Nel maggio del 1933 una robusta ragazza di vent’anni sale sul treno per Parigi dalla stazione di Francoforte. Trema quando una guardia SS le chiede i documenti: studentessa? ebrea?, le chiede. “Ha mai sentito un’ebrea chiamarsi Gisèle?”, risponde con tono indignato, autoritario. E’ la sua salvezza. L’ha scampata per un pelo, molti dei suoi compagni sono stati arrestati. Studiava antropologia, vorrebbe continuare alla Sorbona, ma sa poco il francese. Comincia a far foto in giro, da turista qualsiasi, tanto per ambientarsi. Ne aveva già scattate per un foglio clandestino della resistenza di Francoforte con uomini picchiati a sangue dai nazisti. Mentre cammina lungo la Senna in giorno di pioggia vede un gruppo di curiosi sporgersi dal parapetto del Pont des Arts. I gendarmi stanno ripescando il cadavere di una ragazza bionda.‘ Ma ciò che avvinse il mio sguardo inorridito furono le scarpe nere dal tacco smisuratamente alto da cui l’acqua scendeva goccia a goccia. Non ricordo di aver tirato fuori la macchina fotografica, ma, d’un tratto, era tra le mie mani. Dopo aver scattato una foto, furtivamente, mi allontanai’. Sviluppa la foto nella rudimentale camera oscura che s’era montata nel bagno della sua camera d’affitto. Chi era quella ragazza? Qual era il suo segreto? Un amore infelice? La miseria? Fa vedere la foto a un amico. Lui le consiglia di venderla a un quotidiano. Il direttore la compra: la foto della ‘bella sconosciuta’ è di cattiva qualità, ma il soggetto è interessante. Con una certa dose di cinismo inizia la carriera di Gisèle Freund da fotografa professionista. Con quei soldi riesce a pagarsi gli studi e a campare, dalla famiglia non arrivava più niente da un pezzo: l’amministrazione nazista aveva vietato qualsiasi invio di denaro all’estero. Visto che viveva a forza di fotografare, le viene anche in mente di proporre come tesi di laurea la storia della fotografia nel XIX secolo. I libri che esistevano erano soprattutto tecnici.
Nessuno aveva ancora studiato la fotografia in relazione alle caratteristiche sociali dell’epoca che l’aveva vista nascere, ossia l’ascesa della media borghesia nella Francia dell’Ottocento. Farsi ritrarre da un fotografo anziché da un pittore costava molto meno e serviva allo stesso scopo: tramandare la propria immagine e il proprio status. La fama di Gisèle si diffonde presto per il quartiere dove abita, la lavandaia ne vuole una del figlio che parte a militare, poi il calzolaio, il vinaio. Pagano in natura, coi loro servizi. Ma non è facile fare un ritratto naturale. Il soggetto di fronte all’obiettivo si irrigidisce. C’è un bel dire: stia rilassato, si fumi una sigaretta. Quelli si sentono come dal dentista. Poi c’è la delusione: non mi riconosco, non sono così brutto, lei non sa fare il suo mestiere! Per farsi pagare bisognava usare il ritocco, abbellire, far assomigliare il cliente ai divi di moda. Nel ’34 al consolato tedesco le strappano il passaporto, la Freund è senza patria, si sente un morto vivente, ‘ la feccia della terra’, come avrebbe intitolato qualche anno dopo un suo libro Arthur Koestler, nella stessa situazione. ‘Da quel momento ebbi vergogna della mia origine tedesca. Quando ottenni la nazionalità francese e un nuovo passaporto, avrei voluto cambiare anche il mio nome per dimenticare il mio passato’. Nessuno l’accetta più come inquilina, così Adrienne Monnier, proprietaria della famosa libreria Maison des Amis des Livres, la ospita. Da lei Gisèle conosce gli intellettuali che comincia a fotografare. Nasce così il suo sogno: una collezione di ritratti a colori di scrittori, per cui diventerà famosa. Riesce a coglierli in atteggiamenti non convenzionali, che tradiscono la loro vera personalità. Attraverso il suo sguardo conosciamo Joyce, Sartre, Shaw, Colette, Malraux, Beckett.
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