Annamarcella Falco Tedeschi con i suoi compagni del Liceo Manzoni di Milano (anno scolastico 1937/1938). Aveva 15 anni e frequentava la V ginnasio
In seguito alle Leggi antiebraiche gli ebrei dovettero lasciare le scuole pubbliche. Alcune Comunità ebraiche, come quella di Milano, organizzarono scuole per far studiare i propri ragazzi.
Ecco la testimonianza di Annamarcella Falco Tedeschi, studentessa in quegli anni a Milano, nella scuola ebraica di via Eupili.
Posso dire di essere milanese, benché non sia nata a Milano, ma vi sia arrivata piccolissima da Parma, dove mio padre insegnava diritto ecclesiastico in quell’Università. Ma anche Parma costituiva solo una tappa nella mia famiglia; le mie radici sono frastagliate: mia madre proveniva da un’antica famiglia ebraica ferrarese, i Ravenna, mentre quella di mio padre, Mario Falco, era torinese da molte generazioni, probabilmente proveniente da Gerona in Spagna.
Mio padre iniziò a insegnare all’Università di Milano dalla sua fondazione nel 1924 e da allora la nostra famiglia divenne milanese a tutti gli effetti, mentre i miei ricordi delle prime classi elementari non sono dei più brillanti. Sia io che mia sorella, di cinque anni minore di me, passammo gli anni delle elementari studiando privatamente. In prima media (allora si diceva prima ginnasio) entrai al Ginnasio Manzoni e lì trascorsi cinque ottimi anni. Forse la scuola mi sembrava così bella perché finalmente me l’ero conquistata. Il fatto di essere ebrea non creava la minima discriminazione; c’erano altre bambine ebree in classe: “uscivamo” all’ora di religione e ben presto fu organizzata un’ora sostitutiva di ebraismo a cui partecipavamo noi ragazzini ebrei, magari riunendo varie classi insieme.
La nostra famiglia viveva in quello che sembrava un perfetto equilibrio: mio padre insegnava diritto ecclesiastico, ma era anche consigliere della Comunità Ebraica di Milano; mia madre era vice-presidente dell’Associazione Donne Ebree d’Italia (l’attuale Adei Wizo) e dirigeva un giornaletto per ragazzi “L’Israel dei Ragazzi”, già esistente da molti anni; quanto a me ero molto legata con alcune compagne di classe, naturalmente cattoliche… Tutto proseguì serenamente fino al 1938 quando, quasi di soppiatto, sui giornali cominciarono a fare capolino frecciate antiebraiche e la parola “razza” (uscì una rivista intitolata appunto La difesa della razza) a imitazione di quanto ormai da tempo accadeva nell’alleata Germania. La prima mossa ufficiale si ebbe il 14 luglio con la pubblicazione del “Manifesto della Razza”, opera tra l’altro del professor Nicola Pende che comunicava appunto nella rivista che “gli ebrei non appartenevano alla razza italiana”.
Per noi fu un’estate pesantissima: eravamo in vacanza a San Vito di Cadore e ogni mattina si apriva il giornale con il batticuore. E ogni volta c’era qualche amarezza; va ricordato che cos’erano i giornali a quell’epoca: sotto il fascismo non esisteva la possibilità di opposizione o di critica e il tono di tutta la stampa era identico. Mio padre riceveva lettere e visite incoraggianti da colleghi cattolici: erano i suoi amici antifascisti come lui, (primi tra tutti il professor Piero Calamandrei e il professor Carlo Arturo Jemolo) che gli esprimevano solidarietà. Ma questo non bastava a rasserenarci né a rassicurarci.
Il 5 settembre (eravamo appena rientrati a Milano) la situazione si fece drammatica; il Regio decreto legge n. 1390, pubblicato in quel giorno, era esplicito: da quel momento ai docenti e agli studenti di origine ebraica era vietato accedere alle scuole di ogni ordine e grado. Per la nostra famiglia fu una mazzata tremenda. Mio padre veniva “messo in pensione” e a me veniva precluso l’ingresso a scuola. Ho passato prove durissime nella mia vita, in seguito, ma quella volta mi sembrò che il mondo mi crollasse addosso. Le mie compagne di scuola (la mamma mi aveva detto “aspetta che ti chiamino loro”) non si facevano vive; e – cosa veramente incredibile – anche le più intime sembravano dissolte nel nulla. Quello che è diventato mio marito, Enrico Tedeschi, invece, che frequentava il Ginnasio Parini, ebbe eccezionali manifestazioni di solidarietà in particolare da parte del suo compagno Marco Vercesi, figlio dell’avvocato Galileo Vercesi, uno dei “martiri di Fossoli”.
