Psicoterapeuta, è nata a Berlino nel 1927 da una famiglia di benestanti ebrei tedeschi.
Nel 1942, insieme alla famiglia fu deportata a Terezin e, successivamente, ad Auschwitz e Mauthausen.
Nel 1967 è tornata in Italia, il primo luogo dove si è sentita 'libera', e da allora vive e lavora a Roma.
Ha scritto la sua storia in un libro dal titolo Le mie nove vite - attraverso il retrospettoscopio, in attesa di pubblicazione.
IL MIO PRIMO RITORNO AL PASSATO IN TEREZIN
Alcune settimane fa Marcello Pezzetti, storico del C.E.D.E.C. (Centro di documentazione della Shoah di Milano), mi chiamò per chiedermi se ero disposta ad andare a Terezin con lui, ai primi di novembre, per partecipare a un documentario che il regista Ruggero Gabbai doveva girare sul luogo per Mediaset e che poi sarebbe stato trasmesso il 27 gennaio 20004.
La mia prima reazione fu di shock, sgomento e paura. Dopo che Marcello mi rassicurò dicendomi che sarebbe rimasto tutto il tempo con me, iniziai a prendere in considerazione la proposta.
Giunsi alla conclusione che, visto che il mio primo ritorno a Berlino per partecipare al gruppo di dialogo di One by One, nonostante l’enorme difficoltà, mi aveva permesso un confronto positivo con il passato – come ho descritto ne “Il mio viaggio di trasformazione” – avrei dovuto affrontare il blocco emotivo ed intraprendere anche questo nuovo ritorno al passato come un altro ostacolo ancora da superare.
Nonostante avessi preso la decisione, i timori si sono manifestati attraverso un “lapsus”: dovendo arrivare all’aeroporto molto presto, misi la sveglia alle 5. Dopo una notte quasi insonne, quando sentii la sveglia e la guardai mi accorsi che invece l’avevo messa alle 6, rischiando così di perdere il volo! Dopo una corsa pazzesca in taxi, nonostante il tentativo inconscio di sabotaggio, alla fine riuscii a partire.
Una delle mie paure riguardava i miei “buchi di memoria”: temevo che, se avevo “dimenticato”, poteva diventare rischioso disfare la “repressione” e affrontare ciò che avevo “dimenticato” di Terezin.
Mi sono fatta coraggio pensando a ciò che Shakespeare dice nel Macbeth: “E’ più difficile sopportare delle immagini orrende che affrontare una realtà orribile”. E in effetti è stato proprio cosi: la realtà odierna di Terezin è stata molto più facile delle mie orrende immagini.
Marcello mi accolse all’aeroporto di Praga e poi mi fece da cicerone durante un giro turistico di questa magnifica città. Il tempo era bellissimo, pieno di sole e non troppo freddo, una bella e inattesa sorpresa per novembre.
Stranamente riconobbi il ponte Carlo e il castello Hradcin: quando avevo visitato Praga con mia famiglia avevo 5 o 6 anni. Questo dimostra che la mia parziale amnesia è collegata soltanto a situazioni traumatiche.
Molto presto il mattino seguente, con la troupe e l’attrezzatura per le riprese ci dirigemmo su due macchine verso la stazione.
Ma lungo la strada perdemmo di vista il nostro “pilota” ceco, per raggiungerlo saltammo un semaforo rosso e venimmo subito fermati dalla polizia. Dopo una mancia di 4000 corone, ci lasciarono proseguire! Arrivammo che il treno stava per partire: ci mettemmo a gridare che dovevamo salire e il treno ci aspettò, senza mance questa volta!
Con Marcello e tre cameramen salimmo sul treno mentre gli altri proseguirono con le due macchine. Con mio sgomento, l’intervista con Marcello e le riprese iniziarono già durante il viaggio in treno: un viaggio ben diverso da quello da Berlino in un carro bestiame, sigillato, verso una destinazione sconosciuta, di tanto tempo fa, nel lontano giugno1942.
