Miklós Radnóti (Budapest, 5 maggio 1909 – Abda, 10 novembre 1944) è stato un poeta ungherese.
Studiò filosofia all’Università di Szeged. Ebreo, non poté esercitare la professione d’insegnante; fu perseguitato, rinchiuso in vari campi di concentramento in Ungheria e in Serbia e infine fucilato. Nei suoi vestiti, rintracciati in una fossa comune, fu trovato il suo ultimo taccuino di versi.
Nella contemporanea poesia ungherese, Radnóti va collocato tra le voci nuove della corrente di ispirazione popolare, manifestatasi a partire degli anni ’30 del secolo scorso, e precisamente tra i poeti la cui tematica è più legata ai problemi e alle trasformazioni delle città.
Lettera alla sposa
Nei mondi taciturni della profondità muta
il silenzio urla nel mio orecchio, lancio un grido,
ma non può rispondermi nessuno dalla distante
Serbia svenuta in guerra
e tu sei lontana. La tua voce intreccia il mio sogno -
e di giorno la ritrovo di nuovo nel mio cuore-
dunque taccio, mentre mi ronzano attorno ritte
tante felci orgogliose dal tocco fresco.
Non so più quando potrò vederti di nuovo,
tu che eri certa e pesante come il salmo,
e bella come la luce, bella come l’ombra,
colei che ritroverei anche da cieco e muto,
ora ti nascondi nel paesaggio e affiori dall’interno
nei miei occhi, è così che ti proietta la mente;
eri realtà, e sei diventata di nuovo sogno, ricadendo nel pozzo dell’adolescenza
ti interrogo geloso, mi ami?
Un giorno alla fine della mia giovinezza
sarai la mia sposa, spero di nuovo-
torno in me,
so che lo sei. Sposa e amica-
solo sei lontana. Oltre tre confini selvaggi.
E sta già arrivando l’autunno. Anche l’autunno mi dimentica qui?
Dei nostri baci il ricordo è più acuto;
avevo creduto nei miracoli e ho dimenticato i loro giorni,
squadre di bombardieri sfilano sopra di me;
stavo ammirando nel cielo l’azzurro dei tuoi occhi,
ma s’è annuvolato, e le bombe in alto dagli aerei
avevano voglia di precipitare. Vivo contro di loro-
e sono prigioniero. Ho ponderato tutto quello in cui spero,
ciò nonostante so che ti ritroverò,
ho percorso per te la lunghezza interminabile dell’anima-,
e strade di paesi; se serve con una magia attraverserò
braci di porpora, fiamme che precipitano, ma tornerò;
se serve sarò coriaceo, come il callo sull’albero,
mi tranquillizza la calma degli uomini selvaggi
che vivono nei guai e in pericolo costante,
aspirando alle armi e al potere,
e come un’onda fredda
mi cade addosso il buon senso del 2 x 2.
Lager Heideman sulle montagne di Zagubica, 1944
Radice
Nella radice guizza la forza,
beve la pioggia, vive di terra
e il suo sogno è bianco, di neve.
Di sotto terra urge alla superficie,
si arrampica ed è furba,
ha le braccia come funi.
Sulle sue braccia dorme il verme,
ai piedi della radice siede il verme,
il mondo si vermifica.
Ma la radice continua a vivere sotterra,
non si cura del mondo,
solo dei suoi rami frondosi.
Lei li ammira, li nutre,
sapori buoni gli invia,
sapori dolci, celestiali.
Sono anch’io una radice, adesso,
vivo tra vermi, io,
e qui preparo questa poesia.
Ero fiore, sono diventato radice,
buia e pesante la terra su di me,
la mia sorte è compiuta,
una sega piange sulla mia testa.
(Lager Heideman, Zagubica, 8 agosto 1944)
Lunedì sera
La paura ecco molte volte tocca il cuore
E a volte per te il mondo è solo una lontana
notizia;
conservano la tua infanzia i vecchi alberi
come un ricordo, sempre più antico.
Tra mattine sospette e sere funeste,
tra guerre hai vissuto metà della tua vita,
e anche adesso ti scintilla addosso l’ordine
sulla punta delle baionette che ti spianano
contro.
Nei tuoi sogni ancora compare il paesaggio,
la patria delle tue poesie, dove la libertà
furtiva attraversa
i prati, e la mattina, se ti svegli, porta con te
il suo profumo.
A una nuova guerra si volge il mondo, una
nuvola
affamata divora il tenero azzurro del cielo,
e come si fa buia così, per te tremando, ti
abbraccia e piange
la tua giovane moglie.
Martedì sera
Quietamente dormo, ormai,
e dietro il mio lavoro lentamente mi sposto;
il gas, la macchina, la bomba si preparano
contro di me,
e non riesco ad aver paura, e a piangere
neanche,
quindi vivo indurito come, tra le fredde
montagne,
i costruttori di strade
che, se la loro leggera abitazione
invecchiata gli crolla addosso,
ne costruiscono un’altra e intanto sulle
schegge
odorose profondamente dormono
e ogni mattina immergono il viso
in un ruscello lucido e gelido.
Vivo alto e scruto: tutt’intorno
si annuvolano i cieli.
Come sulla poppa di una nave nell’uragano,
alla luce dei lampi,
grida il gabbiere se crede di scorgere
la riva, così io pure credo di scorgere rive
pure e
- anima!
grido anch’io a voce bianca.
