domenica 16 ottobre 2011

Il diario di Angelo Pezzoli

IO A MITTELBAU DORA



Angelo Pezzoli è nato a Bologna il 27 maggio 1922. L’8 settembre 1943 era Sergente Maggiore nel 2° Reggimento Fanteria Re, e fu catturato a Fiume il 19 settembre 1943; giunse nel lager di Dora il 3 ottobre 1944, gli fu assegnata la matricola 03197, e da lì venne avviato al lavoro forzato nelle fabbriche delle armi segrete di Hitler. Quando gli inglesi lo pesarono, all’atto della liberazione, era poco più di 35 Kg.

Dora era un campo segreto di lavoro situato a circa 4 km da Nordhausen, in Turingia a sud del massiccio dell’Artz. Sorse come campo esterno dipendente dal lager di Bukenwald ed alla fine del ‘43, dopo il bombardamento del Centro Ricerche e Lancio Missili di Peenemünde, nell’isola di Usedom, già contava 22 mila prigionieri, in prevalenza politici di tutte le nazionalità, impiegati a realizzare un grande cantiere sotterraneo a 100 metri di profondità, composto da un complesso di tunnel di diversi chilometri.

Prima che fossero costruiti i baraccamenti in superficie, la maggior parte dei detenuti passò diversi mesi in quell’inferno senza vedere la luce del sole, con turni di lavoro massacrante di dodici e più ore, due gravosi appelli, vitto assolutamente insufficiente e mal confezionato, in condizioni ambientali impossibili per il rumore assordante dei mezzi meccanici, la polvere di pietra e di gesso, l’umidità, i gas di scarico e acetilene e per ultimo, il lamento dei lavoratori frustati dagli sbirri che pretendevano di far loro accelerare le diverse operazioni. La maggior parte di questi sepolti vivi trovò la liberazione nei forni crematori.

Dal 19 ottobre ‘44 Dora divenne campo autonomo con la denominazione di «Campo di concentramento Mittelbau (KZ)», per la funzione specifica di alimentare di mano d’opera il grande complesso industriale «Mittelbau», centro di fabbricazione dei missili comandati a distanza «V1» e «V2». Aveva alle sue dipendenze altri 32 campi esterni per detenuti civili e militari adibiti a lavori pesanti, come lo sgombero delle macerie, opere di disboscamento e sbancamento per la costruzione e riattamento di strade, in modo da garantire sempre libero accesso alla fabbrica sotterranea. Questa disponeva di una centrale termica capace di sviluppare 1.000.000 di calorie, la cui ciminiera telescopica durante gli attacchi aerei veniva abbassata e quindi confusa in mezzo al bosco. Alla fine del ‘44 il campo principale ospitava da 16.000 a 18.000 prigionieri ed altrettanti, forse, le dipendenze esterne. Di militari italiani pare fossimo appena qualche migliaio (3.500) ma alla liberazione non eravamo più di 180. Il nostro alloggiamento era nel blocco 18 a capo del quale v’era un cecoslovacco, figlio di madre bolognese, che si mostrò sempre comprensivo con gli italiani i quali gli debbono molta riconoscenza. Purtroppo venne ucciso prima della liberazione.

Dormivamo in castelli a quattro, cinque piani ed ogni posto letto doveva servire, a turno, per due o tre persone. Il comando del lager era affidato alle SS che per mantenere la disciplina si servivano di criminali tedeschi, detenuti per reati comuni; durante il lavoro eravamo invece sotto il controllo dei tecnici e dirigenti dell’impresa civile. Tutti, in ogni caso, coglievano qualunque occasione per ingiuriarci, maltrattarci, percuoterci, fustigarci, ricorrendo anche a rappresaglie e punizioni collettive, nonché all’impiccagione ed alla fucilazione. I due crematori, spesso, erano insufficienti per smaltire tutti i cadaveri.



Il campo era recintato con filo spinato percorso da corrente elettrica ad alta tensione, intervallato da riflettori e torrette per le sentinelle che vigilavano sempre con le mitragliatrici puntate. Durante gli appelli le guardie ed i comandanti (lagerschutz) pretendevano la posizione di attenti, allineamento e portamento militare; diversamente intervenivano col calcio del fucile e protraevano la conta. L’acqua ci veniva distribuita col contagocce da un tubo con fori che doveva servire per migliaia di detenuti. La zuppa era generalmente a base di rape; raramente ci venivano fornite patate; completavano il pasto un po’ di margarina ed una fetta di pane. La spartizione dei viveri, affidata ad un internato, era spesso causa di discordie, per cui anche noi non tardammo a ricorrere al bilancino di precisione ed all’adozione dell’ «achiquestiere». Le briciole di ogni cosa venivano assegnate a turno. Il pessimo tenore di vita portò presto a foruncolosi, piaghe, gambe gonfie che finivano in cancrena, polmoniti, pleuriti, tbc, tifo petecchiale e dissenteria (dovuta quasi esclusivamente alla fermentazione della zuppa).



Nel settore del tunnel in cui lavoravo, un binario si diramava in altri 10-12 sui quali correvano cursori per il carico delle bombe e delle armi segrete V1 e V2. Queste ultime, alte fino a 18 metri, venivano sistemate distese su tre carri pianali, alle testate dei quali venivano poste gabbie per polli, per mascherarne il carico. Tutti gli ordigni venivano spediti senza esplosivo in quanto tale compito spettava ad altro arsenale. Il 1° dicembre 1944 fui imputato di sabotaggio e - ancorché scagionato - fui ugualmente condannato a subire 100 staffilate con un cavo elettrico di 15 mm. e che io dovetti contare, una per una, senza sbagliare, per non aumentare i colpi. All’atto della liberazione, il mio peso controllato dagli Alleati era di kg 35,200 ed il mio sedere, dagli stessi fotografato, era ancora nero di lividi, dopo quasi tre mesi.

In mezzo a quelle disumane sofferenze ci sorresse solo la nostra fede di cristiani che rinvigorì di una non comune resistenza morale la nostra volontà di sopravvivere per noi e per i nostri cari, anche se lentamente ci sentivamo consumare come candele. Quando ai primi di aprile si delineò la vittoria degli Alleati, fummo caricati su un treno, circa 120 per carro e dal 4 all’11 aprile, sotto il caos infernale di continui bombardamenti, senza viveri nè acqua, fummo avviati verso Lubecca dove avremmo dovuto trovare morte collettiva. Eravamo ridotti a larve umane ed i morti aumentavano in modo impressionante. Ormai in balia del destino - poiché nessuno più ci voleva per non assumersene la responsabilità - 1’11 aprile approdammo finalmente a Belsen ove gli Alleati si occuparono subito del ricovero e delle cure ai superstiti più gravi; dopo di che ci accolse la generosità del tenente colonnello Testa a Wietzendorf. Il padre cappuccino Crosara, quando il 7 giugno ‘45 ebbe a commemorare a Wietzendorf i morti del campo Dora, così iniziò la sua «omelia»: «È misericordia di Dio se fummo risparmiati». Misericordia, poiché le catene della schiavitù sono finalmente cadute infrante ai nostri piedi e la libertà ha sorriso alla nostra speranza.

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