sabato 12 febbraio 2011

"RITORNO DALL'INFERNO" tratto dal romanzo autobiografico di Imre Kertesz, SENZA DESTINO

E' un film crudo, volutamente crudo. Per la metà e oltre si svolge in un campo di concentramento e, sottoposto a vessazioni di ogni genere, è un ragazzino di quattordici anni, Gyuri, ebreo ungherese strappato alla sua famiglia una mattina qualunque in cui si stava recando al lavoro. Il suo essere solo ad affrontare un’odissea così spaventosa rende la cosa ancora più shockante, ma a salvarlo forse saranno proprio l’ingenuità e la voglia di vivere tipiche della sua età. Il passaggio dagli affetti familiari, tra cui regna sì preoccupazione per una situazione che si spinge sempre più sull’orlo del precipizio ma non la consapevolezza dell’immane tragedia che attende il popolo ebraico, alle atrocità del lager è mitigato, in piccola parte, dall’incontro con un prigioniero, che diventa per Gyuri una specie di padre. Gli insegna a rispettare la ferrea disciplina, lo sostiene nei momenti più difficili, lo tiene allegro perchè, anche in una situazione così estrema, essere positivi può significare salvarsi al vita. Il film diretto da Lajos Koltai, alla sua prima esperienza da regista dopo grandi soddisfazioni come direttore della fotografia, non fa sconti sulle atrocità compiute dai nazisti. Forse in certe scene forti si sfiora l’autocompiacimento, ma la durezza delle immagini è compensata dalla leggerezza mista a incoscienza con cui Gyuri riesce ad astrarsi dall’orrore. Non sempre, ma sicuramente all’ora del tramonto, quando i prigionieri sono lasciati tranquilli in attesa della zuppa serale e per il ragazzo ogni piccola cosa diventa essenziale, il sole che sfuma, la brezza leggera, la vita stessa che si ostina a non finire malgrado le crudeli privazioni.La resistenza del popolo ebraico è ben simbolizzata da una scena, quella in cui i prigionieri, lasciati per un giorno intero immobilizzati sull’attenti nel gelo dell’inverno, tremano, vacillano, si inarcano ma non cadono. I poveri corpi stremati, sottili come fuscelli, rimangono su, davanti agli sguardi senza pietà dei carcerieri nazisti.Scampato all’inferno, Gyuri torna in Ungheria, profondamente segnato fuori e dentro ma anche consapevole che quando si è morti una volta, si è anche capaci di ricominciare. E dietro l’angolo, in agguato, può esserci la felicità. Il finale, per nulla consolatorio, insegna che anche quando si è toccato il fondo dell’orrore, arrivando a considerare “naturale” ogni efferatezza subita e vista infliggere, si può continuare a conservare intatto un nucleo di innocenza, pulsante e vitale.

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