E alla mia voce si accende
E la mia voce porta con sé, lontano,
la fresca stella, e il fresco vento della sera.
Stanco pomeriggio
Dalla finestra entra una vespa in agonìa,
la mia donna parla nel sonno,
sull’orlo delle nuvole abbrunate un tenero vento
soffia bianche crespe.
Di che cosa posso parlare? Verrà l’inverno,
verrà la guerra;
spezzato giacerò e non mi vedrà nessuno;
nella mia bocca nei miei occhi entrerà una
terra verminosa
e il mio corpo sarà trafitto dalle radici.
Pomeriggio cullante, dammi quiete,
mi sdraio anch’io, lavorerò, più tardi.
Si appende sui cespugli, il tuo splendido sole,
e la sera discende sulle colline.
Hanno ucciso una nuvola, gocciola sul cielo
il suo sangue,
e giù, sui cespi delle foglie roventi,
seggono chicchi gialli odor di vino.
Si fa sera
Sul cielo sdrucciolevole il sole cala,
presto lungo la strada arriverà la sera.
L’acuminata luna ne spiava l’annuncio:
piccole nebbie cadono.
E si sveglia la siepe, si impiglia allo stanco viandante
e si gira la sera tra i rami degli alberi,
brusisce incessante mentre si fabbricano
queste righe
chinandosi le une sulle altre.
Nella mia stanza muta terrorizzato scatta uno scoiattolo
e corre qui, su due esametri giambici.
Dal muro alla finestra – un attimo marrone –
e sparisce, senza lasciare traccia.
Con esso è sparita la fuggevole pace;
taciturni insetti
strisciano ora su prati lontani
e lentamente divorano i morti
che giacciono in una fila infinita.
Su, cammina, condannato a morte!
Fra i cespugli si sono nascosti il vento e un gatto,
la fila buia degli alberi ti precipita addosso
e bianca di terrore e gobba
si è fatta la tua strada.
E tu raggrinzati, foglia d’autunno!
Fatti rugoso, terribile mondo!
Dai cieli sibili freddi calano
e sugli steli di ruggine intirizziti
l’ombra delle oche selvatiche.
Poeta, adesso tu vivi puro
come chi vive sui nevai frustati
dagli uragani, e senza peccato
come sulle vecchie pie immagini
i piccolissimi bambini Gesù.
E così duro, anche, devi vivere, come i grandi lupi
che sanguinano da inguaribili ferite.
Cielo velato (schiumoso)
In un cielo velato rotola la luna
mi meraviglio d’ essere vivo
Premurosa la morte cerca attenta
e quello che trova é tutto così bianco…
Di tanto in tanto quest’anno si guarda intorno ed urla
Si guarda intorno e poi, di colpo, si ferma impietrito
Che razza d’autunno mi si prospetta di nuovo e
che dolore mi verrà dall’ottuso inverno!
Sanguina il bosco e nel vortice
del tempo sanguina ogni ora,
Grandi e tenebrosi numeri
scarabocchia il vento sulla neve.
Comprendo anche questo, anche quello
sento la pesantezza dell’aria,
e un silenzio tiepido, pieno di rumori ovattati,
come prima di nascere
Mi fermo qui, ai piedi di un albero,
il suo fogliame si agita, con rabbia.
Allunga un ramo. Mi strangola?
Non sono un vigliacco, nemmeno un debole
Soltanto stanco. Sono Silenzioso. E anche il ramo
muto, fruga nei miei capelli tremando di paura
Dimenticare bisognerebbe ma io
non dimentico mai niente
Le nuvole scivolano sulla luna, nel cielo
lasciano un veleno acido e verde scuro.
Mi arrotolo una sigaretta,
lentamente; con cura. Sono vivo.
Profeta
È quello che credi. Conosco i tuoi nuovi versi.
E’ la rabbia che ti tiene in vita.
L’ira apparenta poeti e profeti, è nutrimento per il popolo,
è bevanda! Potrebbe viverne chi vuole finché arriva
il paese promesso da quel giovane allievo rabbino,
che ha obbedito alla Legge e alle nostre parole.
Vieni con me ad annunciare che si sta avvicinando l’ora,
già sta per nascere il paese. Mi chiedo: qual è lo scopo
del Signore? Guarda, è quello il paese. Mettiamoci in cammino, vieni,
uniamo il popolo, porta tua moglie e comincia a tagliare i bastoni.
Il bastone è un buon compagno per l’errante, guarda,
dammi quello, che sia il mio, perché lo preferisco se è nodoso.
Care vecchie carceri
Oh, la calma delle carceri vecchie,
le antiche sofferenze e la morte,
la morte poetica, immagini nobili ed eroiche,
il discorso misurato che trova orecchie accorte -
quanto sono lontani! Ora parte per vie ignote
chi osa muoversi. si fa nebbia all’orizzonte.
Come un coccio di forme crepate,
la realtà si deforma ed aspetta ansimante
di gettare all’aria ogni sua scheggia.
Come farà colui che finché vive,
con le sue belle forme si esprime
per insegnare l’arte dell’esistenza.
E insegnerebbe ancora – ma tutto è crollato.
Guarda fisso nel vuoto. Non può fare altro.
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