domenica 8 luglio 2012

Piccoli ebrei come Pelè nel film. Una partita per salvarsi la vita

I fratelli Gustavo, Giulio, Attilio e Carlo Reichenbach


Anche quella dei fratelli Gian Giacomo e Giancarlo Reichenbach è stata una fuga per la vittoria e una fuga per la vita. Ma la loro partita - come nel film Escape to Victory del 1981, diretto da John Huston - non è stata una parata di assi del pallone a cui parteciparono attori e fuoriclasse come il brasiliano Pelé, tre volte campione del mondo, il capitano della nazionale inglese Bobby Moore, il belga Van Himst, il polacco Deyna, l'argentino Ardiles o Sylvester Stallone. La partita dei Reichenbach si giocava tra ragazzi di Cerro e sfollati. Nessuno sapeva che in palio c'era la vita, come invece nella finzione cinematografica o come tragicamente è accaduto nella partita della morte, a cui il film si ispirò, giocata a Kiev il 9 agosto 1942 fra lo Start, una squadra mista di giocatori della Dinamo e del Lokomotiv, e la squadra degli ufficiali tedeschi della Luftwaffe.

I Reichenbach erano figli dell'alta borghesia veronese. Nel settembre 1943 la vacanza a Cerro dei due ragazzi, 16 anni Gian Giacomo e 13 Giancarlo, ebbe una fine brusca. «Eravamo alla tradizionale partita domenicale», racconta Domenico Scala, medico odontoiatra, allora studente ventenne a Padova e primo laureato di Cerro in farmacia, uno che alla partita non mancava mai, sul campetto vicino al cimitero, oggi diventato piazzale Alferia. «I due Reichenbach li conoscevamo tutti. Sapevamo che erano ebrei, ma nessuno di noi tradiva l'amicizia».

«Ero loro coetaneo», aggiunge Gaetano Zanella. «Ero salito a Cerro da Verona dove studiavo, ma quell'anno anticiparono la chiusura estiva delle scuole e quando arrivai a Cerro loro erano già qui». Zanella non sapeva che per le leggi razziali, promulgate nel 1938, a Gian Giacomo e a Giancarlo era preclusa la frequenza delle scuole. Potevano dare gli esami come privatisti, ma non frequentare le lezioni. «A Cerro non c'era nessuna discriminazione nei loro confronti», aggiunge Zanella, «ma poi sono spariti improvvisamente e non ho più saputo nulla».

A organizzare quelle partite era Ferdinando Chiampan, il futuro sindaco di Cerro e presidente dello scudetto dell'Hellas Verona. Già allora, sedicenne, coltivava la passione del calcio. «Giocavano», racconta Chiampan, «Emilio Folgore, artista che aveva lavorato a Parigi, gli Isalberti, i Grazioli, i Domenichini, Enzo Paris, gli Scapini e gli Sterzi, titolari di una grande cantina a San Martino Buon Albergo. I Reichenbach? Ricordo che avevano paura, come tutti noi del resto, che eravamo in età a rischio di essere mandati sotto le armi».

La fuga dei ragazzi ebrei passò quasi inosservata. Ricorda Scala: «Eravamo verso la fine della partita e i due ragazzi lasciarono il campo senza dare spiegazioni. Non ricordo come si chiamassero: so solo che non li ho più rivisti».

Altri in paese hanno raccontato l'episodio per anni, ma senza poterne immaginare il seguito. I protagonisti, infatti, non avevano mai parlato. Solo oggi, a distanza di quasi 66 anni, Gian Giacomo e Giancarlo Reichenbach rievocano quei momenti drammatici. Gian Giacomo racconta che il momento della fuga dal campo da calcio non gli è rimasto impresso come memorabile, al momento: «Dev'essere stato nostro padre a organizzare la cosa e a farci venire via dalla partita. Le date coincidono con la fuga per la salvezza che compimmo in quei giorni di settembre verso la Svizzera». Della partita a Cerro Giancarlo ricorda che fu giocata sotto un diluvio: «Non mi sono asciugato subito come avrei dovuto e porto ancora le conseguenze di forti dolori reumatici». Ma sono i dolori che ha sopportato meglio. Altre ferite invece non si sono più chiuse: «Mi scuso, ma non mi sento di parlare di quegli anni. Mi è capitato di andare in alcune scuole su insistenza di amici, ma si è rinnovata una sofferenza che faccio fatica ad accettare. Ho perso nei campi di sterminio gli zii materni Lina Arianna Jenna e Ruggero Jenna, come tutta la famiglia dei cugini Sforni. Per me è un dolore troppo grande».

Gian Giacomo ricostruisce la partenza precipitosa da Verona: «Dovevamo andarcene prima che a Verona si insediassero i tedeschi. Avevamo avuto notizia delle morti e delle persecuzioni di ebrei attraverso le segnalazioni delle fräulein che frequentavano la nostra famiglia e che erano tutte ebree tedesche. Nostro padre conosceva un importante personaggio, direttore del Credito Italiano di Milano, con il quale aveva combattuto nella prima guerra mondiale e che ci mise in contatto con contrabbandieri che a pagamento favorivano l'espatrio in Svizzera».

La famiglia Reichenbach si trovò in un villaggio del Lago Maggiore in attesa del momento buono per passare il confine, mentre si ingrossava il gruppo dei transfughi. «Perché quell'assembramento di persone estranee al paese non desse nell'occhio», racconta Gian Giacomo, «fu organizzato un finto matrimonio: una coppia indossò gli abiti da sposi e tutti ci vestimmo a festa per sembrare gli invitati. C'erano perfino i musicisti. La festa durò fino alle 4 di mattina, quando in silenzio e in fila indiana ci incamminammo verso il confine dove un buco nella rete ci permise di entrare in Svizzera. Mio padre volle che passassimo tutti prima di consegnare il denaro pattuito, perché non succedesse come ai nostri cugini Sforni, rivenduti dai contrabbandieri ai tedeschi per 5000 lire». Gian Giacomo fu mandato in avanscoperta dal padre; insospettito da strane ombre nel bosco, scoprì che si trattava di militari indiani dell'esercito britannico che si rimettevano il turbante e la divisa, buttando via i vestiti civili indossati in Italia, per essere accolti come rifugiati di guerra. Per gli ebrei invece non era semplice il riconoscimento e ai Reichenbach fecero da garanti dei loro parenti residenti a Zurigo. Lì si trasferì Gian Giacomo per continuare gli studi in una scuola italiana fino alla maturità, mentre il padre Attilio trovò lavoro come commercialista a Lugano.

Gian Giacomo tornò da clandestino in Italia, a fine guerra, prima che fossero aperte le frontiere per il rientro dei profughi. «Trovai Palazzo Emilei che era la casa della zia Lina pieno di sfollati, la nostra casa in lungadige Galtarossa completamente bombardata e la villa di Santa Lucia saccheggiata, dopo essere stata occupata dai tedeschi. Era rimasto un cannone da contraerea trasferito su binari dentro il salone».

Conclude con amarezza Gian Giacomo: «Non possiamo dire di aver ricevuto molta solidarietà a Verona dopo le leggi razziali. Ci sono state sbattute in faccia molte porte da quanti consideravamo amici. Solo la contessa Sparavieri, coniugata De Amicis, crocerossina con mia madre Marcella Jenna sul fronte della prima guerra mondiale, non si risparmiò per aiutarci».

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