesa, luogo ritenuto più che sicuro.
Quello che oggi possiamo raccontare è solo una piccolissima parte delle terribili e angoscianti testimonianze dei sopravvissuti.
Adelmo Benini, partigiano della Stella Rossa assistette impotente agli eventi che qui riportiamo come sua testimonianza: "Salendo per il ripido sentiero verso la cima (del monte Sole; N.d.A.), mi ero unito al padre di mia moglie e a un tenente dell'aviazione di Firenze. Tutti e tre dietro un cespuglio stavamo a vedere cosa accadeva in Casaglia, e con terrore notammo che i nazisti non rispettavano per nulla le donne e i bambini. Si vide benissimo quando li fecero uscire dalla chiesa dirigendoli a colpi e a pedate verso il cimitero. In quei momenti la mia testa era completamente vuota; non sapevo pensare guardavo i miei compagni e mordevo un lembo della camicia per non piangere.".
"Li vedemmo abbattere il cancello del cimitero e ammucchiare tutti sulla gradinata della cappella, i grandi dietro, e i piccoli davanti. Quando li scorsi appostare la mitraglia sull'entrata, mi lanciai di corsa giù dai fianchi del monte invocando il nome delle mie creature, ma il cerchio di ferro e fuoco che ci stringeva, non mi permise di avvicinarmi a più di cento metri dal cimitero: di lì vidi sparare con la mitraglia e i fucili in mezzo agli innocenti, lanciare le bombe a mano, e poi alcuni militari con la pistola finivano quelli che si lamentavano." […]
"Dopo due giorni di vagabondaggio entrai nel cimitero e trovai mia moglie; aveva un grosso foro nella fronte e stringeva ancora le due bimbe tra le braccia. […] "in località Caprara vedemmo tre ragazze legate a tre castagni, in riga: le corde ne sostenevano i cadaveri stretti al tronco[…] tra Caprara e Villa Ignano, trovammo i cadaveri di due donne incinte, entrambe sventrate[…]". Elide Ruggeri, sopravvissuta al massacro del cimitero racconta: "…Con me uscirono vive altre quattro donne. Anche il prete Ubaldo Marchionni morì. Fu fucilato sull'altare della sua chiesa e dopo averlo ucciso i nazisti spararono sulle immagini sacre, incendiarono la chiesa e le case intorno col lanciafiamme. Accanto al suo cadavere fu ritrovato un cartello con scritto: Ribelli: questa è la vostra sorte. Tre giorni dopo i tedeschi ordinarono ai civili di seppellire i cadaveri. Fecero una grande buca e li schiacciarono perché si erano irrigiditi."
Queste angoscianti e strazianti parole descrivono ampiamente la ferocia e i barbari metodi utilizzati da dei soldati che in realtà avevano più punti in comune con dei criminali senza scrupoli e morale.
Come disse il Pubblico Ministero che nel dopo guerra accusò e processò Walter Reder: "Quello che commisero non è guerra, forse nemmeno assassinio, è qualcosa che non ha nome.".
Il percorso di morte raggiunse poi altre frazioni come quella di Ravecchia di Cadotto. Qui un sopravvissuto, Medardo Fabbri, fu rastrellato e rinchiuso in una casa. Tutti i componenti della famiglia che abitava la casa furono messi in riga contro il muro della stalla. Un nazista, con una grossa pistola, li uccise uno ad uno, bimbi compresi. A pochi metri, una cinquantina di commilitoni assistevano impassibili. Piangendo un bimbo si aggrappò alle gambe del boia, questi se lo scrollò con un calcio e lo finì con un colpo al cranio. La sera del 29 la morte raggiunse la frazione di San Martino. Qui ai partigiani giunti sul posto il 30, si presentò una scena agghiacciante: 46 corpi, tutte donne, quelle in avanzata gravidanza col ventre squarciato. Si seppe poi che si erano rifugiate in chiesa a pregare e i nazisti le avevano di lì strappate e fucilate sull'aia. Un cartello vicino a loro diceva: Ciò serva di monito agli antinazisti e antifascisti. Il 13 ottobre don Giovanni Fornasini parroco, di Sperticano, si recò al cimitero di San Martino stipato di corpi insepolti. Al sopraggiungere di un capitano delle SS esclamò: "Non erano uomini validi e tantomeno partigiani!". Il capitano nemmeno rispose, si girò di fianco quel poco che bastò per scaricare il mitra addosso al prete.
Tra Cadotto, Pruna e Steccola 145 sono gli assassinati; di essi 40 bambini. La testimonianza d'alcuni sopravvissuti ricorda che spesso questi massacri avvenivano tra le risate e il divertimento delle SS. La sopravvissuta Antonietta Benni, nel suo memoriale, dà un particolare che fa capire l'immensità della tragedia riflessa nel volto di una bambina: "A San Giovanni di Sotto - dice-vi furono ben 50 vittime; fra esse la numerosa famiglia Fiori con Suor Maria che a quell'epoca era con i suoi cari. La nipotina Anna Maria di otto anni era rimasta viva. Per tre giorni è stata aggrappata al collo della mamma morta, chiamandola, baciandola e piangendo…Il babbo, unico superstite, l'ha trovata così, morta di fame e di sfinimento."