Nella Comunità ebraica, dopo i primi momenti di sbandamento, si cominciò ad agire: con la collaborazione di numerosi volenterosi “padri di famiglia” iniziò una frenetica corsa con il tempo e con gli spazi per creare le scuole superiori per i ragazzi ebrei; già da alcuni anni funzionavano nelle due villette di via Eupili 6/8, al Sempione, gli asili e le scuole elementari. Il presidente della Comunità, Comandante Federico Jarach, con la stretta collaborazione di mio padre (assessore della stessa), invitò il professor Yoseph Colombo, ex-preside del Liceo Scientifico di Ferrara, e rimasto perciò “disoccupato”, a prendere le redini dell’iniziativa. Nella scuola, oltre che gli spazi, mancava tutto, ma vi erano tanti professori rimasti anch’essi senza lavoro e il miracolo si verificò: il 7 novembre, a due mesi dalla promulgazione delle Leggi Razziali, le scuole medie e superiori iniziarono l’attività.
Ricordo quei primi giorni come giorni di felicità: nonostante tutto ci eravamo riusciti e credo che nessun ragazzo sia mai andato a scuola con la gioia con cui ci andavamo noi; non andavamo a scuola obbligati dai genitori come tutti i ragazzini del mondo, la scuola ce l’eravamo conquistata.
Scoprimmo nuovi orizzonti, stringemmo nuove amicizie: la situazione comune le rendeva più facili. Più tardi vennero organizzati (nelle inesauribili cantine di via Eupili) anche due corsi universitari, uno di chimica ed uno di diritto ed economia, per i quali furono coinvolti docenti universitari di alto livello, e che a guerra finita furono riconosciuti dalle autorità accademiche.
Quanto a me, partecipai brevemente al corso di chimica, poi le vicende tragiche ebbero il sopravvento. Nell’autunno del 1942 fui per alcuni mesi precettata (come molti ragazzi ebrei) come operaia allo “Scatolificio Ambrosiano”, mentre altre ragazze lavorarono in una fabbrica di borracce e i ragazzi furono adibiti alla sezione “orti e giardini” del Comune di Milano. Ma si trattò di episodi di breve durata, travolti prima dai bombardamenti e poi dalle tragiche vicende dell’autunno del 1943.
Personalmente, con la mia famiglia “sfollai” (si diceva così!) a Ferrara nella casa dei nonni. Dopo l’8 settembre (armistizio) la situazione andò precipitando. Mio padre, minato dalle ansie, morì di infarto e al suo funerale, al Cimitero ebraico di Ferrara, il 7 ottobre 1943, erano presenti poco più di una decina di eroiche persone: proprio il giorno precedente era stata fatta una prima retata di ebrei ferraresi tra i quali il rabbino stesso Leone Leoni.
Il seguito della storia mia, di mia madre e mia sorella ha aspetti miracolosi: il professor Jemolo (il grande amico di mio padre), ignaro della sua morte scriveva cartoline che incredibilmente conservo in cui invitava ad andare a Roma dove si sperava che la “liberazione” sarebbe arrivata prima che al nord. Dopo molte esitazioni, partimmo ignare di quanto nel frattempo era avvenuto proprio a Roma e cioè della terribile retata del 16 ottobre.
Nonostante ciò l’accoglienza della famiglia Jemolo (il professore, la moglie e i tre figli) fu stupenda: non ebbero un attimo di esitazione e ci accolsero in casa dichiarando alla portinaia e a chi ci stava intorno che eravamo parenti provenienti da Napoli. Ci fornirono documenti di identità falsi e grazie al loro eroico comportamento, alla loro straordinaria ospitalità e disponibilità vivemmo presso di loro fino al giorno della Liberazione di Roma, avvenuto il 4 giugno 1944.
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