domenica 17 luglio 2011

GANDHI - LETTERA A HITLER


Alla vigilia di Natale del 1940 Gandhi scrisse la sua seconda lettera ad Hitler. Una prima lettera, molto stringata e resa essenziale dal timore di dire cose inopportune, l’aveva scritta il 23 luglio 1939. Non giunse a destinazione: il governo indiano la bloccò nel timore che potesse compromettere i rapporti diplomatici con la Germania. Qualche mese dopo, del resto, Gandhi aveva risposto sconsolato ad un lettore che lo incitava a rivolgersi a Hitler: “Può essere insensato il mio appello a Hitler perché adotti la non-violenza. Sta marciando di vittoria in vittoria” (Collected Works of Mahatma Gandhi, vol. 79, p. 11). Anche questa seconda lettera fu bloccata dal governo indiano. Non è da credere, del resto, che le due lettere di Gandhi avrebbero potuto sortire un qualche effetto sul Führer. La speranza di poter cambiare il corso della storia, o anche solo di ottenere una semplice, breve tregua, con un semplice appello umanitario, appare inevitabilmente viziata da ingenuità.

"Caro amico,

se mi rivolgo a lei chiamandola amico non è per formalità. Io non ho nemici. La mia occupazione negli ultimi 23 anni è consistita nell’ottenere l’amicizia dell’umanità intera, mostrandomi amico degli esseri umani al di là delle distinzioni di razza, colore o credo.

Spero che abbia il tempo ed il desiderio di sapere in che modo una parte consistente di umanità, che vive sotto l’influenza di questa dottrina dell’amicizia universale, considera la sua azione. Non abbiamo dubbi riguardo al suo coraggio ed alla sua devozione verso la sua patria, né crediamo che lei sia il mostro descritto dai suoi oppositori. Ma i suoi scritti e le sue dichiarazioni e quelli dei suoi amici e ammiratori lasciano pochi dubbi sul fatto che molte delle sue azioni sono mostruose ed avverse alla dignità umana, soprattutto nel giudizio di uomini che come me credono nell’amicizia universale. Ad esempio l’umiliazione della Cecoslovacchia, la violenza contro la Polonia e l’annessione della Danimarca. Sono consapevole che, secondo la sua visione della vita, queste spoliazioni sono atti virtuosi. Ma noi siamo stati abituati fin dall’infanzia a considerare atti simili come atti che degradano l’umanità. Per questo non possiamo assolutamente augurarci che le sue armi abbiano successo.

Ma la nostra posizione è unica. Noi resistiamo all’imperialismo britannico non meno che al nazismo. Se c’è una differenza, è nel grado. Un quinto della razza umana è stato messo sotto lo stivale britannico, con mezzi non ineccepibili. La nostra resistenza non vuol dire che vogliamo far male al popolo inglese. Cerchiamo di convertirlo, non di sconfiggerlo sul campo di battaglia. La nostra è una rivolta non armata contro il dominio britannico. Sia che riusciamo a convertirlo o no, siamo determinati a rendere impossibile il loro dominio con la non-cooperazione non-violenta. Si tratta di un metodo per sua natura indifettibile. E’ basato sul riconoscimento del fatto che nessuno sfruttatore può raggiungere il suo scopo senza un certo grado di collaborazione, volontaria o forzata, della vittima. I nostri governanti potranno avere la nostra terra ed i nostri corpi, ma non le nostre anime. Potranno avere i primi solo con la completa distruzione di ogni indiano – uomini, donne e bambini. E’ vero che non tutti possono giungere a ad un tale grado di eroismo e che una certa quantità di terrore può piegare una rivolta, ma è un argomento che non centra il punto. Ma se si troveranno in India un certo numero di uomini e donne pronti, senza alcuna cattiva intenzione contro gli sfruttatori, a perdere la vita piuttosto che piegare le ginocchia davanti a loro, saranno essi a mostrare la via per liberarsi dalla tirannia della violenza. Le chiedo di credermi quando le dico che un numero sorprendente di tali uomini e donne in India. Essi hanno ricevuto questo addestramento negli ultimi vent’anni.

Nell’ultimo mezzo secolo abbiamo cercato di liberarci dal dominio inglese. Il movimento per l’indipendenza non è mai stato forte quanto oggi. L’organizzazione politica più potente, il Congresso Nazionale Indiano, tra cercando di raggiungere questo scopo. Abbiamo raggiunto un successo apprezzabile attraverso lo sforzo non-violento. Eravamo incerti sui mezzi migliori da adoperare per combattere la violenza meglio organizzata al mondo, che il potere britannico rappresenta. Lei lo ha sfidato. Resta da vedere quale sia meglio organizzato, quello tedesco o quello britannico. Noi sappiamo cosa vuol dire lo stivale britannico per noi e per le razze non-europee del mondo. Abbiamo trovato nella non-violenza una forza che, se organizzata, può senza dubbio combattere contro una combinazione delle forze più violente del mondo. Nella tecnica non-violenta, come ho detto, non c’è una cosa come la sconfitta. Si tratta di ‘vincere o morire’, senza uccidere o arrecare sofferenza. Può essere impiegata praticamente senza denaro e ovviamente senza l’aiuto di quella scienza della distruzione che avete portato a tale perfezione. E’ motivo di meraviglia per me che lei non veda che essa non è monopolio di nessuno. Se non gli inglesi, qualche altro potere perfezionerà il vostro metodo e vi batterà con le vostre stesse armi. Non lascia in eredità al suo popolo nulla di cui possa sentirsi orgoglioso. Non può essere orgoglioso del racconto di azioni crudeli, benché abilmente pianificate. Quindi, in nome dell’umanità, mi appello a lei affinché fermi la guerra. Non ci perderò nulla a rimettere tutti i motivi di disputa tra lei e la Gran Bretagna ad un tribunale internazionale scelto comunemente. Se avrà successo nella guerra, ciò non significherà che ha ragione. Ciò proverò soltanto che il suo potere di distruzione era maggiore. Al contrario, una sentenza da parte di un tribunale imparziale mostrerà, per quanto umanamente possibile, da quale parte sta la ragione.

Lei sa che non molto tempo fa ho fatto un appello ad ogni inglese ad accettare il mio metodo della resistenza non-violenta. L’ho fatto perché gli inglesi mi conoscono come loro amico, benché ribelle. Io sono uno straniero per lei ed il suo popolo. Non ho il coraggio di fare a lei l’appello che ho fatto agli inglesi. Questo non vuol dire che esso non sia diretto a lei con la stessa forza con cui è stato diretto agli inglesi. Ma il mio proposito attuale è molto semplice, perché molto più pratico e familiare.

In questa stagione in cui i cuori dell’Europa anelano alla pace, abbiamo sospeso anche la nostra lotta pacifica. E’ troppo chiederle di fare uno sforzo per la pace in un periodo che può non voler dire nulla per lei personalmente, ma che significa molto per i milioni di europei il cui muto grido per la pace io ascolto, perché le mie orecchie sono abituate ad ascoltare le moltitudini silenziose. Avevo intenzione di indirizzare un appello congiunto a lei e al signor [in italiano nel testo] Mussolini, che ho avuto il privilegio di incontrare a Roma nel corso della mia visita in Inghilterra, come delegato alla Conferenza della Tavola Rotonda. Spero che egli voglia considerarlo come rivolto anche a lui, anche se con i necessari aggiustamenti".

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