sabato 9 aprile 2011

Mauthausen per ogni pidocchio cinque bastonate

I ricordi di Gianfranco Maris, ex deportato, che oggi compie novant'anni:
"Si moriva prima con la testa e poi col corpo"


MILANO - È uno di quei pochi uomini che hanno ancora qualcosa da raccontare. Lo considera un dovere: «Quando parlo ai ragazzi delle scuole li trovo attentissimi. Ma capisco che non sanno niente di quei tempi: chiedono quando è stata la guerra, chi l’ha fatta e contro chi, chi ha vinto e chi ha perso». L’avvocato Gianfranco Maris oggi compie 90 anni e viene festeggiato alla Fondazione Memoria della Deportazione (è a Milano in via Dogana 3), di cui è presidente. È stato a Mauthausen-Gusen, il campo di concentramento nazista che vanta, per modo di dire, la più alta percentuale di vittime: morì il 60 per cento dei deportati. Dachau e Buchenwald sono sotto il 30 per cento. Auschwitz sembra poco sotto alla percentuale del Lager in cui è stato Maris, ma lì non ci andavano i «politici» come a Mauthausen, ci andavano gli ebrei e spesso gli ebrei venivano mandati nelle camere a gas prima dell’immatricolazione, così che la macabra contabilità è inesatta per difetto.

Lo incontro nel suo studio di Milano. Gianfranco Maris è un noto avvocato penalista. Ha difeso anche Leonardo Marino, che ha confessato di aver partecipato all’omicidio del commissario Calabresi. E siccome Maris è stato senatore del Partito comunista (dal 1963 al 1972), qualcuno arrivò a dire che il processo contro gli ex di Lotta continua era un complotto del Pci, che doveva regolare vecchi conti a sinistra. Maris sorride: «Era estate, e io ero uno dei pochi avvocati non ancora in vacanza. Marino non aveva un legale, il pubblico ministero che lo interrogava mi vide in corridoio e mi chiese se volevo assumere la difesa d’ufficio. Parlai a lungo con Marino, studiai le carte, accettai solo quando mi fu chiaro che era credibile». Maris sorride, anche perché per un uomo che è stato in un Lager nazista quasi tutto, anche certi veleni e sospetti, scivola via come una cosa piccola. Racconta con una lucidità e una passione che sembrano azionare una misteriosa macchina del tempo.

Stazione Centrale di Milano: il binario 21, sotterraneo, con ingresso laterale da cui partivano i treni con i deportati del regima nazi-fascista diretti i campi di concentramento, un’altra stazione sotto la stazione.


«Il fatto che ha determinato tutto il mio destino è accaduto nel 1938, quando avevo 17 anni e frequentavo il terzo anno del liceo classico al Carducci di Milano. Un mio amico mi presentò suo fratello, che era un tipo strano e affascinante. Mi diede dei libri da leggere, erano libri di politica e di temi sociali. Mi accorsi che avevano tutti il segno di un piccolo timbro con scritto “Ventotene”. Non sapevo nulla di Ventotene. Seppi più tardi che quel ragazzo era il rappresentante del Pci clandestino a Milano. Mi presentò Vittorini, Steiner, altri uomini di cultura. La mia fu un’adesione di fatto.

«In casa non avevo respirato un’attività antifascista. Era una famiglia abbastanza modesta, mio padre era un fonditore di ghisa e aveva una piccolissima azienda con il fratello. Io ricordo solo che ebbe delle grane al tempo del delitto Matteotti. Era un repubblicano e i fascisti un giorno vennero a cercarlo a casa. Lui non c’era. Si nascosero in giardino e lo aspettarono. Quando la sera arrivò, mia madre riuscì a divincolarsi dagli squadristi che la tenevano in casa e gli gridò di scappare. Avevo tre anni ma mi ricordo tutto. Mio padre che scappa, e tutti a inseguirlo: i fascisti e mia mamma con me in braccio. Riuscì a rifugiarsi in questura e a salvarsi, ma da quel momento fece una gran fatica a trovare lavoro.


«Perché si diventava comunisti? Anche per episodi così. Tanti episodi. Nel 1938 avevamo un supplente che avrà avuto 25 o 26 anni. Un giorno entra in classe e ci dice: “Sono venuto a congedarmi da voi. Purtroppo appartengo a una razza inferiore, non sono ariano come voi”. Io non sapevo niente delle leggi razziali, e non avevo mai avvertito ostilità contro gli ebrei. Vidi allontanati dal Carducci molti miei compagni di scuola e di giochi. Per me fu determinante».