Nell'oratorio di Cerpiano ammucchiarono 49 persone di cui 19 bimbi e 25 donne. I bimbi vennero messi in riga contro il muro esterno e con promesse di cibo e denaro furono invitati prima e minacciati poi a dire quanto sapevano dei partigiani. I bimbi non parlarono e vennero rispediti dentro l'oratorio. Seguì subito in primo lancio di bombe a mano che assassinò trenta persone. I feriti cominciarono a lamentarsi invocando disperatamente aiuto; bimbi che piangevano, mamme che tentavano di proteggere le loro creature superstiti. Una donna, Amelia Tossani, voleva fuggire ad ogni costo; aperta la porticina fu freddata da un soldato tedesco sulla soglia, sicché il suo corpo rimase metà dentro e metà fuori e la notte i maiali randagi ne rosicchiarono il capo fra l'orrore di chi impotente, assisteva a tale spettacolo. Il povero vecchio Pietro Oleandri sentì una sua mucca muggire: non resistette a stare in mezzo ai morti fra i quali c'era la sposa del suo unico figlio prigioniero in Germania e due dei nipotini amatissimi. Prese per mano il terzo nipote superstite, di cinque anni e uscirono, ma una raffica li fermò prima che potessero fuggire. Dopo di che i nazisti si misero a gozzovigliare, al suono di una fisarmonica e tra canti a squarciagola fuori dall'oratorio ma i lamenti di una persona ferita cominciarono a disturbarli tanto che quest'ultima venne in fretta finita con un colpo di pistola tra gli sghignazzi generali.
Solo due bambini e una donna si salvarono fingendosi morti. Chi gettò le bombe dalla finestra dell'oratorio, colpì nel "mucchio", considerando le vittime una massa anonima. In realtà furono le truci SS, ad apparire una turba senza volto. La ferocia non ha fine. A Credo di Grizzana 81 persone sono sterminate e i resti minati, un agguato per i sopravvissuti che andavano a seppellire i parenti. Ciò che più indigna è poi il fatto che ogni volta che veniva sterminato un gruppo di persone, i nazisti contavano e registravano i cadaveri con burocratica esattezza in appositi elenchi, definendo ipocritamente gli 800 civili uccisi partigiani o ribelli. Questo è dimostrato anche dalla testimonianza di Luciano Montanari che venne obbligato insieme ad altri rastrellati a dirigersi verso la frazione di Canovetta di Villa Ignano: "Ci fecero fermare e il sottoufficiale disse in discreto italiano, che si andava Vergato a lavorare, ma dovendo ora attraversare una zona infestata dai banditi, era prudente che consegnassimo loro gli orologi, il denaro e i documenti. Fummo obbligati a togliere anche le scarpe e vi frugarono dentro. Riprendemmo la marcia sempre per tre e arrivati presso la Canovetta, ordinarono di avvicinarci al muro di una casa. Quasi subito sentii sparare; urla, rantoli e lamenti si levarono per l'aria. Mi buttai a terra ai primi colpi e fui sepolto dai corpi degli altri. Finiti i colpi di fucile, seguì una breve pausa; sentii quindi degli scoppi fortissimi, e come dei contraccolpi mi stordirono, facendo sussultare i corpi che mi seppellivano: erano bombe a mano. Alla fine ci vennero a contare e se ne andarono via". Tutte le testimonianze ci arrivano da persone che riuscirono a scampare miracolosamente all'eccidio e che una volta tornati sui luoghi del misfatto trovarono madri, padri, fratelli, sorelle e numerosi parenti massacrati dalle raffiche di mitra, corpi bruciati e straziati da ferite impensabili.
Ed è proprio l'accanimento verso i cadaveri ciò che più lascia sconvolti. Il quotidiano Il Resto del Carlino, a quel tempo fedele portavoce dei fascisti, nonostante tutto ebbe il cinismo di pubblicare l'11 ottobre 1944, nella cronaca di Bologna, quest'articolo: "Le solite voci incontrollate, prodotto tipico di galoppanti fantasie in tempo di guerra, assicuravano fino a ieri che nel corso di un'operazione contro una banda di fuorilegge, ben 150 fra donne, vecchi e bambini, erano stati fucilati da truppe germaniche di rastrellamento nel comune di Marzabotto. Siamo in grado di smentire queste macabre voci e il fatto da esse propalato. Alla smentita ufficiale si aggiunge la constatazione compiuta durante un apposito sopraluogo. E' vero che nella zona di Marzabotto è stata eseguita una operazione di polizia contro un nucleo di ribelli, il quale ha subito forti perdite anche nelle persone di pericolosi capibanda (effettivamente fu ucciso il capobanda della Stella Rossa Mario Musolesi, nome di battaglia Lupo. N.d.A.), ma fortunatamente non è affatto vero che il rastrellamento abbia prodotto la decimazione e il sacrificio nientemeno di 150 elementi civili. Siamo dunque di fronte a una manovra dei soliti incoscienti, destinata a cadere nel ridicolo perché chiunque avesse voluto interpellare un qualsiasi onesto abitante di Marzabotto o, quanto meno, qualche persona reduce da quei luoghi, avrebbe appreso l'autentica versione dei fatti".
