giovedì 20 ottobre 2011

Il lottatore rosso che sfidò il nazismo

La storia di Seelenbinder, dai Giochi al lager



Germania, è il 24 ottobre del 1944. Nel campo di concentramento di Brandenburg-Görden, alle porte di Berlino, un gruppo di uomini viene condotto alla morte. I prigionieri camminano in fila, con le mani legate dietro alla schiena. Bisogna fare in fretta, perché il boia sta aspettando, e la lista si profila lunga. Improvvisamente, però, uno di loro alza la testa. Ha i capelli neri, le guance magrissime. Pesa 60 chili, ma sotto la divisa a strisce ancora si indovina ciò che resta di un'antica muscolatura possente. Si volta verso le celle, e grida: «Compagni, oggi noi saremo ammazzati. Ma voi resisterete. Morte a Hitler: salutateci l'Armata rossa». Il suo nome è Werner Seelenbinder, ha 40 anni, ed è stato uno dei più forti campioni di lotta greco-romana dell'intera Europa. Appeso sul petto, porta cucito il triangolo rosso. Significa: deportato politico, militante comunista. Un marchio che mostra con orgoglio. Durante il processo, qualche mese prima, il giudice lo ha violentemente insultato. Poi, rivolgendosi ai giurati, è esploso: «Guardatelo, è il nostro pericolo pubblico numero uno». Per il regime, ha sempre rappresentato una minaccia. Lo chiamano «Cane rosso». Il suo è un palmares invidiabile e per questo fa paura. Vincitore dei Giochi olimpici operai: a Francoforte, nel 1925, e a Mosca, tre anni più tardi. E ancora, due medaglie di bronzo ai campionati europei, e sei ori in Germania. Nel 1936, decide di iscriversi alle Olimpiadi di Berlino: la sua partecipazione è un solitario gesto di sfida. Il più plateale e, probabilmente, anche il meno propizio. Annuncia agli amici: «Hitler, lo saluterò a modo mio. Se conquisto il podio, farà bene a non presentarsi». Gli va male, arriva quarto. Ma i suoi propositi sono ben noti a tutti: nessuno, neppure gli atleti ebrei, o gli americani di colore, hanno osato tanto. Il Fuhrer non se ne dimenticherà: mentre la storia, a quanto pare, sì. Oggi, quasi nulla sembra essere rimasto del suo passaggio. Neppure a Berlino, dove gran parte delle vecchie targhe commemorative sono scomparse nel 1989, con la caduta del muro. Ne sopravvivono pochissime. Una di queste recita: «In memoria di Werner Seelenbinder, lottatore olimpico, che si batté contro la guerra e il fascismo». Si trova a Bezirk Neukölln, nella periferia sud, alle porte di un piccolo stadio: l'unico che i suoi connazionali hanno voluto dedicargli. Ed è proprio qui, all'ombra delle basse gradinate e dei palazzoni popolari, che Seelenbinder mosse i primi passi della sua folgorante carriera sportiva. Correvano gli anni Venti: Werner è un semplice ragazzotto di provincia. Alto, grosso, mani callose, collo possente. Viene da Stettino, nella Pomerania occidentale. Suo padre era muratore, lui un po' di tutto: operaio, facchino, falegname. E' poco più che diciottenne, quando si iscrive all'Arbeiterathletenbund, un'associazione atletica proletaria, legata ai partiti di sinistra. A 21 anni, arrivano i primi successi. Nessuno, sul ring, riesce a tenergli testa. Lui, però, continua a lavorare e ai compagni che temono un suo ritiro dall'officina, risponde: «Non preoccupatevi, resterò sempre quello che sono». Nel 1928, ottiene la tessera del Kpd, il partito comunista tedesco. Ma la situazione, attorno a lui, si fa sempre più difficile: crisi economica, conflitti sociali, scioperi, scontri armati e tentativi di golpe. La debole repubblica di Weimar è più vacillante che mai. Il 30 gennaio del 1933, Hitler ottiene l'incarico di formare un nuovo governo. Immediatamente, tutte le organizzazioni operaie vengono sciolte. Migliaia di attivisti finiscono in carcere. Altri passano alla clandestinità. Seelenbinder vorrebbe essere tra questi ma al momento gli viene imposto di soprassedere. Ha 29 anni, è celebre, osannato e conosciutissimo. Può continuare sulla sua strada: il regime non si azzarderà a colpirlo. Passano pochi mesi e Werner conquista il suo primo titolo di campione di Germania. Le finali si svolgono a Dortmund, in uno stadio stracolmo e rumoreggiante di applausi. Giunge il momento delle premiazioni: il pubblico si alza in piedi, col braccio teso, mentre l'orchestra, ai piedi del palco, esegue l'inno nazista. Seelenbinder è l'unico a non cantare: se ne resta fermo, con lo sguardo fisso, e le mani significativamente conserte dietro alla schiena. Scriverà Walter Radetz, il suo biografo: «Qualcuno, quella sera, gli donò un grosso mazzo di rose rosse. Lui le alzò in alto, di fronte alla platea. Poi ne prese alcune e le distribuì al secondo e al terzo classificato. I due poveracci erano troppo terrorizzati: non ebbero il coraggio di rifiutare». Il giorno seguente, scoppia il caos. La stampa nazista è furiosa: Werner viene arrestato, interrogato e rinchiuso nella Columbia-Haus, una delle prime carceri della Gestapo. Vi resterà dieci giorni. Alla reclusione, si aggiunge poi un lungo periodo di squalifica sportiva: sedici mesi. Il trofeo, però, nessuno può levarglielo. Scontata la pena, Seelenbinder incomincia a viaggiare: lo farà assiduamente, sia prima che dopo le Olimpiadi. La sua presenza è richiestissima, soprattutto all'estero. Lui si adegua di buon grado, va da un amico e fa modificare tutti i fondi delle sue valige. Vi nasconde qualunque cosa: documenti falsi, stampa sovversiva, volantini, manifesti, valuta straniera. Ogni gara, una vittoria. Ogni vittoria, un nuovo carico. E' il Soccorso rosso internazionale: una delle ultime ancore di salvezza, di fronte all'irresistibile avanzata del regime. Ma a Werner non basta. Nel 1938, inizia a stringere contatti con i gruppi della resistenza illegale. Aderirà a quello di Robert Uhrig, un operaio delle officine Osram di Berlino. L'organizzazione è ben radicata e conta varie centinaia di militanti, molti dei quali comunisti. Seelenbinder si mobilita fin da subito per procurar loro denaro e rifugi: un'impresa rischiosa e comunque destinata al fallimento. E' il 4 febbraio del 1942, quando, come un fulmine, scatta il blitz delle Ss. Gli attivisti sono quasi tutti arrestati: con loro c'è anche Werner. Lo portano nel carcere di Alexanderplatz, e quindi a Großbeeren, uno dei più duri lager della Prussia centrale. Viene picchiato e torturato. La polizia non gli dà tregua: vuole nomi, indirizzi, descrizioni dettagliate. Lui, però, non parla. Un giorno, preso dallo sconforto, sussurra a un compagno: «Se mai riuscirai a tornare a casa, toccherà a te raccontare ciò che abbiamo vissuto. Devi dire tutta la verità, soprattutto ai giovani. Solo così, forse, non si ripeterà più». L'ultima lettera è per suo padre, il vecchio muratore di Stettino: «Spero di essermi conquistato un posto in qualche cuore, tra gli amici e i compagni di sport. Questo pensiero mi rende molto orgoglioso: ti prometto che saprò essere forte». Così se ne va Werner Seelenbinder, che di mestiere faceva l'atleta.

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