giovedì 20 ottobre 2011

IL FARMACISTA DI AUSCHWITZ di Dieter Schlesak


Le memorie del boia

Dottor Fritz Klein di Zeiden: «Quando arrivavano ad Auschwitz dei trasporti, il compito dei medici era di identificare le persone inadatte o inabili al lavoro. Ciò riiguardava anche bambini, vecchi e malati. lo ho visto le camere a gas ad Auschwitz e sapevo che coloro che selezionavo dovevano finirvi dentro. Ma ho sempre agito unicamente in base ai comandi. Tutti i comandi erano impartiti solo oralmente. [ ... ] lo non ho mai protestato per il fatto che degli esseri umani fossero spediti nelle camere a gas, benché non fossi d’accordo. Se uno è nell’esercito, non può certo protestare.

Prendere parte a quei défilé di sicuro non era un divertimento, perché sapevo che le persone che selezionavo finivano nelle camere a gas. Le donne rimaste incinte nel lager, e così divenute inabili al lavoro, furono anch’esse selezionate in successive ispezioni».

Klein, condannato a morte a Bergen-Belsen da una corte britannica, fu impiccato il 13 dicembre 1945 a Haameln. La sua ultima foto: in maniche di camicia. Magro e assente. Già morto da vivo.

Mentre saliva la scala, si era messo sul volto una maschera antigas. Una volta giunto in cima alla scala, aprì un coperchio di forma tonda e rovesciò il contenuto della lattina nell’apertura. Sentii chiaramente il tintinnio del barattolo che aveva urtato contro il muro, mentre se ne versava il contenuto. Al contempo vidi che dall’apertura saliva verso l’alto una sorta di nuvola nerastra. Se quello fosse il gas, non sono in grado di dirlo. In ogni caso ho visto benissimo che versava un solo barattolo. Quando il graduato delle ss richiuse nuovamente il coperchio, dalla stanza si levarono grida indescrivibili. Non posso assolutamente descrivere le grida di quegli esseri umani. Posso solo dire che durarono otto, dieci minuti. E poi tutto fu silenzio».

Soldato delle ss Bock, al Processo Auschwitz: «Al di sopra di un gigantesco ammasso di cadaveri si poteva ancora vedere una nube bluastra. I cadaveri erano così avvinghiati gli uni agli altri che si faticava a capire a chi appartenessero gli arti e le varie parti del corpo. Ho visto per esempio che uno degli asfissiati dal gas aveva conficcato per alcuni centimetri il suo dito indice nella cavità oculare di un altro. Da qui si può valutare come sia stata indescrivibilmente spaventosa la lotta con la morte di queste persone. Una scena come questa non può essere descritta a parole. Io allora mi sono sentito così male che stavo quasi per vomitare».

Durante le mie ore di lavoro guardavo cosa facesse e ho visto che Capesius selezionava gli oggetti più preziosi e i pezzi di maggior pregio, li infilava nelle valigie di cuoio migliori e più tardi le portava via con sé. Una volta, improvvisamente si accorse che lo stavo osservando. Allora si voltò di scatto verso di me e mi disse pressappoco queste parole: “Prokop, dipende da te quanto a lungo ti resterà da vivere. Tu non hai visto nulla, se però avessi notato qualcosa, può capitarti prima del previsto ciò che ti aspetta in ogni caso”. Mi fu subito chiaro che, se avessi raccontato a qualcuno qualcosa di ciò che avevo visto, sarei stato perduto. Del resto noi dovevamo ripartire i medicinali in diverse stanze. In una di queste notai venticinque, quaranta valigie con migliaia di singoli denti strappati via e intere protesi. Questi denti provenivano da prigionieri uccisi nelle camere a gas, a cui insieme ai denti erano stati asportati anche pezzi di gengiva e di mandibola. Per questo motivo, a seguito della putrefazione, aveva cominciato a diffondersi un odore insopportabile».

