Vanda Maestro, partigiana, femminista, chimica è tra quelle che non ce la fecero. Morì, gasata, ad Auschwitz il 30 ottobre 1944. Anche Enrica Calabresi, entomologa non ce la fece. Si suicidò subito dopo l’arresto a Pisa, nella notte tra il 19 e il 20 gennaio 1944, pur di sfuggire al lager nazisti. Enrica Calabresi era stata l’insegnante, tra le altre, di una ragazza che sarebbe diventata, a sua volta, una scienziata: Margherita Hack. L’astronoma ricorda ancora l’ultima volta che la vide, dopo il varo delle leggi razziali nel 1938, quando la vide in un vicolo nei pressi di Piazza della Signoria a Firenze camminare in fratte, rasente i muri, frettolosa. Per la paura di essere intercettata da qualche banda fascista.
Altre scienziate ebree, non ce la fecero. Come la matematica Anna Segre. O come la pediatra Maria Zamorani. Alcune furono più fortunate, se di fortuna si può parlare in quella immane tragedia. Bianca Morpurgo e Luciana Nissim Momigliano, entrambe medico, entrarono nel lager (insieme a Primo Levi e alla stessa Vanda Maestro) e ne uscirono vive. Altre, come Nella Mortara, fisico, riuscirono a fuggire e a riparare all’estero (Nella trovò rifugio in Brasile) in attesa che la bufera passasse e poi ritornarono.
Rita Levi Montalcini riuscì invece a nascondersi in Italia, prima nell’Astigiano e poi a Firenze, sotto falso nome.
«Sotto falso nome» è il titolo del libro che Raffaella Simili, docente di Storia della scienza presso l’Università di Bologna, ha da poco pubblicato con l’editore Pendragon (pagg. 158, euro 14,00) per raccontare le storie delle scienziate italiane ebree negli anni compresi tra il 1938 e il 1945.
È un insieme di storie quasi tutte poco conosciute. Perché sebbene molte fossero le donne ebree laureate poco riuscivano a entrare nell’università, una sola era riuscita a salire in cattedra e a diventare professore ordinario: la naturalista Anna Foà. Cacciata dall’università di Napoli e, altrettanto ignominiosamente dalla Società dei naturalisti napoletani, per una sola colpa: essere ebrea.
Già perché quando il governo fascista del primo ministro Benito Mussolini vara, nel 1938, le Leggi razziali tutte le storie, piccole e grandi, raccolte con molta fatica da Raffaella Simili diventano una sola storia. Che non è solo la storia di un’infamia e l’inizio della compartecipazione a una tragedia senza pari nella storia dell’umanità, ma è anche la storia della sconfitta di un popolo (il popolo italiano) e di una civiltà.
Una storia che accomuna molti uomini e molte donne. Compresi molti uomini e molte donne che per professione facevano ricerca scientifica. Dei primi sappiamo molto, delle seconde sapevamo poco. Raffaella Simili ha il merito di richiamare alla nostra memoria anche la storia di quelle donne, delle quali troppe sono state dimenticate.
Ma ha anche alcuni altri meriti, il libro. È scritto non con lo stile necessariamente distaccato dell’accademico, ma con passione e compassione. Ricorda come l’enorme ingiustizia – la cacciata degli ebrei dalle scuole, dall’università, dai laboratori; la discriminazione razziale che prelude alla persecuzione razziale – si consumi nell’indifferenza se non nell’approvazione generale. Il popolo italiano si era mitridatizzato e il veleno fascista non faceva più effetto, anche quando veniva iniettato in maniera così violenta e insensata.
Raffaella Simili ha chiuso il suo libro con un capitolo intitolato «Il riscatto». Una di quelle donna discriminate costrette a fuggire e a nascondersi sotto falso nome era Rita Levi Montalcini, allieva di un anatomista, Giuseppe Levi, che è stato (forse unico al mondo) maestro di tre premi Nobel (la stessa Levi Montalcini, Salvatore Luria e Renato Dulbecco) e padre di una scrittrice di grande valore, Natalia Ginzburg. Anche lui costretto a lasciare la cattedra e a nascondersi sotto falso nome.
Rita non solo si nasconde con un nome falso, Rita Lupani, prima tra le colline intorno ad Asti e poi a Firenze, ma impara anche a falsificare i documenti, fornendo aiuto a tanti compagni e compagne di sventura.
Dopo la guerra la Levi Montalcini si reca in America. E con i suoi studi sul Nerve growth factor (NGF), il fattore di crescita dei nervi, viene insignita, nel 1986,del premio Nobel. È, appunto, un piccolo, grande riscatto per le scienziate italiane ebree perseguitate. Ora nessuno potrà più dimenticarle.
Ora nessuno dovrà dimenticare come furono trattate.
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