La colpa di questi massacri è certamente da attribuire a chi personalmente uccise, nondimeno possono essere considerati colpevoli i comandanti che aizzarono e spinsero e infine lodarono tali massacri. Certamente lo spazio d'azione che esisteva a livello militare subordinato ebbe conseguenze dirette per la popolazione civile italiana. Il modo in cui le truppe tedesche si comportarono verso di essa dipese notevolmente dagli ufficiali che avevano il comando, sia a livello di comando supremo d'armata sia a livello di battaglione. Questo livello individuale fu sicuramente importante quanto la base istituzionale, che era formata per un verso dal dominio d'occupazione e, per le truppe combattenti, dagli ordini del comandante supremo Albert Kesselring e dei suoi principali generali. Soprattutto quest'ultimi ebbero notevoli responsabilità. Chi diede l'ordine a Walter Reder di agire, sapeva già bene cosa egli avrebbe compiuto o era in grado di compiere. Quest'ultimo si era già macchiato di crimini il 16 agosto nella strage di S. Anna di Stazzema in Toscana: 570 vittime. Il 19 uccise 160 civili in provincia di Massa Carrara a Bordine S.Terenzio e il 24 è la volta di Vinca di Massa Carrara: 150 persone sterminate. Il 16 settembre, poco prima di Marzabotto alle Fosse del Frigido, sempre nella stessa provincia, fece massacrare 147 persone. Se si considerano i 1027 morti in Toscana e i 1830 delle tredici frazioni di Marzabotto, Vado di Monzuno e Grizzana si raggiunge la spaventosa cifra di 2857 persone uccise, la maggior parte delle quali vecchi, donne e bambini.
Il 31 ottobre 1951 Reder fu processato e condannato all'ergastolo (sarà amnistiato nel 1985). Per la quadruplice fucilazione a Pian di Venola, uno dei tanti episodi che, sommati gli uni agli altri, costituiscono l'"eccidio di Marzabotto", indagò nel 1948 il Tribunale militare di Bologna che tuttavia, accertate le responsabilità di una quindicina di militari tedeschi, non diede seguito all'azione penale per motivi di opportunità politica internazionale. L'incartamento, rinvenuto nel 1994 con altri 694 fascicoli in uno sgabuzzino di Palazzo Cesi, fu trasmesso il 19 dicembre dello stesso anno alla Procura militare di La Spezia, per la riapertura delle indagini. Sull'episodio indaga pure, come si è detto, la magistratura tedesca. Anche in questo caso, dunque, il filo di sangue delle stragi di Marzabotto scorre sino ai giorni nostri e ancora attende giustizia. Per quanto riguarda gli altri numerosi artefici delle carneficine non fu possibile rintracciarli e quindi non poterono essere processati.
La domanda che ci si pone venendo a conoscenza di tali fatti non può non essere che il perché. Secondo lo storico Lutz Klinkhammer si assiste in questo caso all'incontro, in una combinazione mortale, della criminalità del regime nazista con quella individuale. I maggiori eccidi avvenivano di solito nelle zone del fronte soprattutto quando le truppe tedesche si trovavano a starvi per parecchio tempo, come avvenne effettivamente nei pressi di Marzabotto. Se gli attentati e gli atti di sabotaggio contro truppe tedesche comportavano spesso delle rappresaglie eccessive, del tutto sproporzionate, gli attacchi contro soldati tedeschi nel corso di azioni di rastrellamento scatenavano una selvaggia ferocia nei confronti della popolazione civile. In particolare gli attentati contro ufficiali tedeschi con esito mortale furono all'origine di "azioni di vendetta" estreme. Non bisogna poi sottovalutare che tali eccidi furono quasi sempre compiuti dalle stesse unità combattenti, vale a dire i reparti SS. Ciò dimostrerebbe come anche la politicizzazione e quindi la cieca venerazione dell'ideale nazista potessero essere ingredienti fondamentali in persone già pronte a tutto, sicure in più di non dover rispondere a nessuno dei propri misfatti.
Oggi il faro commemorativo di Marzabotto recita quest'epigrafe del poeta Salvatore Quasimodo: Questa è memoria di sangue / di fuoco, di martirio / del più vile sterminio di popolo / voluto dai nazisti di von Kesselring / e dai loro soldati di ventura / dell'ultima servitù di Salò / per ritorcere azioni di guerra partigiana./ […] / La loro morte copre uno spazio immenso, / in esso uomini d'ogni terra / non dimenticano Marzabotto, / il suo feroce evo / di barbarie contemporanea.
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