Durante la carcerazione preventiva e poi anche più tardi, nel corso del processo, Capesius tentò a più riprese di ricostruire il corso della sua vita, di infondere luminosità alla sua cupezza, di abbellire il ricordo, dal momento che da tutto ciò dipendeva moltissimo: la sua libertà, la sua vita. Eppure, eccolo: non ha a disposizione alcun filo rosso, nessun arco, nessun nesso in grado di fornire senso. Naturalmente Capesius non prova neppure sentimenti di colpa o di rifiuto e di orrore per ciò che ha visto e a cui ha partecipato. Lui ha dovuto partecipare, e basta. Ricorda sempre e solamente il comando, l’ordine, il regolamento e le date, e i numeri, e il calendario. Rammenta solo dettagli burocratici univoci e comprensibili: per lui sono tutta la realtà.

La lingua di Dio
Lui, nel campo di concentramento di Buchenwald, aveva visto l’orrore delle montagne di cadaveri accatastati gli uni sugli altri. E anche lui si era salvato scrivendo un suo diario. Vi aveva descritto ogni cosa, come se sgravasse la sua anima da un carico di piombo. «Verso sera i moribondi e quelli che si ritenevano già morti furono accatastati gli uni sugli altri come per un rogo, come si impila la legna da ardere, un mucchio alto quasi quanto una torre. Una torre allucinante, che si muoveva e urlava. Ma quelle urla erano forse il loro ultimo grido.»
«È possibile trasformare tutto in bellezza … è possibile?»

«Sì», rispose Adam, «anch’io volevo precisamente questo, perché ero convinto che i morti non possono scomparire semplicemente così, ma, come dice l’immagine chassidica, esiste una porta e questa fossa fumante è davvero il ponte che conduce a Dio. Celan qui, nel suo Fuga della morte, ha trasformato in modo bellissimo queesto sterminio di massa in uno scampo; questi assassini, senza volerlo, senza saperlo in alcun modo, hanno prodotto un’enorme cesura storica, una frattura millenaria nel mondo che vediamo con gli occhi, e questo scampare a loro e alla storia indica anche una redenzione: il loro niente si rivela uno strumento storico, come il diavolo nel Faust.»

«Ci si chiede sempre e si continua a chiedere: dov’era Dio quando è accaduto questo? Tu ritieni che l’abbia saputo e abbia addirittura permesso questo rivolgimento radicale … ?»

«Sì, io preferisco chiamarlo l’Uno-Tutto, sempre giovane … Lui lo ha voluto, senza quest’Uno non può accadere assolutamente nulla e, se noi ne parliamo con il nostro linguaggio umano e la nostra miopia, diciamo sempre cose inadeguate … oltrepassa di gran lunga la nostra comprensione. Io ho udito là, nel campo di concentramento, i sopravvissuti alla loro morte e loro hanno vissuto “la tomba nell’aria” e la luce infinitamente chiara al di là del corpo e della storia cruenta, come i molti che ritornano oggi da casi di morte apparente, anche quelli sui campi di battaglia, persino i morti di Hiroshima, di cui sappiamo che hanno udito un messaggio fantastico, bello, inafferrabile: la morte è solo un transito, una liberazione per un mondo luminoso pieno d’amore, proprio come gli antichi saggi sapevano da moltissimo tempo e hanno tramandato, per esempio nel decimo libro della Repubblica di Platone o nei diversi Libri dei morti, e questi messaggi delle vittime erano possibili perché loro si erano ridestati dalla condizione di morti e potevano informarci al riguardo. Sì, e proprio questo mi dà la speranza che il loro dolore non sia stato vano, che i milioni non siano morti invano … E questo, proprio questo è bello! Questo è l’inimmaginabile, l’incomparabile, ciò che il linguaggio non sa dire; anche nel negativo, lo stesso crimine dei nazisti, che trafficavano con la “banalità” senza resti del povero corpo umano, come fosse “dimostrato” che l’uomo è un niente, è pura materialità, da demolire, da annientare a milioni riducendolo a montagne di capelli, di ossa … anzi, trasformandolo in cenere, annientando anche la morte: l’uomo è un numero, un esemplare privo di destino … altrimenti non è niente. Niente? Il campo di concentramento ha mostrato, prodotto, inaugurato esattamente il contrario: Dio, in effettti, in ebraico è il NIENTE. E la speranza? Non è assurdo pensare che essa acquisti terreno attraverso questo paradosso assoluto: ovvero che l’impensabile nella morte sia ora divenuto universale, anzi, storia? No, perché proprio l’indicibile, o l’assurdo, nel tentativo di dirlo diventa la verità!»

