domenica 31 luglio 2011

Settimia Spizzichino

Settimia Spizzichino e il Rione Filangieri
Tra le persone che hanno vissuto o soggiornato nel Rione Filangieri


Un posto d’onore spetta a Settimia Spizzichino, ebrea romana, reduce dal campo di concentramento di Auschwitz, unica donna sopravvissuta tra i 1022 ebrei che nel 1943 furono deportati nel lager.
È stata ospitata a lungo nella casa di Giovanni Benincasa e Angela De Vivo, che sono stati il gancio del suo straordinario rapporto con la nostra città.

Settimia, ebrea romana
Settimia Spizzichino nacque a Roma il 15 aprile del 1922. Trascorse l’infanzia e l’adolescenza nel quartiere ebraico, sentendosi soprattutto romana. Lo scossone che le fece sentire tutto il peso dell’essere ebrea furono le leggi razziali del 1939. Da allora, anche per lo scoppio della guerra, la qualità della vita peggiorò progressivamente progressivamente, fino al dramma del 16 ottobre del 1943, quando i tedeschi occupanti prelevarono dal ghetto 1022 ebrei e li deportarono ad Auschwitz. Tra loro, anche Settimia, insieme con la madre, la sorella e la nipotina.



L’odissea della deportazione


Da questo momento cominciò l’odissea della deportazione. Le sue familiari finirono subito nella camera a gas, mentre Settimia rimase nel campo, subendo tra l’altro anche la terribile esperienza del Blocco 10: cavia umana per gli esperimenti del Dottor Mengele. Tremende furono le sofferenze, ma paradossalmente questo fatto contribuì a staccarla dal mucchio ed a salvarle provvisoriamente la vita. E gli orrori non erano finiti. Dopo poco più di un anno, la deportazione al campo di Bergen Belsen, lo stesso dove trovò la morte Anna Frank. Il trasferimento fu un incubo: la cosiddetta marcia della morte, con migliaia di deportati che in pieno inverno si dovettero spostare a piedi per centinaia di chilometri, vestiti di niente ed in mezzo alla neve. Ma Settimia sopravvisse anche a questa prova. Era troppa la sua “rabbia”, per non resistere fino all’estremo.


La rinascita, sotto un mucchio di cadaveri


A Bergen Belsen fu durissima, ma per fortuna si avvicinavano la fine della guerra e la liberazione. Rimaneva da superare l’ultimo incubo. Quando i Tedeschi si accorsero che per loro era finita decisero di sgombrare il campo, ma prima fecero un’ultima strage. La mitragliatrice cominciò a falciare il gruppo della camerata di Settimia. Durante i convulsi e disperati tentativi di sottrarsi ai colpi, fu inondata dagli schizzi del cervello di una compagna in fuga con lei. Presa dal terrore, istintivamente pensò che i tedeschi sparavano sui vivi, non sui morti. E si buttò sotto un mucchio di cadaveri, da dove fu recuperata, dopo due giorni di spaventoso “seppellimento”, un paio di giorni dopo, all’arrivo dei Russi. Era il 15 aprile, il giorno del suo compleanno, e Settimia poteva rinascere per la seconda volta.


Il ritorno e il grido della memoria


Fin dall’immediato dopoguerra, Settimia decise che non avrebbe taciuto né sarebbe fuggita di fronte alla memoria. Aveva troppa voglia di far conoscere al mondo gli orrori subiti. Diversamente da altri che si rintanarono in se stessi come sacchi svuotati, conservò la sua grinta, la sua energia, ebbe subito il coraggio di tornare a rivedere il campo della prigionia. Da allora, ci tornò qualche decina di volte, ma dovette attendere una quarantina d’anni, , perché le testimonianze dei deportati potessero espandersi in Italia e nel mondo grazie anche all’impulso dato da Steven Spieberg, dal suo film “Schindler’s list” e dalla sua Fondazione per la memoria della Shoah. Prima, era ancorano troppo viva l’eco e la voglia di costruire il futuro più che guardare al passato. Alla fine, è prevalso il grido del “Ricordare per non dimenticare”, perché non potesse succedere mai più.


Settimia, Cava e “Gli anni rubati”


E così fu istituita la Giornata della memoria, il 27 gennaio…

E così Settimia, dopo qualche sporadico incontro con alcune scolaresche e le prime interviste televisive, ebbe finalmente l’opportunità di pubblicare le sue memorie, grazie al suo primo, intensissimo incontro con gli studenti cavesi. Prodotto dal Comune di Cava (Sindaco Raffaele Fiorillo) e curato da Federica Clarizia, Teresa Avallone e Franco Bruno Vitolo, con una stesura di Ida Di Nepi, nel 1996 uscì in stampa “Gli anni rubati”, seguito poi da altre due edizioni rinnovate ed integrate. L’ultima, nel 2000, è uscita postuma, pochi mesi dopo la morte di Settimia, con le immagini di due momenti cruciali del suo rapporto con Cava: la proclamazione a cittadina onoraria e le foto del viaggio ad Auschwitz fatto con un gruppo di studenti (oltre che di ebrei romani) e finanziato in parte con le offerte devolute al suo libro in occasione delle peregrinazioni in tante città d’Italia, che proprio dalla pubblicazione hanno ricevuto un ulteriore incremento.


La voce di Settimia


Settimia è morta, nella “sua” Roma, il 3 luglio del 2000, ma la sua voce e quella dei suoi “anni rubati” è ancora viva: un grido di dolore ed un faro di pace in un mondo ancora schiacciato da troppe tensioni e, purtroppo, da mai seppelliti razzismi di tutti i tipi.

Settimia e gli “angeli” del Rione Filangieri.

Come già accennato, il gancio di Settimia con Cava de’ Tirreni è stata la famiglia di Angela De Vivo e Giovanni Benincasa, che nel Rione Filangieri abitano da oltre quarant’anni. Angela conobbe Settimia a Cetara nel 1994, attraverso una comune amica, e da allora è stata un’amicizia sempre più forte, di natura quasi familiare. La casa di Angela e Giovanni è stata per Settimia una seconda casa, dove ha trascorso tante volte le sue vacanze, o anche delle semplici permanenze: era il suo “rifugio”, uno dei suoi “gusci d’amore”.


Il ricordo di Angela e Giovanni


Così la ricorda Angela: “Settimia è stata per me una madre, una sorella, un’amica. Le tante volte che è venuta a casa nostra è stata trattata come la persona di famiglia che oramai era diventata. Mio marito Giovanni negli ultimi tempi le cedeva addirittura il suo posto nel letto matrimoniale. E così ho avuto modo di conoscere anche le sue notti “terribili”. Mentre di giorno era decisa, forte, aggressiva, allegra, di notte, prima di cercare di addormentarsi (spesso invano), sussurrava: “Adesso io torno nel lager”. Era il momento in cui i ricordi dei suoi anni rubati le mordevano l’anima e il cuore. Ma poi, al mattino, tornava la leonessa di sempre. Le ho voluto un gran bene. Ancora oggi mi manca, tanto, tantissimo. Giovanni conferma e aggiunge: “Con Settimia sono stato ad Auschwitz, ho visto con lei la sua baracca, il suo “letto”, quasi un loculo di cimitero, che doveva dividere con altre sei o sette persone. Non dimenticherò mai la stretta al cuore, l’impressione violenta che ho subito, non dimenticherò mai lo sguardo e la voce di Settimia mentre ci mostrava la “casa del suo dolore”, non dimenticherò mai la sua amicizia.

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