Franco Fortini (1917-1994), profugo nella Svizzera degli anni Quaranta
Franco Fortini Lattes (il cognome ebreo che dovette cancellare per sfuggire alle leggi razziali italiane), internato a Zurigo, nel 1943/45, dove conobbe il pastore valdese Alberto Fuhrmann, è stato poeta, saggista, autore di testi di film, consulente editoriale per Einaudi, Laterza e Mondadori, si è interessato di scultura e ha praticato la litografia. Collaboratore del “Manifesto” e docente di Storia della critica letteraria a Siena, è morto a Milano il 28 novembre 1994.
Era nato a Firenze, il 10 settembre 1917 da padre ebreo e madre cristiana, e aveva imparato da giovanissimo a lottare contro il fascismo. A Zurigo, intorno al tavolo di cucina, sul quale scriveva le sue poesie, ci parlava dell'angoscia sua e di sua madre a ogni ritardo del padre il quale più volte era stato picchiato dagli squadristi.
II passo nella Resistenza fu per lui, per così dire, naturale, ineluttabile, come lo fu poi, a Zurigo, collaborare con Ignazio Silone e col gruppo “Piero Gobetti”, fondato nel 1943/44 da Schiavetti, Enzio Volli, Daniele Fuhrmann e altri (“Colonia Libera” e associazione studentesca “Corda Fratres”).
Tornato in Italia, Franco Lattes Fortini è stato uno dei personaggi più complessi della cultura italiana del secondo dopoguerra. Ha partecipato a numerose avventure letterarie senza mai accettare né adeguarsi alla voce dominante. La sua voce si distinse sempre, rigorosa sia nella sua poesia che nei suoi saggi politici e metodologici.
Amico di Elio Vittorini, scrisse con lui sul mitico “Politecnico”, poi, con Pasolini, nella rivista “Officina”. Tradusse Goethe, Kafka, Proust, Brecht, Simone Weil, Kierkegaard, Eluard. Lavorò per Olivetti e collaborò alle Edizioni Einaudi prima di consacrarsi all'insegnamento presso l’università di Siena. II suo costante impegno civile ne fece un testimone imbarazzante; il rigore della sua opera fu uguale al rigore che esigeva da se stesso per cui godeva di grande prestigio, in Italia quanto all'estero. Rene de Ceccaty, ne “Le Monde” del 2 dicembre 1994, lo ricorda con queste parole: “Franco Fortini tornò spesso sul tema della guerra nei suoi poemi di una dolcezza a volte rassegnata, a volte rabbiosa, sempre limpida e piana”. Questa voce limpida ora tace.
Fortini in Svizzera
Subito dopo l'armistizio con gli Alleati, nel settembre del 1943, una valanga di profughi italiani varca il confine meridionale della Svizzera. Tra questi, anche Franco Fortini Lattes che arriverà a Zurigo. Là conosce il pastore Alberto Fuhrmann, un gran numero di intellettuali italiani (tra i quali Ignazio Silone) e partecipa attivamente alla vita della comunità evangelica valdese di Zurigo. Nell'agosto del 1945, ritornato a Milano, scriverà, in una lettera: “Ho una gran nostalgia della Svizzera e di Zurigo e della Goldbrunnenstrasse […] Chiederò il passaporto e vedrò quest'autunno di far una corsa d'una settimana costà”.
Così Franco Fortini Lattes ricorda i suoi anni da internato italiano a Zurigo: “Ricordo una vita "surrealista" con personaggi straordinari […]. Ho passato il Natale 1943 presso il pastore valdese italiano Fuhrmann: casa sua è stata per me una vera seconda università, un momento straordinario, con possibilità di incontri, di conoscenze; durante un sermone nella cappella valdese ho scoperto il nome dei primi riformati italiani. Ho svolto attività nel Gruppo Gobetti e collaborato con Silone all'"Avvenire dei lavoratori" […] Indimenticabile l'incontro con Adriano Olivetti e la sua telefonata del 6 giugno 1944, con voce emozionata: ‘Sono sbarcati in Normandia!’ e i contatti con lui mantenuti” (citazione tratta dal libro di Renata Broggini sull'internamento dei militari e civili italiani dal 1943 al 1945, pubblicato dal Mulino, nel 1993).
Nell'agosto 1943 le autorità svizzere si erano preparate a vedere arrivare al confine i gerarchi fascisti, i tedeschi e i nazi-fascisti dei paesi balcanici. Ma qualche giorno dopo l'armistizio, quando la Wehrmacht occupò i punti strategici dell'Italia settentrionale, fu la popolazione di frontiera, gli anti-fascisti, gli ebrei e i militari a “invadere” il canton Ticino. La notte del 16 settembre 1943 fu la notte dell'esodo: in quelle ore circa quarantacinquemila persone, tra civili e militari, passarono il confine, dove e come meglio poterono, cercando di eludere la sorveglianza dei tedeschi.