«E il linguaggio?»

«Su di esso scende un riflesso da quella luce. Innanziitutto là, nel campo della morte. In quella situazione particolare, in quella condizione così prossima alla morte per tutti, là il linguaggio si aprì ancora di più di quanto altrimenti fosse dicibile.» (…)

Tedesco io dico. E sono convinto che sia l’unica lingua che può colpire il centro … Non perché sia la mia madrelingua, no, ma per recuperare il dono perduto di parlare di Dio, perché certamente Dio a partire da Auschwitz si è ritratto dall’ambito dell’esperienza umana. E un ritorno dovrebbe provenire dall’idioma stesso della morte … Ma di fronte alle camere a gas non conta più nessun dogma di fede o proverbio consolatorio, per non dire poi la letteratura. Là, attraverso i morti, si era rivelato qualcosa di assolutamente incomparabile, che finora non si era mai dato su questa terra. Loro nelle camere a gas hanno vissuto l’esperienza di ciò su cui noi possiamo solo meditare e poi, del tutto conseguentemente, hanno pagato con la vita».

«Ma come ti è stato mai possibile scrivere in tedesco là, ad Auschwitz?»

Adam: “È comunque la mia madrelingua! lo l’ho difesa anche là. Anche nel campo di concentramento io non la odiavo come i miei compagni polacchi, russi, francesi. E scrivevo in tedesco. Tacere non era bene”.

Tremende complicità
Era impossibile impedire al bagliore notturno delle fiamme e all’inconfondibile odore dolciastro di dare notizia di ciò che avveniva ad Auschwitz. Ferrovieri raccontavano alla popolazione civile che ogni giorno venivano trasportate ad Auschwitz migliaia di persone, mentre la capienza del campo di concentramento non veniva ampliata di conseguenza. I poliziotti che accompagnavano i trasporti confermavano quelle notizie. Il risultato era che un oratore nazista nella città di Auschwitz, di fronte alla renitenza della maggior parte del pubblico, dovette capitolare. Nel lagBroad: “Di notte, anche a distanza di chilometri, si vedeva su Auschwitz un cielo colorato di rosso. Senza quei roghi giganteschi sarebbe stato impensabile far sparire l’enorme numero di morti deceduti nel lager e i cadaveri che provenivano dalle camere a gas. Per via del surriscaldamento, il camino del crematorio di Auschwitz presentava crepe vistose. Benché siano stati puniti draconianamente gli uomini di guardia ‘chiacchieroni’ e sia stata ascritta loro la colpa del fatto che il velo del segreto non fosse più così fitto come prima, per lo meno nelle immediate vicinanze e molte SS addirittura consideravano una vera e propria farsa, su cui ridere divertiti, l’indignazione della stampa tedesca sulle fosse di Katyn, contrapposte all’etica, alla morale, all’irreprensibile modo tedesco di condurre la guerra.

Adam: «È esistita anche la zona grigia e la corresponsaabilità ebraica. Ma ciò che è assolutamente innegabile è la corresponsabilità dei capi ebrei e degli judenrat, i Consiigli ebraici: senza il loro concorso, il genocidio non sarebbe stato possibile. CosÌ, per esempio a Berlino, l’arresto degli ebrei era esclusivamente nelle mani della polizia ebraica coordinata dal judenrat. E anche a livello locale le autorità ebraiche riconosciute furono sempre membri del Consiglio ebraico. Hannah Arendt nel suo libro La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme l’ha scritto: inndubbiamente il ruolo dei dirigenti ebraici nella distruzione del loro stesso popolo costituisce per gli ebrei il capitolo più cupo di tutta questa storia tenebrosa.

Eichmann stesso si stupì che non venisse mai fuori qualche resistenza, per non dire un sabotaggio, da parte di qualche normale impiegato e funzionario in Germania. Tutti partecipavano volontariamente e con molto zelo. E tutto funzionava, senza ostacoli, con il concorso delle autorità e delle organizzazioni ebraiche. E gli ebrei obbedivano alle ingiunzioni e si presentavano con il loro bagaglio come se, anziché andare alla morte, si andasse da qualche parte in ferie, insieme con tutta la famiglia.

