Berlino 1945 – fine dell’inferno.
Peter e io giocavamo tra le rovine…
Helga e Peter 1943 circa
Da “Il rogo di Berlino” Helga Schneider
Un pomeriggio piovoso, appena tornati dal rifugio dopo un attacco aereo pesantissimo, Peter mi trascina nella gelida sala da pranzo per farmi una comunicazione importante: “Lo sai che andremo nel bunker della Cancelleria? “. Sta lì, gambe divaricate, pugni sui fianchi e sguardo elettrizzato, in attesa della mia reazione.
” Chi è che andrebbe nel bunker? ” domando con scarso interesse.
“Tu e io! “.
” E perché dovremmo andarci? ” dico, non prendendolo troppo sul serio; ogni tanto si diverte a inventarsi delle fandonie solo per provocare una qualche reazione.
“Per mangiare le salsicce di fegato e vedere il Führer! ” esclama, agitato, calzoncini alla tirolese con bretelle, ciuffo ribelle sul naso insolente, pallore da tempo di guerra, sguardo deluso per le mie mancate grida di giubilo.
Lavandino nel bunker di Hitler – foto 1973 circa
Nel bunker – cassaforte dietro il letto di Hitler
Nel dicembre del 1944, mio fratello ed io, insieme a un gruppo di bambini e madri berlinesi, siamo stati “I piccoli ospiti” nel bunker di Adolf Hitler, che si trovava sotto la Nuova Cancelleria del Reich.
Null’altro che un’operazione propagandistica decisa dal ministro Joseph Goebbels, ma il ricordo di quella visita, la vista di Hitler e l’atmosfera claustrofobica ed angosciante di quel luogo sinistro, sarebbero rimasti indelebilmente incisi nella mia memoria.
Berlino, dicembre 1944
Ricomincio a sbirciare fuori dal finestrino. Dopo la vista dei cadaveri non vorrei più guardare, ma quel funesto spettacolo mi attira come una calamita. Per settimane non ci siamo mossi dalla Lothar-Bucher-Strasse, abitazione e rifugio, in una folle girandola di allarmi e cessati allarmi, di terrore e cessato terrore, così sento una necessità urgente e irreprimibile di capire che cosa sia successo altrove nel frattempo, ma ciò che vedo mi atterrisce. Ovunque giri lo sguardo, mi imbatto in tetri ruderi e cumuli di macerie senza fine. Poco dopo percorriamo un’intera strada in fiamme, mentre il cielo si è tinto di viola. Il bus si sposta bruscamente sulla sinistra e striscia lungo le traversine del tram per evitare che ci cadano addosso le facciate roventi delle case. La vettura si riempie di fumo e di un odore di incendio che secca la gola; fuori pioviggina cenere.
Proseguiamo. Nel bus sta crescendo l’agitazione.
Dappertutto si vedono rottami, tram rovesciati e crivellati come colabrodo; un magro cavallo tira un carretto carico di cadaveri.
Cadaveri, cadaveri, macerie ed edifici in fiamme: sembra che non ci sia nient’altro in questa città; nel bus pieno di bambini che si agitano e strillano di paura mi viene il fiato grosso dall’angoscia. Due di loro hanno accanto le madri, le quali però si preoccupano di tranquillizzare solo le proprie creature; il resto tocca a Marianne. Nel gran trambusto Peter si è svegliato e, guardandosi intorno attonito, decide di cercare rifugio dal suo disorientamento nel bavero del mio cappotto bisbigliando: “lo non ci vengo, voglio tornare a casa…”.
Stringo con un braccio le magre spalle di mio fratello e continuo a sbirciare fuori dal finestrino come ipnotizzata. In che mondo vivo? E che fine ha fatto quella città di cui Opa ogni tanto si compiace di decantare le passate meraviglie? Era una città splendida, viva, con milioni di abitanti che lavoravano, producevano e si organizzavano la vita con quel la perfezione di cui sono capaci i tedeschi. Una città ricca con strade sempre illuminate a giorno, vetrine fastose e gente elegante che passeggiava per il Kurfürstendamm o Unter den Linden. Gente che affollava i ristoranti, i caffè, i cinematografi, i teatri le sale da concerto. Gente che strepitava dentro a Palazzo Titania assistendo ai tanti avvenimenti sportivi. Gente che amava, che si sposava, aveva dei figli e li cresceva con sani princìpi. Una città moderna dotata di un’efficiente sotterranea e di un’altrettanto funzionale sopraelevata. Che cosa è successo per trasformare tutto in un immenso cimitero a cielo aperto?