Adliswil, poi Zurigo
Passata l'emergenza, i rifugiati furono distribuiti in vari campi sparsi su tutto il territorio della Confederazione. Franco Fortini giunse così ad Adliswil, nei pressi di Zurigo, in un campo che accoglieva più di cinquecento rifugiati provenienti da diversi paesi. Così egli scrive: “Eravamo alloggiati in un edificio di legno e muratura di quattro o cinque piani […] La Croce Rossa mi procurò dei quaderni e una penna. Scrissi quel che dei mesi precedenti volevo ricordare. Scrivevo in fretta e ma¬le. Dai tavoli vicini vociferavano i serbi e i greci, gli italiani giocavano a dama. In un gruppo discuteva a bassa voce un uomo di mezza età, magro, con un berretto in testa, e certi stivaletti ai piedi che pareva un detective da romanzo; ed era, m'avevano detto, il comunista Umberto Terracini, da poco uscito da una lunga prigionia”.
A Zurigo, l'assistenza agli italiani fu organizzata dal Consolato Generale, dalla Comunità valdese, dalla Colonia libera italiana e da un Comitato di soccorso di cui facevano parte Schiavetti, Delogu, Armari e altri. II pastore Alberto Fuhrmann, che coordinava gli aiuti, fu inoltre incaricato dal “Militärinspektorat” di visitare i vari campi della Svizzera tedesca per occuparsi degli evangelici. Ce n'erano una cinquantina, tra cui giovani studenti valdesi, ai quali si aggiunsero, sul finire del 1944, i partigiani della Val d'Ossola, con il colonnello Vola.
Si riuscì ad ottenere, per Franco Fortini, l'autorizzazione a soggiornare in casa del pastore. Ben presto egli prese parte attiva alla vita della comunità: collaborò con una rubrica a “Voce evangelica”, sostituì in caso di necessità il pastore nella predicazione, si occupò del Gruppo giovanile. Per il 17 febbraio scrisse un “atto” (rimasto, credo, inedito) che venne messo in scena allo “Zwinglihaus”, davanti a pubblico numerosissimo: molti gli zurighesi e moltissimi i rifugiati e internati cattolici, ebrei.
Gli anni dal 1943 al 1945 rappresentarono, per la comunità di Zurigo, un momento di grande crescita spirituale, di apertura ecumenica, di intenso lavoro sociale, in breve, di grande fervore. Tutta la città di Zurigo visse in quegli anni un momento irripetibile: gran parte dell'intellighenzia europea vi aveva trovato rifugio: un momento magico “surrealista”, come scrive appunto Fortini.
Fortini e i protestanti
“È un intellettuale, di Firenze, ci rispose un internato [...] ad Adliswil, e ci indicò un giovanotto vestito tutto di nero che se ne stava un po’ in disparte e aveva l’aria corrucciata. Quel tipo ci incuriosì. Il suo nome è Franco Lattes, ci risposero alcuni internati, ma qui nel campo viene chiamato Lattes pastorizzato per via di quell’abito nero datogli da un pastore protestante. Era Franco Fortini”. Con questa descrizione, dedotta da una visita al campo internati di Adliswil, Franca Schiavetti Magnani introduce Franco Fortini nel suo libro “Una famiglia italiana” (Feltrinelli 1991).
Il settimanale protestante italiano “Riforma” ha pubblicato una lettera inviata da Franco Fortini al pastore Paolo Sanfilippo, nel marzo del 1959. Da quella lettera (“Riforma”, venerdì 23 dicembre 1994, no.49) si ricavano informazioni interessanti sul rapporto di Fortini col protestantesimo. Nella lettera, Fortini si presenta dicendo: “Il mio nome è Franco Lattes, ed assunsi lo pseudonimo di Fortini - che è il nome di mia mamma - nel 1938 quando le leggi razziali del fascismo mi avrebbero impedito di firmare testi letterari col nome di mio padre, ebreo”. E poi scrive: “A contatto fin dall’adolescenza con ambienti evangelici e più particolarmente valdesi”, scrive Fortini nella lettera al pastore Sanfilippo, “sono stato membro della comunità valdese di Firenze per circa 10 anni. Nel 1946 mi sono sposato con una ragazza svizzera, anch’essa di religione evangelica. Tuttavia, all’incirca in quegli anni, ho cessato di considerarmi membro di quella comunità. Considero nondimeno di importanza decisiva per la mia formazione l’esperienza cristiana di quegli anni, e debbo credere che nei miei scritti se ne trovi traccia”.
A Zurigo, nell’inverno del 1943/44 e poi nuovamente a partire dall’autunno 1944, durante i mesi dell’internamento in Svizzera, Franco Fortini ha partecipato attivamente alla vita della locale chiesa evangelica valdese. Tracce di quell’attività si trovano in alcuni numeri del periodico evangelico di lingua italiana “Voce evangelica”. Nel numero 32 (anno V., febbraio 1944), accanto alla notizia pubblicata nello spazio riservato alla comunità di Zurigo, in cui si preannuncia la messa in scena del “suggestivo dramma che porta il titolo: ‘Giorni di sempre’, ideato e scritto per l’occasione dai sig. prof. Fortini e Pons”, si trova un messaggio di Fortini in occasione della festa del 17 febbraio (in cui i valdesi ricordano le patenti di libertà concesse dal re, Carlo Alberto, nel 1848), intitolato significativamente “Svizzera, rifugio della libertà”. Nei mesi seguenti, sulle pagine di “Voce evangelica”, si trovano altri due contributi firmati da Franco Fortini.
