Lidia Borghi vive ad Avigno. Nel 1943 lei e il marito Silvio nascondevano ebrei nella loro casa e li portavano in Svizzera verso la salvezza.
"Carissima famiglia Borghi, non potremo mai dimenticare quei tragici giorni quando l’Italia veniva occupata, ci avete nascosti, ci avete curato come se fossimo vostri figli. Questo non si potrà mai pagare. Avete rischiato la vostra vita per salvare degli internati stranieri, che erano deportati a forza da parte dei barbari fascisti». Questa lettera, firmata da Leone e Raffaele Talvi, due fratelli ebrei, è stata spedita da Zweidlen, Svizzera, il 2 aprile 1945. I destinatari erano Silvio e Lidia Borghi, due italiani di Mortizzuolo, un paesino vicino Mirandola, in provincia di Modena.
Oggi Silvio non c’è più, riposa al cimitero di Velate. A ricordare per lui c’è, però, la moglie Lidia Caleffi che ha 96 anni e vive ad Avigno con la figlia e il genero.
1 Ottobre 1943. Silvio Borghi è un “casaro”, uno che sa fare i formaggi. Un giorno al mercato di Mirandola conosce la famiglia Talvi, ebrei di Belgrado. Erano in Italia perché il capofamiglia Ilija faceva parte del corpo diplomatico jugoslavo a Roma. L’occupazione tedesca li aveva costretti a sfollare verso nord in cerca di una via di fuga. Con lui c’erano la moglie Rebecca, i figli Raffaele, Leone e Alice, incinta di sei mesi, e il genero Menahem Almoslino. «Mio marito - racconta Lidia - era un uomo aperto. Aveva fatto il militare a Spalato e quando conobbe i Talvi fece subito amicizia. Era una famiglia dell’alta borghesia ebraica, di ottimo livello culturale. Non avevano però nulla perché prima i fascisti e poi i nazisti li avevano spogliati di tutto. E così Silvio li invitava a casa a mangiare».
Nel 1943 lo sterminio nelle camere a gas del popolo ebraico è in piena attività e la stretta dei tedeschi sugli ebrei si fa sentire anche a Mirandola. La famiglia Talvi è costretta a nascondersi. Don Sala, parroco di San Martino, accoglie i coniugi, Ilija e Rebecca, la loro figlia Alice e il marito. Gli altri due figli, Raffaele di 25 anni e Leone di 22, dopo essere stati respinti da una famiglia, si rivolgono a Silvio Borghi. «Arrivarono a casa in bicicletta e Silvio non esitò. Adattammo la stanza di Enzo, il mio figlio più piccolo, chiudendo l’entrata con un armadio, con la scusa di dover stagionare il formaggio. Di giorno se ne stavano rintanati nella stanza a disegnare. Alla sera tardi, si spostava l’armadio e si facevano scendere i due ragazzi in cucina per mangiare e per camminare un po’ nell’orto per sgranchirsi le gambe».
Lidia custodisce ancora con cura quei disegni. Sono scene di campagna e alcuni autoritratti che rispecchiano lo stato d’animo dei due giovani: volti carichi di angoscia, molto più vecchi dei loro vent’anni.
La situazione precipita, i rastrellamenti dei nazifascisti sono sempre più frequenti. Per i Talvi l’unica via di salvezza è la Svizzera. Intanto la voce che Silvio Borghi aiuta gli ebrei si diffonde nella comunità ebraica di Mirandola e così anche altre persone, fra cui Mara Martinovic e Leon Hoffmann, bussano alla sua porta.
La Svizzera è troppo lontana, e l’unico contatto di Silvio è Dino Riva, un commilitone di suo padre che vive a Cernobbio, in provincia di Como, vicino al confine elvetico. Don Sala viene mandato un paio di volte in avanscoperta nel comasco per verificare la disponibilità dei Riva a organizzare l’espatrio clandestino. «Mio marito non aveva mai viaggiato. Ma non ci pensò due volte: radunò la famiglia Talvi e partì».
21 ottobre del 1943. Il gruppetto, formato da sette persone, arriva a Milano, da lì raggiunge Como in treno e poi Cernobbio in pullman. Arrivati in paese Silvio, che non sa dove abitano i Riva, va avanti mentre i Talvi si nascondono in un bosco vicino al paese.
«Era sera e iniziava il coprifuoco - continua Lidia -. C’era anche una pattuglia di ronda che veniva nella loro direzione. Mio marito andò a cercare la via dove vivevano i Riva. Prendendo un sentiero si trovò a passare a ridosso del retro di una casa e da una finestrella udì alcune voci e riconobbe quella di Dino, che era molto particolare. Bussò, e Dino gli aprì la porta. Mio marito tornò indietro e recuperò a due a due il gruppetto e li portò a casa».
I Riva chiamano alcuni giovani passatori che conoscono bene i sentieri tra i monti che portano al confine. Le valige dei Talvi sono troppo pesanti. Vengono svuotate e il contenuto ripartito negli zaini, più facili da trasportare in salita. Per avere qualche possibilità di farcela si dividono in più gruppetti e si mantengono distanziati. Alice, incinta all’ottavo mese, viene affidata a due passatori, perché in alcuni tratti deve essere portata a braccia. Alla fine tutti passano il confine e raggiunta un’altura in territorio svizzero e ormai in salvo, sventolano i fazzoletti per salutare i passatori e Silvio.
Tornato a Mortizzuolo, Silvio organizza subito un altro viaggio. Questa volta tocca a Leon Hoffmann, ebreo di Zagabria e commerciante di stoffe. Una volta raggiunto il territorio svizzero, Hoffmann consegna a Silvio un biglietto di ringraziamento per lui, ma chiedendogli di farlo leggere anche agli altri ebrei confinati a Mirandola. Quel biglietto contiene una parola in codice, ”pane”, che per la comunità ebraica significa speranza e anche salvezza.
Nel 1945 Alice Talvi, suo marito e la bimba, che nel frattempo è nata, si trovano nella Svizzera francese, Leone e Raffaele in un campo di lavoro a Zweidlen, Ilija e Rebecca Talvi a Finlaut nel Canton Vallese. Scrivono molte lettere alla famiglia Borghi, continuando a ringraziare. In una di queste c'è anche una frase che, alla luce dell’attuale dibattito sulle radici comuni del Vecchio Continente, suona profetica: «...Avete dimostrato di appartenere a quel blocco in cui è unita tutta l’Europa nella lotta contro il nemico della civiltà, al blocco antifascista. Non c’è cosa al mondo con cui si potrebbe pagare il debito verso di voi».
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