martedì 8 febbraio 2011

«Il bambino della foto sono io»

Tsvi Nussbaum: in quelle braccia alzate l' angoscia di un milione e mezzo di piccoli ebrei. Parla Tsvi Nussbaum, ritratto nell' immagine del 1943 e sopravvissuto ai Lager: oggi vive negli Usa "Io, piccolo ebreo della foto simbolo dell' Olocausto" SPRING VALLEY (New York) - A volte la vo...ce diventa un sussurro. Si spezza. E Tsvi deve fare ancora uno sforzo per superare il peso del silenzio: "I tedeschi chiamavano la gente per caricarla sui camion davanti all' hotel Polsky. Avevano una lista, ma il mio nome non era su quella lista... I miei genitori erano gia' stati ammazzati e io non sapevo che cosa fare... + allora che sono uscito dalla fila, e' allora che un tedesco ha gridato: "Alza le mani", e io le ho alzate. + allora che un altro tedesco ha detto: " + un bambino solo, tanto varrebbe fucilarlo subito", e che hanno scattato quella foto". Non dice mai "nazisti", Tsvi Nussbaum, dice sempre "tedeschi". Dice: "Io non ho perdonato i tedeschi. Io non ho dimenticato". Diciott' anni fa, nell' 82, ha rotto per la prima volta quei silenzi che gli avevano trasformato la vita in un incubo muto. E ha raccontato al mondo di essere lui il protagonista di un' immagine che ha fatto la storia del Novecento: lui, il bambino di quella livida giornata di Varsavia 1943. Vive negli Usa il protagonista del drammatico «scatto» nel ghetto di Varsavia: «Non posso provarlo, ma non ha più importanza: io non ho dimenticato» «Il bambino della foto sono io» Tsvi Nussbaum: in quelle braccia alzate l' angoscia di un milione e mezzo di piccoli ebrei Lui, con le braccine levate come un prigioniero di guerra davanti agli assassini della Gestapo, sotto quel berretto troppo grande, stretto in un cappotto striminzito, con i pantaloncini che sembrano cadergli sulle ginocchia, in mezzo a una folla di ostaggi destinati al martirio. Il peso simbolico di quell' immagine è enorme, il riconoscimento è stato a lungo discusso in questi anni, contestato anche da storici autorevoli. Molti hanno sostenuto che quel bambino sia morto in un campo di concentramento, altri si sono levati per dire «sono io» ma le loro voci si sono spente tra le contraddizioni e le smentite. Tsvi Nussbaum ha 64 anni, ne aveva poco più di sette nel ' 43. Abita nella contea di Rockland, a un' ora da New York. E' un otorinolaringoiatra adesso in pensione, negli Stati Uniti dal 1953. Ha una moglie americana, Beverly. Quattro figlie grandi, due nipotini, una lunga vita dall' apparenza serena. Seduto a un tavolo del Centro Studi sull' Olocausto di Spring Valley, tormenta due foto con le mani ossute, quella del piccolo prigioniero di Varsavia e la fototessera che fecero a lui nel ' 45, dopo la liberazione, prima di mandarlo dal Belgio nella futura terra d' Israele: la somiglianza è impressionante. Tsvi dice: «Sì, sono io quel bambino, anche se non potrò mai provarlo, anche se quasi non me la sento più di ripeterlo, anche se non è nemmeno importante che sia io. Ho detto molte volte quello che dico anche adesso: un milione e mezzo di bambini ebrei, di bambini dei lager, sta seduto qui, a questo tavolo, assieme a me, a gridare: sono io!». Nel 1942 la sua piccola storia di famiglia comincia a coincidere con la tragedia collettiva di sei milioni di persone. I Nussbaum sono tornati pochi anni prima dalla Palestina, dov' è nato Tsvi. Vivono nella campagna polacca, a Sandomjez. «Mia madre parlava bene il tedesco ed era coraggiosa. Andava lei al comando della Gestapo, per chiedere permessi a nome della comunità». Un giorno è lì a protestare per qualcosa: «Un ufficiale l' ascolta, tranquillo, prende nota, tranquillo, poi afferra tranquillamente la rivoltella dalla scrivania e le spara». Il padre di Tsvi viene ucciso poche ore dopo, forse dallo stesso nazista. «Venne da noi una donna, bella, bionda, si chiamava Miriam Shochat, mi portò con sé e mi nascose a Varsavia, facendomi passare per suo figlio... anche i miei zii e i miei cugini ci seguirono a Varsavia. Il mio fratellino non l' ho più visto, né i miei nonni, né la mia bisnonna. Noi eravamo nascosti fuori dal ghetto, quando il ghetto venne distrutto, tra il 19 aprile e il 16 maggio ' 43. La data d' inizio dell' operazione fu un' idea di Himmler. Hitler era nato il 20 