SVIZZERA, RIFUGIO DELLA LIBERTÀ di Franco Fortini
Campi di concentramento: triste espressione, ricordo indelebile per milioni di nostri fratelli, in questi anni torturati. Se anche da noi ha mai preso quel significato tragico che ha assunto in altri paesi, che nuova, sconcertante lezione non abbiamo appreso da quelle folle cintate e da quelle vite disperse!
Quegli uomini in differenti condizioni sociali e di differente cultura, ex-parlamentari vestiti come poveri contadini o ricchi commercianti che vestivano le ultime eleganze dell’unico abito superstite ai bombardamenti e alle fughe, si aggiravano tra le baracche e i boschi che il nostro autunno colmava d’ogni colore e dolcezza, le mani nelle tasche, in appassionate conversazioni, dove i ricordi, i rimpianti, le speranze e le disperazioni, per un naturale pudore, si nascondevano sotto la maschera di un beffardo anticonformismo; quelle donne, figure eroiche di umili compagne di vita e di fede degli emigrati politici o povere donnette borghesi che forse conservavano in fondo al cuore il rimpianto per la piccola vita tranquilla, o studentesse che avevano saputo cosa significa la lotta politica clandestina dei manifestini e signore di una alta società che fu...una umanità più amara che triste, più ribelle e ironica che disperata, più bisognosa di portare gli “altri”, noi, i non toccati dalla bufera alla tensione drammatica delle loro conversazioni concitate e spregiudicate piuttosto che di placarsi nella quiete ben ordinata delle nostre abitudini d’ “entre deux guerres”.
E fra questi, i nostri evangelici d’Italia. Sperduti nella folla, si sono ritrovati. Si sono ritrovati quando, caduto dagli occhi il velo turbinoso degli avvenimenti e delle passioni umane, essi han risentito ancora una volta la Voce della speranza e della salvezza. Quanti di loro non ci hanno raccontato, nei tragici particolari delle loro odissee, di aver dovuto confidare tutta la loro vita a Chi tutto può, a Chi guarda il suo gregge? O non era pochi giorni or sono un giovane studente valdese che ricordava la muta preghiera di un momento tragico, sulla montagna notturna, quando la pattuglia nemica si avvicinava al suo nascondiglio? O non ci narrava un altro la gioia vivificante che lo aveva invaso quando al momento di iniziare la pericolosa avventura verso il confine, aveva letto sul muro di una chiesa di montagna la consolante assicurazione: “Christum habemus itineris ducem”, noi abbiamo Cristo guida del nostro cammino?
Si sono ritrovati e molti di loro possono unirsi a noi nella preghiera domenicale. In questa terra svizzera che conobbe l’emigrazione dei riformati italiani del ‘500, che accolse i profughi della Valtellina e spezzò il pane eucaristico con i valdesi delle persecuzioni, ancora una volta si ripete l’incontro nell’Evangelo e il rifiorire della speranza.
È una storia antica, forse eterna, e ci sembra di averla sempre conosciuta: mutano forse i termini, le espressioni, le etichette. Ma è sempre la voce insopportabile della coscienza umana che non vuole servire all’uomo, ma solo alla libertà, e nella libertà al Signore della Storia, al Re dei Re. Nessuna parola è mai forse stata troppe volte ripetuta invano, con il nome santo di Dio, come quella di Libertà. E si è perché gli uomini la dotano di tempo in tempo e di generazione in generazione di tanti e contradditori contenuti affettivi; cosi che essa non ci pare mai assoluta e splendente ma sempre ombrata di contrasti, sempre parziale e tanto più desiderabile ed insopprimibile quanto più sfuggente. La storia ha scritto un grande filosofo, non è altro che la storia della libertà e noi possiamo aggiungere che la storia sacra, quella che l’Eterno scrive nei suoi insondabili disegni al di sopra delle nostre vicende, è appunto la storia della libertà divina.
E allora l’uomo lotta più disperatamente e puramente per l’ideale della libertà, quando egli sente e avverte che nella faticosa avanzata della propria “umana libertà”, si insinua , si sprofonda, animatrice vittoriosa, la storia sacra, cioè l’ordito che dall’eternità è predisposto perché noi lo completiamo con i variopinti fili delle nostre vite.
Così, la festa della libertà valdese che ci apprestiamo a celebrare per il giorno del 17 febbraio, è quest’anno anche la festa dei nostri rifugiati. Nei confini dei campi e nel solenne decoro delle nostre montagne invernali essi non vedranno come nelle nostre valli valdesi i fuochi di esultanza; ma custodiscono, alimentata dalla nostra fraterna carità, un fuoco tanto più puro quanto più indomabile e con quello torneranno nella penisola martirizzata e straziata, per levarlo bel alto sopra le proprie teste e sopra quelle dei loro compagni, perché lo riconoscano le terre di Gioacchino da Fiore, di San Francesco e di Savonarola, perché sia “un vessillo per le nazioni lontane” (Isaia 5, 26).
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