martedì 8 febbraio 2011

VIAGGIO VERSO LA MORTE

VIAGGIO VERSO LA MORTE


Tesina interdisciplinare su Auschwitz

di Massimo Lio - 20/05/2006

ANNETTE WIEVIORKA

“AUSCHWITZ SPIEGATO A MIA FIGLIA”

...

Mathilde, figlia di Annette, rimane scioccata vedendo sull’avambraccio di Berthe, amica di famiglia deportata nel campo di Auschwitz, un numero tatuato con inchiostro azzurrognolo. Inizia a porre delle domande alla madre, tra le quali:

1. Era doloroso il marchio sul braccio?
2. Che cosa facevano i tedeschi con gli ebrei? Chi sbrigava il lavoro?
3. Perché si parla soprattutto di Auschwitz?
4. Cosa avevano fatto gli ebrei? Per quale motivo i tedeschi volevano sterminare tutti gli ebrei fino all’ultimo?

A queste domande poste dalla giovane tredicenne, la scrittrice risponde:

1. Il marchio non procurava molto dolore fisico ma morale perché privava il deportato del proprio nome. “Nulla è più nostro” scrive Primo Levi in “Se questo è un uomo” e continua dicendo “ Si immagini ora un uomo a cui venga tolto tutto ciò che possiede: sarà un uomo vuoto, ridotto a sofferenza e bisogno, dimentico di dignità e discernimento, poiché accade facilmente a chi ha perso tutto, di perdere se stesso”. Il marchio sul braccio può essere paragonato, parzialmente, all’alienazione del lavoro, intesa da Marx: il capitalismo rende l’uomo una merce, lo spersonifica, lo aliena dalla realtà, proprio come il “numero”.

Primo Levi, ne “I sommersi e i salvati”, afferma: “L’operazione era poco dolorosa e non durava più di un minuto, ma era traumatica. Il suo significato simbolico era chiaro a tutti: questo è un segno indelebile, di qui non uscirete più; questo è il marchio che si imprime agli schiavi ed al bestiame destinato al macello, e tali voi siete diventati. Non avete più nome: questo è il vostro nuovo nome. La violenza del tatuaggio era gratuita, fine a se stessa, pura offesa: non bastavano i tre numeri di tela cuciti ai pantaloni, alla giacca ed al mantello invernale? No, non bastavano: occorreva un di più, un messaggio non verbale, affinché l’innocente sentisse scritta sulla carne la sua condanna. […] A distanza di quarant’anni, il mio tatuaggio è diventato parte del mio corpo. Non me ne glorio né me ne vergogno, non lo esibisco e non lo nascondo. Lo mostro malvolentieri a chi me ne fa richiesta per pura curiosità; prontamente e con ira a chi si dichiara incredulo. Spesso i giovani mi chiedono perché non me lo faccio cancellare, e questo mi stupisce: perché dovrei? Non siamo molti nel mondo a portare questa testimonianza”: è qui molto chiara la necessità di testimoniare l’accaduto e verrà ripreso più avanti.

2. Arrivati al campo di concentramento pochi continuavano per un tratto a piedi fino ai block che li avrebbero ospitati; la maggioranza saliva su dei camion, che li conduceva in dei fabbricati dove venivano fatti spogliare e portati in locali simili a docce. In questi locali veniva immesso il gas letale, Zyklon B. I loro corpi venivano poi bruciati in forni crematori. La “selezione”, così veniva chiamata la scelta fra chi entrava nel campo in quanto “abile al lavoro” e chi andava “al gas”, veniva coordinata da medici nazisti. Erano invece i detenuti del “Sonderkommando” coloro che dovevano bruciare i corpi.

3. Auschwitz è diventato il lager più tristemente famoso per diversi motivi: è sicuramente il campo con il maggior numero di morti (oltre 1 milione di vittime); parimenti è il campo con il maggior numero di sopravvissuti ad aver fornito testimonianze; inoltre è tristemente noto che Auschwitz sia stato l’unico lager in cui il numero di identità del detenuto veniva inciso nelle carni.

4. La storica risponde alla domanda della figlia dicendo “Nulla” e poi continua affermando che la vittima, benché innocente, si sente colpevole. Ancora una volta è molto importante il pensiero di Primo Levi. Egli dice che i “salvati” soffrono perché ora che sono liberi si rendono conto di aver vissuto per mesi come animali e in qualche modo si sentono colpevoli per non aver fatto niente o non abbastanza contro il sistema in cui erano assorbiti. Un’altra causa della “vergogna” delle vittime è il rendersi conto di aver mancato sotto l’aspetto della solidarietà umana. In effetti la regola principale del Lager era quella di badare prima di tutto a se stessi; ma il fatto di aver cambiato le proprie regole morali e di essere stati ridotti all’egoismo più assoluto sarà sentito per sempre come una colpa.

Inoltre il fatto di essere sopravvissuti fa sempre pensare che forse “sei vivo al posto di un altro”,

Levi infatti dice che i salvati non erano i migliori; di solito sopravvivevano i peggiori, gli egoisti, gli insensibili, i collaboratori, le spie; è stato un caso fortuito se è capitato ad altri di essere salvati.

Infine i sopravvissuti sentono la “vergogna del mondo” , cioè il dolore per le colpe che altri hanno commesso: soffrono perché si rendono conto che il genere umano, di cui fanno parte, è capace di costruire una mole infinita di dolore.

Insomma essi provano un senso di vergogna, di abbattimento generale, di disagio, che dura nel tempo e in molti casi porta, subito o più avanti, al suicidio, come è successo a Primo Levi. I nazisti non li accusavano di nessun crimine in particolare, ma semplicemente di essere quel che erano, ebrei. L’antisemitismo in Germania crebbe a dismisura dopo la sconfitta del ’14 – 18; sentimento alimentato dal senso di umiliazione inferto dal trattato di Versailles, dall’effetto della disoccupazione, dalla perdita del valore economico della propria moneta. Agli ebrei venne addossata, per la maggior parte dalla destra, la responsabilità di tutti quei mali, convinta che il Paese fosse vittima di un complotto ebraico internazionale (ecco perché lo scopo di Hitler era quello di sterminare tutti gli ebrei d’Europa, effettuando una vera e propria sterilisatio magna).

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