sabato 6 agosto 2011

Fuori gli ebrei dalla Scala

Nel dicembre del 1938 il prestigioso teatro chiuse le porte agli "spettatori non ariani". E per protesta il maestro Erich Kleiber si dimise


Quella volta doveva dirigere proprio il Fidelio, un'opera che condannava la prepotenza e i regimi illiberali. Ed era stato chiamato dal Teatro alla Scala, istituzione musicale tra le più prestigiose e simbolo d'una borghesia illuminata. Eppure il provvedimento adottato dalla soprintendenza scaligera era inequivocabile: gli ebrei, solo gli ebrei, dovevano rinunciare agli abbonamenti già acquistati per la stagione lirica. A Erich Kleiber, celebre direttore d'orchestra, apparve un'ingiustizia intollerabile.
Nel dicembre del 1938 la legislazione antisemita era già avviata, ma la decisione di allontanare gli spettatori "non ariani" andava perfino oltre le disposizioni di Bottai. Un'interpretazione zelante dello spirito razzista. «Come cristiano e come musicista non posso continuare a collaborare», scrisse infuriato Kleiber alla direzione del teatro. «La musica è fatta per tutti, come il sole e l'aria. È una fonte di consolazione necessaria, soprattutto in tempi così duri. Negarla a qualsiasi essere umano, per di più per ragioni razziali o religiose, è inammissibile». Il contratto fu immediatamente rescisso, le prove interrotte.
Quella scaligera appariva un'offesa dal carattere persecutorio, un ulteriore sfregio, paragonabile ai cartelli esposti sulle vetrine di alcuni negozi, "solo pubblico ariano", "no jews wanted". Una storia antisemita forse minore ma assai significativa, che per settant'anni è rimasta nascosta sotto la grande vergogna delle leggi razziali (di cui ricorre l'anniversario), scoperta ora da Annalisa Capristo che vi ha dedicato un accurato saggio su Quaderni Storici, quasi interamente ricostruito sulla stampa internazionale (Dedalo editore, fascicolo 67, gennaio-giugno 2008).
Non era la prima volta che Kleiber si imbatteva nell'arroganza della tirannide, uscendone sempre da hombre vertical. Raffinato interprete di Alban Berg, nel 1934 s'era dimesso dalla Staatsoper di Berlino per le censure naziste su Lulu liquidata come "arte degenerata". Riparato intanto in Argentina, quattro anni più tardi, nel dicembre, viene chiamato dalla Scala a dirigere il Fidelio, in programma per il marzo del 1939. Il caso vuole che proprio quell'unica opera teatrale di Beethoven sia una metafora sul potere e sulla libertà, fin dal suo debutto avversato dai soldati di Napoleone che avevano occupato Vienna. Ma nell'Italia dei tardi anni Trenta si fa finta di vivere in democrazia, e non importa se a settembre sono già partiti i primi provvedimenti contro gli ebrei, che nel novembre divengono definitivi. È "in nome della difesa della razza italiana" che il maestro Vittore Veneziani, direttore del coro scaligero, deve abbandonare la prestigiosa istituzione. Evidentemente non basta.
In dicembre il più importante teatro musicale italiano, allora diretto da Jenner Mataloni, decide di mettere al bando non solo gli artisti ma anche il pubblico ebreo: gli spettatori non ariani sono pregati di riconsegnare gli abbonamenti, il risarcimento è garantito. «A deroga di quanto annunciato circa la non rimborsabilità dei versamenti eseguiti», recita asettico l'annuncio sul Corriere della Sera del 9 dicembre, «nella giornata di domenica 11, dalle ore 10 alle ore 12,30, la biglietteria rimborserà i versamenti effettuati dai prenotatori appartenenti alla razza ebraica». Un provvedimento molto duro, di cui non si conosce l'origine, né se fu adottato anche da altri enti musicali. L'unico elemento certo è che l'umiliante trafila domenicale degli ebrei davanti al botteghino ha l'effetto di disgustare Kleiber - lui soltanto, si potrebbe aggiungere, nell'aristocrazia musicale che frequenta piazza della Scala.