aprile e Himmler volle fargli questo regalo di compleanno». Quei terribili 27 giorni furono documentati con teutonica pignoleria dal nazista che dirigeva la devastazione, il generale Juergen Stroop, che per questo si guadagnò la croce di ferro di prima classe. Stroop, attraverso il comando di Cracovia, mandava messaggi quotidiani a Himmler e raccolse orgogliosamente 54 fotografie di quell' orrore: ebrei denudati, mani sulla testa, fagotti umani davanti a macerie e case che bruciano. Una delle 54 foto del «Rapporto Stroop», la numero 12-202z, è proprio quella che diventerà la foto del secolo: «il bambino del ghetto». Ma il punto sta proprio qui, dice Tsvi: «Se quella foto è davvero stata scattata nel ghetto, tra aprile e maggio, il bambino non posso essere io, perché nel ghetto non c' ero. Noi eravamo nascosti fuori, all' hotel Polsky. Però Stroop si è fermato a Varsavia fino a settembre. Io credo che abbia integrato il suo dossier. E sono convinto che quella foto sia stata scattata il 13 luglio 1943, il giorno che ci hanno portato via. Non nel ghetto, perché nel ghetto i bambini morivano di fame per strada mentre in quella foto stiamo tutti male ma nessuno è davvero denutrito... «Sì, avevamo i cappotti addosso a luglio, mi hanno contestato anche questo, poi: ma avevamo addosso tutto quello che si poteva portare. Un papà costrinse la figlia a mettere gli stivali e lei piangeva: è stata l' unica dei suoi a non congelare». Il 13 luglio ' 43, dunque. L' hotel Polsky. «Ci avevano detto: vi rimandiamo da dove siete venuti, tornate in Palestina. Così siamo usciti dai nascondigli e ci hanno caricato sui camion e poi sui treni. Ma un treno era diretto a Auschwitz. L' altro, il nostro, a Bergen Belsen. Io non ci sarei neanche arrivato a quel treno, i tedeschi mi avrebbero fucilato subito perché ero un bambino solo. Mio zio s' è fatto avanti, ha detto "questo è mio figlio" e mi ha salvato. Mio zio si chiamava Shalom Nussbaum, è morto un anno fa a Toronto, per me è stato un altro padre... Del viaggio ricordo che i tedeschi giocavano a tiro a segno sui nostri vagoni che passavano. Del lager ricordo poco. So che non posso più vedere le bucce di patata, perché mangiavo soprattutto bucce di patata. So che fino a dieci anni fa non sopportavo i vestiti a righe, perché mi ricordavano la divisa del campo. So che ho paura dei cani, perché i cani del campo mi terrorizzavano. So che conservo sempre un pezzo di pane per domani, perché domani non sai se i tedeschi ti daranno da mangiare. Poi ricordo il sergente americano che ci ha liberato, mentre i tedeschi ci stavano trasferendo ancora in treno a Magdeburgo e si strappavano le spalline da ufficiali per sembrare semplici esecutori di ordini: si chiamava Cohen, quel sergente». Il resto è la vita che cerca di tornare a scorrere, la laurea a New York, il matrimonio, i bambini: «Ho sempre tentato di guardare al domani». Ma raccontare davvero è difficile, quasi impossibile. «No, non ne ho mai parlato con le mie figlie. E soltanto una volta ne ho parlato con mia moglie. Loro non mi chiedono nulla, mai, sanno cosa vuol dire per me. Per capire cos' era, devi esserci stato. Io qui ho solo amici americani, quando sono stato in Israele ho trovato solo gente nata nei kibbutz, ormai, nessuno sa». Chi sapeva era Marc Berkowitz, una figura carismatica nei circoli dei sopravvissuti all' Olocausto. E' Berkowitz che all' inizio dell' 82 squarcia il velo della memoria. «Era un mio paziente, sopravvissuto agli esperimenti di Mengele ad Auschwitz. Io gli parlavo del mio passato, lui mi parlava del suo. Mi diceva: "Come fai a sapere che non sei tu, in quella foto?". Io rispondevo: "Perché è una foto del ghetto". Fece delle indagini, tornò da me: "La foto non è del ghetto, e credo proprio che sia tu quel bambino", mi disse». Tsvi Nussbaum si alza. Guarda il cielo grigio su Spring Valley, dalla finestra del centro studi. «A volte preferirei davvero che quel bambino fosse rimasto senza nome. Perché le foto di oggi, le interviste, anche quest' intervista... tutto è una pena enorme. Ma poi penso che lo devo al mio popolo. Al nostro futuro. Perché quello che è successo non succeda mai più. E allora riesco ancora a vincerlo, il silenzio».

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