«Mangiavamo la neve. Quello era il solo modo di nutrirci». Quando l' 11 aprile del 1945 gli uomini del generale Patton entrarono a Buchenwald, varcando finalmente le porte di un Lager nazista, quel che trovarono fu, assieme a 21.000 detenuti stremati, anche un migliaio di bambini. La maggior parte adolescenti, tutti comunque sotto i 17 anni. Molti invece davvero piccoli, fra i 6 e i 12 anni. I due in più tenera età ne avevano appena 4. Come mai i gerarchi, soliti eliminare subito i prigionieri più giovani - la "forza inerme" considerata un costo vivo - risparmiarono la vita a questo gruppo di ragazzini, tutti maschi? La risposta emerge dall' incrocio di nuovi documenti usciti dal grande archivio nazista di Bad Arolsen, in Germania, che un anno fa ha aperto ai ricercatori i suoi 26 chilometri di uffici e sotterranei in cui custodisce le carte del Terzo Reich. I bambini superstiti di Buchenwald erano esattamente 904. «Mangiavamo la neve», ricorda appunto uno di loro oggi, Sol Luri. Nei faldoni impolverati si scorrono i nomi di detenuti giovanissimi. Alcuni diventeranno celebri. Come il 15enne Elie Wiesel, immortalato assieme agli altri nella celebre immagine scattata dal fotografo americano Henry Miller quando gli Alleati irruppero nel Lager, che sarà scrittore e premio Nobel. O come Meir Lau, 7 anni, futuro rabbino capo di Tel Aviv. Oppure come Stefan Jerzy Zweig, 4 anni, il prigioniero più piccolo. Gli americani trovarono i ragazzini soprattutto in due blocchi, il numero 8 e il 66, altri nel 23 e nel 49. A proteggerli, nutrirli, scaldarli, furono un pugno di detenuti, anch' essi molto giovani, che si batterono con tutte le forze contro i comandanti per assicurare i bambini nei blocchi speciali, e non spedirli sui vagoni piombati destinati a mete terminali come Auschwitz. Le SS addirittura temevano di entrare in alcune parti del campo, dove si diceva girasse il tifo. Ora alcuni storici, per quegli ultimi mesi di guerra stanno configurando l' ipotesi di una vera e propria resistenza nei Lager. Un docente dell' Università del Michigan, Kenneth Waltzer, direttore del dipartimento di Studi ebraici, e selezionato dal Museo dell' Olocausto di Washington fra i primi 15 esperti incaricati di valutare i documenti su Buchenwald, sta studiando queste carte. «Nella nostra ricerca - dice Waltzer, di origine ebraica e che negli ultimi tre anni si è concentrato su una vicenda i cui file ha potuto avere in mano solo ora - abbiamo trovato qualcosa di unico: la storia di questi 904 bambini ancora vivi, in un campo di concentramento dove perirono più di 56.000 persone. A salvarli, un gruppo di prigionieri poco più grandi. E' quasi incredibile. Come è possibile che questi giovani detenuti fossero stati mantenuti in vita, quando la regola interna ai Lager voleva che venissero eliminati gli elementi non utilizzabili, a cui non poteva essere dato da mangiare perché non costituivano una 'forza lavoro' ? La nostra conclusione è che esistesse un vero e proprio network di prigionieri 'anziani' , in grado di agire in quella sorta di 'zona grigia' fra i comandanti e i detenuti, capace di barricare quei bambini. Non solo hanno dato loro rifugio, ma hanno impartito loro alcuni rudimentali principi scolastici, come se si trovassero davvero in classe». Il lavoro di scavo di Waltzer è un «work in progress» che entro l' anno diventerà un libro dal titolo "The rescue of children and youth at Buchenwald" (Il salvataggio dei bambini e dei giovani a Buchenwald). Nell' archivio di Bad Arolsen i segreti del Terzo Reich emergono non appena ci si addentra nelle carte sepolte da più di sessant' anni. Il blocco 66 ospitò, negli ultimi tre mesi prima della liberazione, centinaia di ragazzi. Su