Tra il 30 e il 31 dicembre la notizia rimbalza sulla grande stampa internazionale. "Kleiber condanna la Milano razzista", titola il Washington Post. "Messi al bando gli spettatori ebrei", incalza il New York Times. È uno scandalo internazionale. Il teatro si difende con veemenza, accusando il maestro di scorrettezza e i suoi argomenti "absurd racial reasons". Negare gli spettacoli agli ebrei? «Non è vero», sostiene la direzione scaligera. «Chi vuole, può acquistare il biglietto per la singola rappresentazione». Una replica escogitata per smorzare il clamore. E l'odiosa misura sugli abbonamenti? Quella no, non può essere smentita.
In Italia, l'unica voce dissidente compare sull'Osservatore Romano, l'organo ufficiale della Santa Sede, che aveva già manifestato il proprio disappunto sul divieto dei matrimoni misti, grave vulnus inferto al Concordato. Un corsivo anonimo rimarca con sottigliezza gli effetti del provvedimento - scoraggiare tutti gli ebrei dal frequentare luoghi di pubblico ritrovo - e soprattutto la sua illegittimità, "essendo profondamente in contrasto con lo spirito della campagna in difesa della razza". Il volenteroso corsivista forse ignora o finge di ignorare le durissime misure già adottate da Bottai, appellandosi invece alle parole da lui pronunciate nell'ottobre: separare non significa né perseguitare né mortificare. Quelle scaligere appaiono in sostanza all'Osservatore Romano "esasperazioni razzistiche", illecite e del tutto inutili. Un "esoso e umiliante ostracismo", profondamente ingiusto e contrario alla solidarietà civile e alla carità cristiana. «Pur non essendo un rifiuto incondizionato della legislazione antiebraica», è il commento di Annalisa Capristo, «è comunque un pronunciamento molto netto contro la diffusione del fanatismo razzista nella società italiana». La quale assiste placida al protrarsi dell'ingiuria.
Rappresentativa dello scenario nazionale è la tartufesca protesta del senatore Filippo Crispolti, un marchese esponente del clerico-fascismo, il quale non si fa scrupolo di votare a favore delle leggi contro gli ebrei. Durante una seduta a Palazzo Madama, proprio in quei giorni di dicembre, si raccomanda che "i decreti non assumano l'aspetto di qualche persecuzione", ma sempre in totale sintonia con il regime. Un antisemitismo perbenista che «cercava di conciliare la coscienza (chiamiamola così) di cattolico ortodosso coi sentimenti italiani (chiamiamoli così)» (la felice sintesi è di Vittorio Foa che conosceva bene "l'ottuagenario razzista").
Nessuno tra i più insigni esponenti della cultura musicale (o non musicale) italiana pensò di affiancare Kleiber nella protesta. Pochissime del resto furono le voci di dissenso contro la discriminazione degli ebrei. La Capristo evoca il celebre caso di Toscanini, intercettato telefonicamente dal regime il 3 settembre del ‘38 - «Ormai non c'è più limite… I bambini non devono andare a scuola. Ma questa è roba dal Medio Evo…» - e per questi giudizi punito da Mussolini con il ritiro del passaporto. Tra gli stranieri, è nota la protesta di Arthur Rubinstein, che sempre nel settembre del 1938, cancellò la sua tournée italiana, restituendo l'onorificenza di cavaliere della Corona d'Italia con un telegramma al duce firmato significativamente "pianiste juif".
Kleiber non era ebreo, ma non fa alcuna differenza. Da "cristiano" e da "artista" - come scrive nella sua lettera di dimissioni - non voleva essere complice delle infamie del fascismo. Dalla Costa Azzurra, dove si rifugiò dopo il gran rifiuto, seguì la «tempesta» scaturita dal suo gesto (tale la definisce in una missiva, illudendosi sulla capacità d'indignazione degli italiani). Alla Scala lo rimpiazzarono serenamente con il maestro tedesco Wilhelm Sieben. Il Fidelio andrà regolarmente in scena nel marzo 1939, tra il battimani d'una platea estasiata. 

Nessun commento:

Posta un commento