domenica 24 aprile 2011

Katharina Torno

La mia scuola e l’inizio della mia adolescenza sono stati interrotti con l’ordine di fine agosto ’41.
Tutti i tedeschi del Volga dovevano lasciare la regione nel giro di pochi giorni. Tutto procedeva rapidamente.

Oggi mi ricordo la deportazione solo come un brutto sogno. Potevamo portare con noi solo il necessario, qualcosa da mangiare e alcuni vestiti, tanto quanto potevamo portare in poche valigie e cesti.

Siamo stati portati con dei carri al Volga; da lì un traghetto ci ha portato sulla riva orientale del fiume e poi siamo andati alla stazione.

Il viaggio in treno e durato per più di una settimana. Spesso sostava nelle stazioni ferroviarie anche per un giorno intero. Dove stavamo andando non lo sapevamo. Da qualche parte ad oriente, in Siberia, si diceva.

Finalmente, segnati dal lungo viaggio, siamo giunti nel territorio dall’Altai. C’erano già altri carri che ci aspettavano e ci portarono dalla stazione verso paesi lontani.

Eravamo fortunati perché tutta la nostra famiglia, comprese quelle dei fratelli di mio padre, è stata portata nello stesso luogo. Molte altre famiglie non hanno avuto tale fortuna: sono stati divisi.

Nel villaggio vivevano dei russi. Ricordo bene che dovevamo aspettare molto tempo lungo la strada principale del villaggio.

Tenevo la mia sorellina in braccio, aveva solo tre mesi. Una russa ci ha visti e mi ha scambiato per la madre della mia sorellina. Forse per questo ci ha accolti nella sua casa.

La donna aveva perso il marito in guerra. Si vedeva che non era facile per lei di accoglierci. Tuttavia, ci ha dato subito qualcosa da mangiare: un pezzo di zucca e qualche patata bollita.

Katharina Torno ci descrive come ha vissuto nella Trudarmee


Avevamo appena fatto le radici nel piccolo villaggio quando nel ’42 tutti gli uomini tedeschi in età idonea al lavoro sono stati chiamati al lavoro nella Trudarmee.
Mio padre fu chiamato al taglio di legna negli Urali. Questo destino a noi donne ci raggiunse sei mesi più tardi.

Alla fine del mese di dicembre siamo stati trasferiti. Avevo 16 anni. Mia madre seguiva la nostra colonna correndo e piangeva amaramente, non mi voleva far andare. Ci saremmo mai riviste? Sarebbe stato un addio per sempre?
Ebbene, io sono sopravvissuta a questa terribile esperienza. Ma passarono undici lunghi anni prima che ci saremmo potuto abbracciare di nuovo.
Ci hanno messe in un campo nella regione di Chelyabinsk. I prigionieri, che fino ad allora stavano lì sono stati trasferiti il giorno prima più ad est o a nord.

Siamo entrate nelle baracche di legno. Una camera ospitava fino a 100 donne. Abbiamo dormito su pianali a tre piani. Al centro della camera c’era una stufa di ghisa. Sulle pareti camminavano le cimici ed altri parassiti.
Il giorno seguente siamo state suddivise in piccoli gruppi e portate nella foresta. Un capomastro ci ha mostrato come si tagliavano gli alberi. C’era tantissima neve e con grande sforzo siamo riuscite a liberare il posto da disboscare. Le prime volte abbiamo faticato molto. Il lavoro è stato molto difficile perché non sapevamo maneggiare una sega o un’ascia. Solo gradualmente ci abituammo a questo tipo di lavoro.

Nel campo non c’erano solo le donne ma anche alcuni uomini con i quali non ci piaceva lavorare insieme. Noi donne eravamo più perseveranti. Tra di noi potevamo raggiungere meglio la “norma”.

Il cibo era estremamente povero. Chi riusciva a soddisfare la “norma”, riceveva 750 grammi di pane. Il pane veniva distribuito una volta al giorno, di mattina, nella sala da pranzo e doveva bastare per tutta la giornata.
Per la prima colazione e la cena c’era poi solo una zuppa. A volte si trovava un po' di pesce dentro, comunque la zuppa era sempre molto liquida e dava un senso di sazietà solo per un breve tempo.

In estate, a volte, potevamo arricchire i nostri scarsi pasti con delle bacche e dei funghi che trovavamo nella taiga. Molti si amalarono e molti sono morti per malattie causate dalla malnutrizione. Era un momento molto difficile per noi.

Non ero in contatto con mia madre che non sapeva né scrivere né leggere. Solo attraverso parenti e conoscenti eravamo in grado di mandarci ogni tanto qualche segno di vita.
Ora a volte mi chiedono che cosa avessi provato allora e qual’erano le mie speranze. Beh, per chi deve vivere in tali condizioni, i suoi pensieri si concentrano solo sulle cose basilari: come posso sopravvivere e come arrivo a domani?
Uno delle mie più grandi preoccupazioni era di non ammalarmi. Questo spesso significava l'inizio della fine. Il cibo povero non bastava nella maggior parte dei casi a riabilitare gli ammalati gravi.
Le mie speranze e desideri di allora erano: di mangiare come si deve e di rivedere i miei genitori. A più non pensavo, altri desideri non mi venivano in mente...


Nessun commento:

Posta un commento