Edith Bruck, classe 1932, scrittrice ungherese di famiglia ebrea, ha vissuto in prima persona gli effetti della folle mania persecutrice della seconda guerra mondiale. Sopravvissuta ad Auschwitz, Dachau e non solo, giunge dopo anni in Italia imparando la nostra lingua.
In “Quanta stella c’è nel cielo” (titolo tratto da un verso di un poeta connazionale Sándor Petòfi), con cui si è aggiudicata il Premio letterario della città di Bari nel 2009, ci presenta la storia di Anita, quindicenne bella, speranzosa, un po’ bambina e un po’ donna, che non ha voglia di dimenticare la crudele realtà del campo di concentramento.
Tutto ha inizio con un lungo viaggio in un treno maleodorante, in piedi, i compagnia di Eli, cognato di sua zia Monika presso cui andrà a vivere a Zvìkovec (territorio ceco occupato dai nazisti).
Anita è appena fuggita dal suo paese natìo in Ungheria.
Eli, incaricato di custodirla fino a destinazione, con scuse varie la attrae a sé, quasi fosse un oggetto del piacere. Anita è confusa e disgustata da questo gioco ma allo stesso tempo incuriosita dalle nuove sensazioni. Che si tratti di amore? Per quanto si sforzi di far parlare il giovane su qualsiasi argomento, egli è sempre restìo, inerte, pronuncia poche frasi spezzate e sgrammaticate in ceco.
Arrivati in quella che sarà la sua nuova casa, per una nuova vita, Anita cerca somiglianze, cerca conforto specie in quella sorella del padre che invece non ha voglia di ascoltare le opinioni, i ricordi della nipote.
I suoi zii hanno un bambino di pochi mesi, Robyka, unica consolazione per Anita e unico suo interlocutore. Eli di giorno è distante, indifferente, ma di notte si infila prepotentemente nel letto della fanciulla, finchè un giorno lei scopre di aspettare un bambino, un bambino che ovviamente Eli non vuole. La conduce a Praga con la scusa di mostrarle la città che desiderava visitare. In realtà la porta da un medico per farla abortire. Ma chi sopravvive ad uno sterminio come può acconsentire ad uccidere?
Una storia che fa luce sui sentimenti più riposti che molte volte non siamo in grado –o non abbiamo il coraggio- di esternare, sui ricordi più vivi, sulle esigenze più evidenti, come la preoccupazione di Anita di perdere la propria identità linguistica e che d’altro canto sottolinea le diverse reazioni psico-emotive ad un’esperienza atroce.
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