La memoria scava in altri giorni lontani: «Nel 1939 una sera vidi un vecchio che faceva la pipì sul muro dell’edificio che ospitava il Gruppo rionale fascista. Non lo faceva per spregio politico: solo perché era vecchio e ubriaco. Uscirono dal Gruppo sette-otto ragazzi e lo massacrarono di botte. Io intervenni e picchiarono pure me, poi mi portarono dentro e mi portarono dal segretario. Mi interrogò: “Perché sei intervenuto?”. Risposi che difendere un povero vecchio mi pareva un atto di giustizia e di libertà. Ripresero a picchiarmi, e siccome qualche pugno riuscii a piazzarlo anch’io, loro chiamarono la polizia accusandomi di lesioni e violazione di domicilio. In questura un vecchio commissario meridionale, che aveva capito tutto, fece finta di prendere la denuncia e mi lasciò andare».

Poi la guerra. «Ero ufficiale. Slovenia, Croazia, Grecia. Comandavo soldati che avevano dieci anni più di me. L’80 per cento di loro era analfabeta. Pastori del Sud che mi chiedevano di leggere le lettere che arrivavano da casa. Raccoglievo confidenze di povera gente che era stata mandata a morire a migliaia di chilometri da casa senza sapere perché. Mi guardavano e mi chiedevano: perché facciamo questa guerra? Non sapevo che cosa rispondere. E non potevo non capire che quella guerra era una rapina, un’infamia. Molti sono diventati comunisti a causa di quella guerra». Gli chiedo se s’è mai sentito deluso – dopo – dal comunismo: «Quello che è successo in Russia, e anche altrove, è una degenerazione del comunismo».


Torniamo a quei tempi. Arriva il 25 luglio, poi l’8 settembre, l’esercito nel caos, ordini che non arrivano. «Siamo tornati in Italia a piedi. A Milano andai in una sede del Pci davanti all’ospedale Fatebenefratelli. Decisero di mettere a disposizione la mia esperienza militare. Vado in Val Brembana, organizzo una brigata in Val Taleggio, poi mi mandano in Valtellina. Ma alla stazione di Lecco io e un compagno veniamo arrestati dalle SS: ci aveva venduti un partigiano arrestato». Il carcere a Bergamo e a San Vittore, le botte. Poi il binario 21: partenza per Fossoli, quindi Mauthausen-Gusen. «Ci arrivammo il 5 agosto 1944. Era un campo per deportati politici. Poi vennero deportati anche i non “politici”: bastava essere operai e avere braccia buone per il Reich. I non idonei finivano nelle camere a gas, o uccisi con un’iniezione di benzina al cuore». Mi spiega come cercavano di tenerli in forze, visto che erano «utili» come forza-lavoro. «Nell’agosto del ’44, quando sono arrivato, davano un chilo di pane al giorno da dividere in sei. Nel marzo del 1945 la stessa razione veniva divisa in 24. Ricordo la fame, il freddo, la dissenteria.

«La sera c’era il controllo dei pidocchi. Ti facevano spogliare e controllavano i vestiti: per ogni pidocchio, cinque bastonate. Una sera d’inverno mi trovarono cinque pidocchi. Presi venticinque bastonate, poi lasciarono i miei vestiti tutta la notte sul tetto pieno di neve e mi fecero dormire nudo. La mattina tornai alla cava di pietre indossando i vestiti inzuppati di neve e gelati». Come ha fatto a sopravvivere? «Non lo so neanche io, forse non lo sa nessuno. Morirono in tanti: si moriva prima con la testa e poi con il corpo. A volte, quando racconti ti dicono: non è possibile che sia successo tutto questo. Ma è successo, e potrebbe succedere ancora. Ecco perché noi dobbiamo mantenere la memoria. La conoscenza della storia è la prima condizione per la libertà».

Il Parlamento Italiano, dal 2000,
ha voluto che il 27 gennaio di ogni anno
sia la ricorrenza dedicata alla commemorazione
delle vittime del nazismo e del fascismo, dell’Olocausto
e in onore di coloro che a rischio della propria vita
hanno protetto i perseguitati.


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