lunedì 28 febbraio 2011

PIERO TERRACINA

Piero Terracina racconta il suo 27, giorno della liberazione.

ROMA - Il gelo, la neve, le verze gelate che non si riuscivano a staccare con le mani nude e ormai stanche. E non si lasciavano mangiare. Le ginocchia e i gomiti sulla terra per strisciare perché di camminare non si ha più la forza. Poi la liberazione che as...sunse le sembianze di un soldato russo vestito di bianco. E lui, Piero Terracina, ebreo romano, che aveva appena 16 anni e una famiglia sterminata nel campo della morte, è l'unico della sua baracca a gioire. "Il soldato mi fece cenno di rientrare - racconta Terracina, superstite e instancabile testimone all'Ansa - perché si sparava e poteva essere pericoloso. Ai miei compagni di sventura dissi: sono arrivati i russi, siamo liberi. Ma non vi fu alcuna reazione. Solo il silenzio. Ricordo che un mio amico ebreo si stava tamponando delle piaghe con la neve per alleviare un po' il dolore. Si fermò un attimo, mi guardò, e riprese la sua operazione. Nessuno disse nulla. E come potevano. Quando si vive in mezzo alla morte, perché i morti erano fuori e dentro le baracche, si viene annullati, ridotti a larve umane. E non si prova quasi più niente". Un altro, polacco, qualche ora dopo tirò fuori un libro di preghiere in ebraico."Come aveva fatto a nasconderlo? Da una parte lo ammiravo - ricorda Terracina - ma dall'altra ce l'avevo con lui perché se le Ss avessero trovato quel libro, qualcuno sarebbe morto". Da cinque giorni i tedeschi avevano abbandonato il campo, "il 22 fu l'ultima nostra marcia là dentro. Sentivamo l'eco inconfondibile dei katiusha che si avvicinavano - ricorda - Avevamo fame e sete. Con le Ss erano spariti anche il cibo e l'acqua. Io ero giovane, uno dei pochi che si reggeva in piedi, e ricordo che trovai un magazzino con del cibo che distribuii ai miei compagni. Faceva così freddo quell'anno. La coperta che avevamo gelava all'altezza della bocca. La neve poi, per trasformarla in acqua, dovevamo raccoglierla lontano dei cadaveri che ormai erano dovunque". Piero Terracina è uscito da Auschwitz a bordo di un camion dell'Armata russa, "ma non il 27. Rimanemmo nel campo per altre due settimane. Ci portarono da mangiare. Troppo. E molti di noi morirono perché non erano più abituati al cibo. Ci pesarono anche. Il 27 gennaio la bilancia segnava 42 chilogrammi. Una settimana dopo, a causa della dissenteria, ne pesavo 38". Tra i suoi lucidi ricordi ci sono anche le lacrime sui volti dei soldati russi: "Anche loro, che avevano combattuto una guerra, non avevano mai visto uomini e donne ridotte così. E piangevano per noi".

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