Hannah Arendt: “Gli judenrat erano informati da Eichmann o dai suoi funzionari di quanti ebrei occorressero per ogni trasporto autorizzato ed erano loro a compilare la lista delle persone da deportare. E gli ebrei si lasciarono registrare, riempirono innumerevoli formulari, risposero a infiniti, dettagliati questionari sulle loro proprietà, cosicché il sequestro potesse avvenire senza complicazioni e poi si trovarono puntualmente ai punti di raccolta e salirono sui carri bestiame. I pochi che tentarono di nascondersi o di fuggire furono fatti rintracciare da particolari truppe di poliziotti ebraici”".

Eichmann vide soltanto che nessuno protestava, che ogni cosa funzionava, perché tutti «collaboravano».

Adam: «Era la chiara ossessione realistica, tipica delle masse burocratico-borghesi. Ma il peggio è che gli judenrat agivano così per salvare i notabili, dunque sé stessi. E, anzi, godevano della loro nuova potenza. Così il presidente del judenrat di Lodz, Chaim Rumkowski, se ne andava a spasso su una specie di carrozza, stampava carta moneta con la sua firma e francobolli con il suo ritratto, mentre le donne e i bambini, i lattanti e i vecchi del suo popolo diventavano cenere». (…)

Era tutta un’unica rete di complicità assassina, protezione e corrruzione. Accedere d’un sol colpo alla ricchezza e alla buona società era tutto, specialmente nel 1944 e alla fine. Mentre i più poveri tra i poveri, vecchi, donne e hambini venivano spediti nel gas, anzitutto dalla propria gente dei Consigli ebraici in tutta Europa. La stesso “barone” Freudiger ha calcolato una volta che almeno la metà delle vittime si sarebbe potuta salvare se non si fosssero seguite le istruzioni dello judenrat e si fosse scelta invece la via della fuga! Ma era lo stesso vertice dirigente degli ebrei a raccontare alla gente la favola del “trasferimento”, benché sapesse esattamente qual era la destinazione vera: il gas. È questa la più grande onta ebrea. E anche qui possono esservi solo orrore e vergogna.

Scienza e sterminio
Auschwitz, “il più grande laboratorio di genetica del mondo”, si trasforma nel vero paradiso della indagine biologico-ereditaria. Oggetti privilegiati di ricerca furono allora ebrei, gitani e gente con anomalie come “nani” o “siamesi”, ma soprattutto gemelli, in quanto la ricerca sui gemelli era il cavallo di battaglia di entrambi, tanto del maestro Verschuer, quanto dell’allievo Mengele.

Dottoressa Lingens: «L’asse Dahlem-Auschwitz. Sotto la direzione di Ottmar von Verschuer si rivelò l’ultima, letale conseguenza della ricerca e della scienza igienico-razziale, a cui nel nazionalsocialismo non erano posti liimiti. Verschuer – dal 1934 editore della rivista “Der Errbarzt” e dal 1936 biologo specialista nella Forschungssabteilung judenfrage del Reichinstitut fur Geschichte des Neuen Deutschlands, la Divisione di ricerca sulla questione ebraica dell’Istituto nazionale per la storia della nuova Germania – era considerato il corifeo scientifico nell’ambito della ricerca sui gemelli. Tornò a Berlino nel 1942 e succedette a Eugen Fischer, al suo pensionamento, alla direzione del KWI, il famoso Kaiser Wilhelm Institut, dopo che dal 1935 al 1942 aveva diretto il neofondato Istiituto per la biologia ereditaria e l’igiene della razza dell’università di Francoforte sul Meno. I buoni rapporti con il suo ex dottorando e assistente a Francoforte, il dottor Mengele, si dimostrarono particolarmente proficui per le ricerche di Verschuer: infatti, dopo che Mengele assunse servizio ad Auschwitz, il più vasto campo di sterminio nazista divenne “il principale laboratorio di ricerca del KWI per l’antropologia, la dottrina ereditaria e l’eugenetica” (anche il transilvano Nyiszli, ex studente dell’Istituto, divenne poi ad Auschwitz assistente del dottor Mengele!). (…)

Adam: «Ad Auschwitz a essere sempre in attività non erano solo i boia e i torturatori: erano attivissimi anche i medici. E non solo sulla banchina. Sono e restano loro i principali criminali. Auschwitz un’eccezione nello zoo umano, certo, doveva essere utilizzato, chissà quanto a lungo, come un gigantesco laboratorio per i loro esperiimenti sugli esseri umani».