uno scaffale una serie di volumi di colore giallo intitolati "Verlegungen innerhalben der Blocks" (Trasferimenti dentro il blocco) svelano la vicenda di quella storica baracca. Le stanze putrescenti e nude, con i letti accatastati uno sull' altro, erano già piene di detenuti a metà gennaio 1945. Ne arrivarono di nuovi, tanti giovani, fino a febbraio. Elie Wiesel era già lì. Tra gli ultimi ci fu invece Meir Lau, piazzato al vicino blocco numero 8. I copiosi trasferimenti di bambini evacuati da Auschwitz (nei giorni 22, 23 e 26 gennaio), portarono il 25 e 26 gennaio a un travaso colossale al blocco 66. Entrarono prima in 170, poi 180, dopo altri 95, infine 77. Tutti ai numeri 8 e 66. I blocchi della salvezza. Nelle carte si leggono i nomi dei protagonisti della resistenza, i salvatori dei bambini. Impegnati in un braccio di ferro mortale, ai margini del campo c' erano due giovanissimi: l' ebreo ceco Antonin Kalina, di Praga, comunista, e il suo vice, il polacco Gustav Schiller, proveniente da Lvov, detto "Gustavo il rosso". Insieme riuscirono a salvare centinaia di vite. La lista comprende piccoli detenuti polacchi, ungheresi, cechi, slovacchi, romeni, lituani, alcuni russi e ucraini, qualche zingaro, un solo greco. Molti passarono poi per l' Italia, per essere assistiti, prima di andare in Palestina. La resistenza venne organizzata soprattutto al blocco 66, nella zona più profonda del campo, una baracca non disinfestata, dove non venivano fatti gli sfibranti appelli mattutini. Furono Kalina e Schiller a salvare da morte certa i due internati più piccoli, 4 anni, Josef Shleifstein e Stefan Jerzy Zweig, rifiutandosi di far evacuare la baracca il giorno prima della liberazione, il 10 aprile, quando le SS fecero marciare tutti verso l' uscita principale. Scrive infatti Elie Wiesel ne «La Notte» (editore Giuntina): «Così venimmo ammassati nella grande piazza centrale, in file di cinque, aspettando che si aprissero le porte». Ma all' improvviso Kalina ordinò di rompere le righe e di correre indietro alle baracche. «Al blocco 8 - spiega ora Waltzer - i leader si chiamavano Franz Leitner, comunista austriaco di Vienna, e Wilhelm Hammann, comunista tedesco di Hesse, il cui ruolo è già stato riconosciuto dallo Yad Vashem, il Museo dell' Olocausto di Gerusalemme. Al 49 il capo era invece Walter Sonntag, anch' egli poi onorato. Al 22 il comunista Emil Carlebach. E al blocco 23 c' erano Yaakow Werber, Eli Grinbaum e Jack Handelsman». Altri nomi stanno adesso venendo fuori. Il pomeriggio dell' 11 aprile, i soldati di Patton spezzarono i fili spinati, entrando nel campo. Una traccia di quelle ultime ore Zweig le ha lasciate nel suo romanzo, apparso poco tempo fa in Israele, dal titolo "Le lacrime non bastano". Il pianto amaro, però, è quello del rabbino Meir Lau. Fu accudito da un giovane russo di Rostov, di nome Fyodor, 18 anni, che gli regalò un cappello con paraorecchie, e nascose il piccolo Meir al blocco 8. «Fyodor rubava le patate per me, e mi cucinava una minestra calda», scrive nelle memorie del 2005, dal titolo "Non alzare le mani sul bambino". Lau ha passato una vita a cercarlo, «63 anni - dice - persino con appelli sul quotidiano Izvestija e tramite l' aiuto del Cremlino». Il mistero è stato risolto solo ora, grazie ai file ritrovati nell' archivio. C' erano almeno tre Fyodor al numero 8: uno di loro, si legge, era "Fyodor Michailicenko, nato nel 1927, prigioniero numero 35692, russo di Rostov, studente lavoratore". Era lui il suo salvatore. Il rabbino, che è anche presidente del Museo dell' Olocausto, ha saputo delle carte e ha contattato i parenti. Ma Fyodor, purtroppo, è morto tre anni fa.
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