Non riesco a trovare il bandolo di questa matassa. Non trovo un modo di dare il via a questo discorso. Ho letto questo libro sentendomi quasi in imbarazzo. Leggevo, e sentivo di leggere un diario, ancorché pubblicato quindi reso pubblico, troppo intimo e privato, nella consapevolezza di non essere in grado di poterlo comprendere appieno. Ambientato a Parigi tra il 1944 e il 1945, la Duras racconta dell’attesa del marito Robert Antelme internato a Dachau, e della sua attività nel gruppo di resistenza capeggiato da Mitterand sotto il falso nome di Morland.
Il senso di violazione che si prova nel leggere questo testo sopraggiunge subito alla prima pagina, ben prima dell’introduzione ad Albert Des Capitales in cui dice: “Imparate a leggere. Sono testi sacri” : nell’introduzione a “Il dolore” della stessa autrice si legge : ”Come ho potuto scrivere questa cosa a cui ancora non so dare un nome, e che mi spaventa quando la rileggo? Come ho potuto per anni abbandonare questo testo in una casa di campagna regolarmente inondata d’inverno?”…”’Il dolore’ è tra le cose più importanti della mia vita. La parola ‘scritto’ qui stonerebbe. Mi sono trovata davanti a pagine uniformemente piene di una calligrafia minuta, straordinariamente regolare e calma. Mi sono trovata davanti a un disordine formidabile del pensiero e del sentimento che non ho osato toccare, e davanti al quale mi vergogno della letteratura.” Violazione. Violazione è il sentimento che la scrittrice prova dinanzi alle sue stesse pagine. Afferma di non ricordare . Non ricorda il momento in cui le ha scritte.
Io la guerra non la conosco. Io so poche cose, istantanee in bianco e nero, racconti rigati di lacrime e sorrisi di genitori e nonni, echi lontani di un mondo perduto e sconosciuto, sofferente e puro, in cui il dolore della morte, della perdita, della lontananza, della fame, della paura e del sopruso, si affermano in una struggente nostalgia, di affetti smarriti in mezzo al tempo, di una vita per contrasto felice, ingenua, quella felicità che nasce dal solo sapersi vivi e fortunati per avere ancora un amico o parente vicino, del poter ricevere una lettera da lontano, di poter condividere momenti delicati e di cose poco complicate. Vita. Ma tutto questo è velato dal tempo, velato dal nostro vivere in un mondo a colori, in cui la guerra e la morte, la fame e la paura non sono scomparsi, sono anzi tanto presenti su tubi catodici e schermi al plasma hi-tech ad alta definizione, quotidianamente visionabili sui giornali e tramite internet, che per questo finiscono con il risultare altrettanto lontani e finti, non più reali di un action movie o di una serie tv tipo C.S.I. o Prison Break. Non so niente della guerra, non so niente del dolore. Ecco il mio disagio. Ho letto ogni pagina con il distacco e la riverenza, con vero imbarazzo, quello di chi intuisce ma sa di non poter comprendere fino in fondo. Ho letto il coraggio di sfidare i facili consigli degli altri (“Più tardi, quando ci ripenserà, proverà vergogna”), il giudizio bacchettone di chi certamente non avrà capito come possa accadere che in quell’ammasso contorto di sofferenza, di attesa e assenza di notizie, tanto duro da impedire persino di nutrirsi e lavarsi, si finisca con il voler bene anche ad un altro uomo, pur continuando ad aspettare. Aspettare senza più vivere. E’ difficile poter comprendere come il dolore sappia offuscare sé stessi al punto da non sapere più da che parte percorrere la propria vita, annullata, oppressa, dimenticata, dilaniata, e nel contempo consenta di leggere negli altri il bene il male con tanta feroce lucidità. Mi sono chiesta se in questo libro il protagonista fosse il dolore, o invece la guerra, che entra nella vita come nelle vene di tutte le persone, i buoni i cattivi, che si confondono continuamente l’uno con l’altro, ritratte in queste pagine. Ma la protagonista è una, solo lei, la donna che aspetta, che ritrova ma non può riunirsi, che manda a morire, che desidera, che tortura, che ama, che non sa più piangere. Ci chiede umiltà, imparate a leggere, dice. Sono testi sacri.
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