Relazione del dottor Nyiszli su una dissezione di «persone deformi»: «Corrodemmo i cadaveri delle persone anormali con cloruro di calce, riunimmo le ossa ripulite in pacchetti e le inviammo all’Istituto di antropologia di Berlino-Dahlem. In tal modo il KWI di Dahlem venne in possesso di una gran quantità di “materiale” di notevole valore dal punto di vista delle patologie ereditarie: scheletri, teste di bambini, feti di aborti, testicoli, coppie di occhi, come. pure innumerevoli campioni di sangue e plasma. Così si fece della ricerca per il progresso della scienza che oggi si chiama genetica umana».

Religione e sterminio
Quando gli Stoffel gli chiesero se reputava giusto ammmazzare donne e bambini, Roland ripeté l’argomento: «Noi non possiamo permettere che crescano coloro che potrebbero vendicarsi!». Oppure: «Gli ebrei sono i nemici dell’umanità, non solo nostri!».

Roland a Innsbruck: «Sicuro, io sono religioso; ero anche, nevvero, insegnante di religione. Ma chi ha inchiodato sulla croce nostro Signore? Gli ebrei!».

«Insegnante di religione? Ad Auschwitz?»

«Sì, ero insegnante di religione nella scuola tedesca.»

«E hai anche assistito a queste scene di fucilazione al Muro Nero?»

«Sì, qualche volta. Uno doveva reggere, nevvero, diverse cose. E io ero capace di farlo.»

«E continuavi a essere insegnante di religione?»

«Sicuro. Nella scuola elementare tedesca. E lo facevo con convinzione. Perché nell’Antico Testamento si predica la religione ebraica: “lo sono il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe, che vi ha condotto fuori dall’Egittlo”. Nevvero? La Torà ebraica è proprio questo. E questa tradizione vive negli ebrei da tremila e più anni. E gli ebrei, nella misura in cui sono di fede mosaica, hanno ancora una religione adeguata … E i tedeschi non ne hanno nessuna … Ma creare una religione … per questo ci vuole una durezza mostruosa. E necessaria persino crudeltà. Perché bisogna essere intolleranti. Nessuna religione può essere tollerante … »

Gli chiesi se con ciò avesse in mente anche il nazismo, se anche il nazismo fosse stato una religione che forse intendeva riempire il vuoto seguito alla morte di Dio.

Roland: «Sì! E stato anche una sorta di religione!».

Il pianto dell’anima
Baila: « … Oioi, è un dulure, che non tace mai. E l’ho qui, nel mio petto, qui dentro, il grosso dulure, il sentimento, vorrei poter piangere, sempre piangere, ma non posso neanche questo, posso solo continuare a vivere così … e posso solo aspettare la morte … Non sono finita nella camera a gas, il buon Dio questo non l’ha voluto: io dovevo sopravvivere, dovevo tornare … ma per cosa? Qui nel ’46 non c’era più una ebrea, la nostra casa distrutta, ciò che avevo avuto, sparito. E i miei figli, la ragazza e il maschietto, dei bambini così buoni, non li ho più visti e nessuno ha saputo dirmi dove sono finiti, dove sono morti, i piccoli, loro hanno chiamato per l’ultima volta la loro mamma, e la mamma non c’era, era da un’altra parte, oioi. E quando fummo di nuovo a casa … è andata così, così. Ma noi eravamo kaputt, distrutti .. Noi abbiamo vissuto come macchine. Tutto è andato meccanicamennte, come da solo, io non ho più sentito nulla, perché noi eravamo completamente kaputt. E questo non ha più potuto ripararlo nessuno, mai più nessuno. A che serve lamentarsi? Questo è un dulure fino alla morte. Sì. Loro lo chiamano dolore e io dico sempre dulure … Quando da noi viene una festa, allora c’è di nuovo il dulure più grosso; sì, non va via, perché dei miei non c’è più nessuuno. Allora mi siedo sempre nella stanza e penso a com’era e a com’è oggi».

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