Marcello iniziò l’intervista chiedendomi della mia vita a Berlino e di come iniziai a capire del nazismo in arrivo. Parlai del nostro background per poi ricordare vari e ben nitidi episodi su ciò che significò per me essere una bambina “tedesca” assimilata, che si accorge d’essere ebrea dopo il 1933: la proibizione di giocare con una compagna di scuola a causa del mio cognome; quando venni dichiarata “ebrea indesiderabile” (unerwuenscht), proprio come era già scritto davanti a tanti negozi; l’esclusione dall’esibizione ginnica della mia scuola in occasione dei Giochi Olimpici; quando vidi sfilare una tremenda parata antisemita nel centro di Berlino tra gli applausi della folla. Solo per menzionare alcuni esempi del crescendo senza fine da cui non c’era scampo per chi non era riuscito a emigrare in tempo.
Dopo un’ultima serata di musica da camera a casa nostra, fummo denunciati. Il giorno dopo arrivò il temuto bussare alla porta della Gestapo che cercava mio padre, che però non era in casa.
Poco dopo venimmo a sapere che era stato portato nella prigione della Gestapo ad Alexanderplatz, nel centro di Berlino, ma senza riuscire a sapere se era ancora in vita. Pochi giorni dopo venne l’ordine di preparare una piccola valigia a testa e venimmo portati al centro di raccolta per i trasporti. Lì ho rivisto mio padre. Il mio sollievo nel trovarlo ancora in vita fu talmente grande che prese il sopravvento sull’orrore del viaggio in carri bestiame, verso una destinazione sconosciuta che, dopo 3-4 giorni di viaggio, si rivelò essere Theresienstadt, il “ghetto per i privilegiati”.
Sembrò in effetti esserlo, perché non si vedevano né SS con i cani né il bagliore dei forni crematori; dei prigionieri ebrei con la loro stella gialla in evidenza ci accompagnarono al nostro indirizzo nuovo: stalla n° 4, nella caserma Bodenbacher.
Ritornando in quel luogo adesso, mi era impossibile riconnettere ciò che ricordo con quello che vedevo intorno a me, tranne che per i bastioni delle mura attorno al ghetto, dove una volta c’erano gli orti, lì alcuni ragazzi dovevano lavorare sotto controllo delle SS, senza mai poter mangiare nemmeno un pomodoro o una carota.
Giungemmo in un piccolo villaggio di provincia con la piazzetta centrale alberata e con un prato, circondata da casette con tendine bianche ed inamidate alle finestre; ma non potevo riconoscerla. Andammo in cerca di un’altra piazzetta che pensavo di ricordare: più piccola, pavimentata e senza alberi, circondata dalle caserme, ma non riuscii a trovarne una che assomigliasse ai miei ricordi. Passando, in una delle baracche, tutta ripulita, vedemmo il museo, dove poi andammo più tardi.
Ci fermammo in un piccolo e malandato ristorantino sulla piazza per prendere un caffè e per andare al bagno. Le toilette sporche e maleodoranti mi fecero ricordare la terribile puzza delle latrine, adesso non più in evidenza. Proseguimmo per la caserma Dresdener, quasi totalmente in rovina e chiusa, ma venne aperta per noi. Dentro c’era il grande cortile, che fu utilizzato per le riprese della partita di calcio per il film propagandistico: “Hitler regala una città agli ebrei”. Non ricordavo nulla, tranne ciò che avevo visto in uno spezzone di quel film qualche anno fa. Nel cortile c’era anche una grande piscina blu e vuota, sono sicura che non esisteva all’epoca. Probabilmente fa parte del progetto di convertire la Dresdener in un bell’albergo per turisti!
Parte della mia intervista si svolse in questo cortile, adesso alberato, davanti alle finestre rotte. Poi andammo al piccolo, malridotto negozietto di libri dove ho chiesto informazioni per trovare la Bodenbacher Kaserne. L’impiegato negava l’esistenza di un posto con quel nome. Cercando in una delle piccole guide, trovai che effettivamente la Bodenbacher non era indicata sotto questo nome, ma trovai un’indicazione che spiegava come una volta avesse avuto questo nome, ma che poi era cambiato; non ricordo il nuovo nome. Ci recammo lì, perché volevo rivedere la stalla n° 4, il nostro primo indirizzo a Terezin.
