sabato 12 febbraio 2011

LA VIOLENZA DEI NAZISTI NEI LAGER

1. Violenza fisica e violenza psicologica


L’uso della violenza era una pratica quotidiana, parte integrante della vita nei lager. Le vittime internate nei campi erano continuamente soggette a questa violenza, fine a se stessa e volta quindi unicamente alla creazione di dolore. «Era il frutto della follia collettiva dei nazisti, i quali avevano generato questo disumano piano di distruzione».

La violenza nei campi era attuata per lo più per sadismo: le vittime venivano malmenate, torturate e sottoposte alle più terribili umiliazioni per semplice divertimento delle SS. Questa malignità gratuita e deliberata aveva effetti, certo, sul piano fisico, ma anche e soprattutto su quello psicologico: secondo Primo Levi, l’intento principale era distruggere la personalità del deportato, umiliarlo e offenderlo fino al punto di favorirne l’assuefazione, cioè l’avvio della sua trasformazione da essere umano in animale. A queste parole si possono affiancare quelle di Sergio Coalova: «La nostra personalità è ormai del tutto compromessa: la sottile perfidia dei nazisti riesce, nel breve volgere di pochi giorni, a trasformare in un branco di esseri abbrutiti coloro che avevano osato opporsi alla loro belluina violenza e alla loro arroganza di  dominatori».

                                    

La più terribile delle morti era quella per disperazione: per spegnere l’ultimo barlume della speranza di salvezza ancora presente nei prigionieri, “occorreva che il campo fosse continuamente percosso e terrificato dall’imperversare di un uragano di criminale follia”, “affinché lo spirito morisse prima della carne”.

Il nazismo aveva ideato una vera e propria scienza della distruzione della personalità, tale da gettare l’individuo nell’angoscia più totale, riversando su ognuno l’agonia di tutti i compagni.

Alcune manifestazioni di questa violenza si potevano riscontrare nella costrizione escrementizia e nella costrizione alla nudità: l’offesa al pudore faceva parte del ritmo quotidiano del lager e per i prigionieri era veramente faticoso ed umiliante abituarsi all’enorme latrina collettiva, ai tempi stretti ed alla presenza degli altri che ne dovevano usufruire e che quindi assistevano; le SS si facevano addirittura beffa dei deportati piazzando uno di essi con un costume buffo davanti ad una latrina, con l’ordine di concedere a coloro che erano afflitti da qualche disturbo un solo minuto per liberarsi.

La costrizione alla nudità prevedeva invece la rasatura totale e settimanale di ogni prigioniero e tutta una serie di spoliazioni per il controllo dei pidocchi o per la perquisizione degli abiti: senza peli, capelli, scarpe e vestiti i prigionieri, pervasi da una sensazione di impotenza e posti sotto gli occhi di tutti, si sentivano come lombrichi che potevano essere schiacciati da un momento all’altro.

Un’altra imposizione, escogitata con il preciso intento di umiliare, consisteva nel far mangiare i prigionieri come cani, senza cucchiai, nonostante questi non mancassero.


       I guardiani di un lager si divertono a vedere un ebreo da loro
       obbligato a cavalcare un compagno

Far restare i deportati per due o tre ore sotto la pioggia a dieci-venti gradi sotto zero aveva lo scopo di portare rapidamente alla morte i meno resistenti al lavoro, ma era anche una delle innumerevoli sevizie morali per degradare lo spirito di chi sopravviveva.

Vi erano moltissimi modi con cui le SS, infliggendo umiliazioni ai deportati, si procuravano divertimento e nello stesso tempo causavano sofferenze o la morte dei più deboli: ad esempio il lancio del berretto sul reticolato ad alta tensione con l’ordine di riportarlo, il calcio nel ventre al primo che capitasse a tiro di uno stivale tedesco, le lunghe soste notturne all’aperto sotto la neve e il divieto di pulirsi il naso con un pezzo di carta, la lacerazione delle camicie prima di distribuirle ai prigionieri, la marcia di 50 km per sperimentare una nuova qualità di suole di scarpe o quella a piedi scalzi su frantumi di vetro, l’ordine dato ad un infermo di correre per il campo abbaiando, le giostre degli ebrei obbligati a correre in circolo per un’ora cantando o l’ordine di scavare buche con le mani pur avendo gli attrezzi accanto.

Poi vi erano le cosiddette “vitamine”, nome con cui venivano chiamati i lavori serali: i deportati erano sottoposti a tutta una serie di esercizi fisici, dalle flessioni alla corsa, dal salto della rana alla marcia sulle ginocchia e sui gomiti, oppure dovevano trasportare per ore lunghe assi o pietre pesanti da un posto all’altro, tra due ali di SS, o ancora dovevano fare delle specie di “combattimenti tra gladiatori”.

Un’altra tortura psicologica era quella di veder morire i propri compagni senza poterli aiutare, senza potersi minimamente avvicinare a loro.



Una delle umiliazioni più terribili era poi il tatuaggio del numero di matricola, eseguito dagli scrivani sugli avambracci sinistri dei prigionieri; questo tatuaggio aveva innanzitutto un significato simbolico, era cioè un segno indelebile che condannava i deportati per l’eternità e imponeva loro un nuovo nome, indicandoli come schiavi o animali al macello; un messaggio non verbale affinché l’innocente sentisse scritta sulla carne la sua condanna, ma anche un’offesa religiosa in quanto il tatuaggio era vietato dalla legge mosaica, poiché distingueva gli ebrei dai barbari. Questo era dunque un ulteriore tentativo di accelerare la degradazione degli esseri umani in animali. L’immatricolazione dei deportati per mezzo del tatuaggio avveniva però solo ad Auschwitz, mentre negli altri campi si procedeva solitamente con la consegna di una targhetta di metallo numerata unita ad un fil di ferro per essere fissata al polso.

Il sadismo tedesco non aveva limiti e distruggeva nei prigionieri qualunque speranza di salvezza e qualunque potere di resistenza; per le SS questa violenza era ovvia: l’educazione impartita dalle scuole del regime nazista insegnava a umiliare, a far soffrire il “nemico” senza ragionare, senza secondi fini. Ma che senso avevano le umiliazioni e le crudeltà, visto che alla fine i prigionieri sarebbero stati uccisi tutti? «Prima di morire, la vittima deve essere degradata, affinché l’uccisore senta meno il peso della sua colpa», dice Primo Levi, esplicitando il senso della risposta data dal nazista Stangl, detenuto a vita nel carcere di Dusseldorf: è questa l’unica utilità della violenza inutile.

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