Vicino alla Porta di Brandeburgo ci imbattiamo in un posto di blocco. Un gruppo di SS agita le palette. L’autista sbuffa: “Merda!”. Herr Klug è anziano e indossa un’uniforme logora, con toppe di pelle cucite ai gomiti. La sua nuca è bianca con la sfumatura alta e le esili spalle si curvano, stanche, sul grosso volante. Una SS si avvicina alla portiera, la spalanca bruscamente, si introduce nella vettura e grida: “Heil Hitler! Prego, documenti e lasciapassare! “. Marianne non si scompone. Si alza con calma e gli porge un plico. La SS lo esamina minuziosamente. E’ un uomo molto giovane dagli occhi così chiari che sembrano di ghiaccio. E’ un ragazzone alto che tocca con la testa il tetto del bus, fasciato dall’uniforme come se gli fosse stata cucita addosso. Nel bus è calato un preoccupato silenzio.
Peter alza la testa, fissa la SS, mormora: “lo non ci vengo”, e si rifugia di nuovo contro il mio bavero.
La SS è soddisfatta. Grida: “Tutto a posto!”, grida ” Heil Hitler!” e salta giù dalla vettura. “Maledetti!” sbotta Herr Klung.
“Per favore, tenga a freno la lingua!” lo riprende Marianne.
“Tenga a freno ’sti coglioni” ringhia l’autista, e rimette in moto.
Il bus riparte verso la Porta di Brandeburgo, che si staglia contro un cielo squamoso il cui innocente azzurro è stato sopraffatto dal rosso scarlatto degli incendi. Dopo pochi minuti ci fermiamo di nuovo: siamo arrivati.
Il video mostra le ultime immagini del bunker realizzate nel 1980
Berlino, inizio maggio 1945
Frau Bittner lo pregò di resistere. Appena all’esterno la situazione fosse stata più sicura, qualcuno sarebbe uscito per prendere l’acqua; ma lui non l’ascoltò. Si lasciò cadere dal letto facendosi venire le convulsioni, che durarono per circa una mezz’ora. Quando stette meglio la madre prese le taniche e salì le scale. Kurt si oppose: «Mamma, dove vai? Vuoi fare l’eroina? Torna giù da quella scala, piuttosto ci vado io!».
Ma lei era già uscita senza voltarsi indietro. Kurt rimproverò il fratellino, ma non servì. «Ho sete!»ribadì Egon, e non ci fu nulla da aggiungere. Rimanemmo in un silenzio imbarazzato e a un tratto realizzai che da circa un’ora non si sentivano più gli spari.
Frau Bittner era uscita da non oltre tre minuti e già era di ritorno. Posò le taniche, scivolò su una sedia, il volto bianco come farina. Herr Hammer si incuriosì. Si rizzò sulla branda, starnutì a ripetizione e domandò con la sua voce da raffreddato cronico: «Che cosa c’è, Frau Bittner, si sente male?».
Lei scosse il capo, afferrò al volo una forcina che stava cadendo insieme a una ciocca di capelli, fissò pensierosa la sua forcina e infine rispose, stranita: «La guerra è finita»
La frase ebbe l’effetto di una miccia. «Cosa?!» gridò Herr Hammer, e saltò d’un balzo dal suo giaciglio. «Dove l’ha sentito? Chi l’ha detto?».
«Lo stanno gridando fuori».
Opa era già in piedi e corse verso la radio. Tornò quasi subito, era raggiante: «Berlino ha firmato la resa. La guerra è finita!».
Ci fu un’esplosione di gioia, di giubilo, scorsero lacrime incredule. La fiamma della candela vacillava agitata, forse spaventata dall’insolito movimento dell’aria, e ricamava astrusi anelli di fumo. La guerra era finita!
Euforia, salti, baci, lacrime. Il vecchio che si urinava sempre addosso stavolta si urinò addosso per la commozione, Frau Mannheim, che non avevo mai visto sorridere, era così raggiante che esibiva il buco di tre denti mancanti. Herr Hammer starnutiva e piangeva. Peter piangeva perché non capiva il motivo di tanto trambusto. Egon piangeva e voleva l’acqua. Gudrun si era alzata dalla branda e piangeva ma non riusciva a parlare. Io avevo un gran nodo alla gola e andai ad abbracciare Opa. Fu un momento irripetibile.
Euforia, gioia incontenibile, folle sollievo. Ci si abbracciava. Si fraternizzava. Di colpo tutto fu cancellato: liti, cattiverie gratuite, grettezza e intolleranza, malignità e battute pesanti; le durezze arcigne, la mancanza di solidarietà, spesso di sensibilità, talvolta di umanità. Tutto superato, tutto giustificato. C’era la guerra, ora era finita. Poi la cantina non contenne più la nostra felicità e ci precipitammo sulla strada. La gente gridava: «La guerra è finita!». E ci corsero incontro delle persone, e furono nuovi abbracci e riso e pianto, mentre i cuori scoppiavano. La guerra era finita! Sentivo una grande, traboccante, incontenibile gioia. La matrigna mi abbracciò e mormorò, travolta dall’emozione: «Ora si metterà tutto a posto, vedrai», ma non capivo se parlava di se stessa, di me o del destino della Germania.