Ma una volta arrivati, vidi che, a destra e sinistra dell’entrata, dove avrebbero dovuto trovarsi le stalle, c’erano degli ampi locali in costruzione: ancora un altro albergo?
Poi visitammo il Museo, in una caserma completamente rinnovata e pulita, molto diversa delle altre baracche. All’interno, lo stanzone ricostruito di una baracca aveva poco a che fare con ciò che ricordo della nostra sistemazione nel Kinderheim L.414.
Si, c’erano i soliti letti-doppi a castello di legno a 3 piani, però ognuno con 2 o persino 3 scale a pioli; ai lati dei letti c’erano addirittura dei ripiani, altri erano incassati nei muri con sopra delle stoviglie; c’era un tavolo con sedie e panchine, lavabi, un secchio per l’acqua più un catino, tutte cose che noi non avevamo mai avuto. Guardando più da vicino le valigie sugli scaffali, mi sono accorta che avevano nomi ed indirizzi cechi – da ciò immaginai che si trattava di una baracca per i Cechi, evidentemente in grado di organizzarsi con gli attrezzi necessari molto meglio di noi, che non avevamo mai potuto avere niente del genere. Perciò, questa ricostruzione non è per nulla rappresentativa delle condizioni generali di vita nel ghetto, mostrando solo una situazione atipica di “privilegio”!
Da lì andammo a vedere il “teatro” che si trovava in uno stanzone con 3 pupazzi a misura d’uomo in costume. Dei manifesti sui muri spiegavano che il “teatro” e il “cabaret” esistevano sin da 1941! Da quello che ricordo e so, queste attività sono iniziate soltanto nel 1943, in occasione dei preparativi per l’ispezione della Croce Rossa e dell’imbellimento del ghetto (Stadtverschoenerung) per girarvi il film di propaganda. Ma mi chiedo adesso se i prigionieri cechi in qualche modo avevano avuto un trattamento più “privilegiato” rispetto a noi.
Comunque mi sembra che persino il Museo stia perpetuando il mito di un’esistenza “privilegiati” nel ghetto, privo com’è di adeguate spiegazioni sulla differenziazione di trattamento a Terezin. Da nessuna parte ho visto notizie o statistiche sulle epidemie che decimavano il ghetto, o notizie dei trasporti e di tutto ciò che terrorizzava la nostra esistenza e tanto meno informazioni sul fatto che Terezin era un campo di transito, verso la “soluzione finale” nelle camere a gas di Auschwitz-Birkenau.
Purtroppo non abbiamo avuto tempo per andare a vedere i disegni e le poesie dei bambini di Terezin, che hanno descritto la realtà del terrore del tifo, della fame, dei trasporti e della morte che minacciavano tutti noi.
Gabbai e i suoi collaboratori hanno anche intervistato e filmato la pittrice ceca Weissova nella sua casa a Praga, dove ha potuto far ritorno subito dopo la liberazione. Devo confessare che ho avvertito un senso di invidia quando sentii parlare della restituzione immediata – evidentemente possibile soltanto nella Repubblica cecoslovacca d’allora.
L’unico posto che mi è apparso un degno memoriale di Terezin, è stato il cimitero situato fuori dalle mura del ghetto, di fronte alla Piccola Fortezza, usata dalla Gestapo per gli interrogatori e le fucilazioni.
Il cimitero è diviso in due sezioni: una per i cristiani, contraddistinta da una grande croce, e l’altra per gli ebrei con un’enorme Stella di Davide. Tutte le tombe identiche e ben curate hanno targhette con i nomi e sono circondate da piantine di rose.
Siamo arrivati lì durante un tramonto meraviglioso; il sole si tingeva di rosso e la grande Stella di Davide era riflessa contro il muro della Piccola fortezza.
Per me questo ha rappresentato un degno memoriale del passato storico, dimenticato e spesso negato, di Terezin.
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