sabato 9 luglio 2011

Addio a Marek Edelmann, il guardiano delle tombe tra le atrocità del Novecento


"La vita è la cosa più importante in linea di principio. E fin quando c’è vita, la libertà è la cosa più importante. Ma allora se la vita è sacrificata per la libertà, alla fine non sai cosa sia più importante”. Si è spento il 2 ottobre 2009, a Varsavia, Marek Edelmann, vicecomandante della 'Rivolta di Varsavia' del 1943, l'insurrezione ebraica nel ghetto polacco contro i nazisti, durante la Seconda guerra mondiale. Edelmann aveva 19 anni, quando fu istituito il ghetto. 22, quando insorse insieme a pochissimi altri. Ancor meno furono i superstiti.

Era il 18 gennaio del '43 quando scoppiò la prima scintilla dell'insurrezione: la deportazione di 24.000 ebrei ordinata da Heinrich Himmler, comandante delle SS, fu impedita: solo 650 ebrei vennero trasferiti. Dopo quattro giorni di combattimenti, le unità tedesche uscirono dal ghetto e le organizzazioni insorte (ŻOB e ŻZW) presero il controllo. Himmler allora ordinò la distruzione del ghetto con la salvaguardia, però, di tutte le installazioni produttive.

Tra febbraio e marzo, le autorità tedesche cercarono di convincere i lavoratori a uscire spontaneamente. Non ebbero successo: molti operai andarono a rinforzare le file dei movimenti di resistenza armata. Nel ghetto, gli abitanti si prepararono a quella che avevano compreso sarebbe stata l'ultima battaglia. Migliaia di bunker vennero scavati sotto le case, molti collegati tra loro attraverso le condotte di scarico che portavano all'esterno, in zone sicure della città di Varsavia.

La battaglia finale si scatenò nel periodo del Pesach, la Pasqua ebraica, il 19 aprile 1943. I tedeschi inviarono all'interno del ghetto 2.054 soldati. I difensori li accolsero con un fuoco di armi leggere e lancio di granate lanciate dalle finestre dei piani più alti dei palazzi. I tedeschi invece contarono sui cannoni. La resistenza cessò il 23 aprile e la rivolta venne ufficialmente considerata risolta il 13 maggio, quando il comandante tedesco, Jürgen Stroop, per celebrare il successo, ordinò di radere al suolo la Grande Sinagoga di Varsavia.

Edelmann si salvò fuggendo nella zona 'ariana' di Varsavia attraverso il sistema fognario. Dopo la guerra, studiò medicina e divenne cardiologo. Non emigrò mai in Israele per le sue idee non-sioniste. Nel 1980 prese parte al movimento “Solidarnosc” che lottava contro la dittatura del governo comunista polacco. Divenuto dirigente di Solidarnosc, venne imprigionato dal Governo del generale Jaruselzski, ancora. Pure allora decise di rimanere: "Qualcuno deve pur restare a fare il guardiano delle tombe - diceva -".

Nel sentire evocare eroi, scontroso, una volta rispose: “La moralità della guerra è differente dalla moralità in tempo di pace. Tu uccidi in guerra e sei considerato un eroe, se non lo fai sei un debole e giudicato indegno. In tempo di pace, al contrario, se uccidi, sei giudicato e considerato un criminale.

Ero giovane, avevo un mitra in pugno, difendevo il ghetto dalle SS. O noi o loro, non c’era tempo per sentimenti. C’era solo la certezza che contro una dittatura si può sempre e solo lottare. Io penso sempre che quando la vittima è oppressa bisogna stare dalla sua parte. Bisogna darle riparo, nasconderla, senza paura e sempre opponendosi a coloro che vogliono schiacciare”.

L'ho osservato, in un'intervista televisiva, poche sere fa. La sua proverbiale intrattabilità m'è sembrata vergogna, per le azioni compiute e per la mattanza non riuscita a evitare. In fondo era solo un uomo, a cui erano capitate in sorte le atrocità del Novecento. Non andare via è stato, probabilmente, un non darla vinta, fino alla fine, fino a una morte chissà quante volte invocata, per sé.

Troppo gravosi quei pesi e quei ricordi che l'alcol e le sigarette, suoi eterni compagni di vita, non sono riusciti mai a sopire. Quando Gad Lerner, nel 2006, gli chiese se fosse stato felice, lui ebbe un moto, quasi di rabbia. Gli intimò di bere un bicchiere, incalzandolo: "Ma che domanda! E tu, tu sei felice?".

Marek Edelmann probabilmente è stato anche felice. Colpevole di felicità, colpevole di non essere morto ammazzato insieme agli altri. Ma pure doveva testimoniare, con la vita, la sconfitta del nazismo. Un uomo vivo, in piedi, tra le tombe.

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