Continuava ad arrivare altra gente che gridava: «La guerra è finita! La guerra è finita! Hurrà!». Erano spettri ubriachi di gioia. La capitolazione ci aveva resi di nuovo esseri umani, sancendo il primo dei nostri diritti, quello alla speranza. La guerra era finita, la Germania nazista vinta e noi, oltre a essere sopravvissuti, sia pur macilenti, sporchi, affamati e assetati, eravamo di nuovo uomini. Ma come era Berlino quando finalmente le armi tacquero?
Era una distesa di rovine ardenti il cui riverbero rischiarava la notte sino a farla sembrare giorno. Un rogo sconfinato il cui ventre conteneva un residuo di umanità in condizioni catastrofiche. Le strade erano gremite di cadaveri il cui fetore si alzava verso il cielo; la prolungata mancanza di acqua aveva trasformato la città in una latrina a cielo aperto. Da molto tempo non c’era elettricità, né gas, né acqua, né riscaldamento, né alcuna distribuzione di viveri o medicinali; e le strutture sanitarie erano paralizzate. Infuriavano le malattie infettive, per cui pidocchi, cimici e ratti regnavano sovrani. Nessuno era andato più a scuola, nessuno lavorava. Dalle cantine, dai rifugi e dagli ingressi della sotterranea uscivano poveri spettri sudici e coperti di cenci, provati nell’organismo e nella mente. Erano tedeschi, i rappresentanti della razza superiore, secondo Adolf Hitler, della razza dominatrice. In realtà erano solo ombre.
Doveva essere un crepuscolo eroico quello che Goebbels aveva ipotizzato nell’eventualità di una sconfitta, ma la fine del Terzo Reich fu mesta, ingloriosa e miserabile.
Berlino distrutta – 1945
Io, piccola ospite del Führer
Helga Schneider
“Si può davvero definire Adolf Hitler ‘un essere umano’?”
Parte da una domanda semplice e impossibile questo breve, intensissimo romanzo, in cui Helga Schneider torna a scavare nella memoria per raccontare un altro tassello di quella drammatica storia del Novecento di cui è da sempre appassionata testimone.
Nell’ultimo inverno di guerra, in una Berlino ormai in fiamme, la piccola Helga, suo fratello Peter e alcuni altri bambini “privilegiati” vengono portati in visita nel bunker di Hitler. Per ventiquattr’ore si aggireranno come topini in trappola tra i corridoi di “quell’angusto dedalo di morte”, in attesa dell’incontro con il Fuhrer del Terzo Reich. In quell’ultima dimora dall’”architettura senza futuro”, pervasa da un odore nauseabondo di muffa e diesel, potranno finalmente mangiare un pasto completo, lavarsi i denti con il dentifricio e, con l’aiuto di una lampada al quarzo, riacquistare un aspetto sano. Il grande Fuhrer non potrebbe tollerare la vista di bambini emaciati, né l’idea di venire a contatto con una qualche malattia…
L’intensità di questo ricordo – già in parte evocato nel Rogo di Berlino – s’intreccia qui ad altri frammenti di vita privata, arrivando a comporre per brevi tratti un quadro piú ampio: all’esperienza allucinante del bunker si affianca l’estraneità di un padre costretto a combattere una guerra delirante, l’assenza di una madre che ha sacrificato tutto per la causa nazionalsocialista, l’insensibilità di una matrigna e di una zia che sino alla fine non si rassegneranno ad accettare la disfatta del Terzo Reich, né ad ammettere la spietata follia su cui è stato edificato un simile sogno di grandezza.
Con la consueta felicità narrativa, che unisce all’esattezza del dettaglio il calore della scrittura, Helga Schneider riesce ancora una volta a ricostruire con vivezza e con dolore il clima di quegli anni: l’enfasi sinistra dell’ascesa al potere, le aspirazioni di Hitler e dei suoi fedelissimi (primo fra tutti Goebbels), lo stato di crescente paura e disperazione della gente comune. Ne viene fuori un racconto bruciante, capace di ricostruire attraverso gli occhi inconsapevoli dell’autrice bambina le illusioni, lo spaesamento e le sconcertanti certezze di un intero popolo a cui, attraverso un uso capillare e spregiudicato della propaganda, fu negato sino all’ultimo anche “il diritto di pensare”.
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