domenica 22 luglio 2012

Il violinista di talento che architettò la Shoah


“Taceremmo la verità se non dicessimo che si esce provati dal confronto, durato parecchi anni di ricerca, con un personaggio verso il quale non è possibile provare alcuna empatia. Heydrich non lascia tregua al suo biografo: forse ci sono stati momenti di innocenza nella sua infanzia, nella sua giovinezza e negli anni di formazione, ma egli fece cancellare quasi tutte le tracce di questo periodo quando diventò capo della Polizia di sicurezza. In seguito, quando si fu posto l’obiettivo di raggiungere, al fianco di Himmler, la cerchia più ristretta del Führer, Heydrich si rivelò pronto a schiacciare non soltanto singoli individui ma popoli interi, pur di soddisfare la propria ambizione”. Lo storico Édouard Husson non nasconde la fatica anche emotiva che ha dovuto sostenere nell’affrontare analiticamente la vita dell’uomo che considera l’architetto della Shoah. Una fatica che però, dal punto di vista della ricerca storiografica, ha prodotto importanti novità interpretative.

Heydrich e la soluzione finale. La decisione del genocidio (Torino, Einaudi, 2010, pagine x+405, euro 32) non è, infatti, una biografia in senso tradizionale, ma un vero e proprio lavoro di analisi capace di fare sintesi delle teorie finora accreditate sullo sterminio degli ebrei in Europa e soprattutto di proporre una posizione originale che rende sorpassata la vecchia opposizione tra “intenzionalismo” e “funzionalismo”. Husson mostra, sottolinea Ian Kershaw nella prefazione, “come le parole d’ordine ideologiche della direzione del regime, formulate, abitualmente, in maniera indiretta da Hitler, servissero a mettere in movimento e a legittimare le iniziative ai diversi livelli del regime, a cominciare da quelle dello stesso Heydrich”.

L’interpretazione di Husson, docente di storia contemporanea alla Sorbona, si concentra proprio sul ruolo del capo dell’Rsha, Ufficio centrale per la sicurezza del Reich, nella marcia verso la “soluzione finale della questione ebraica”. E ne sottolinea il ruolo essenziale nell’accelerazione impressa all’attuazione del genocidio, sottolineando una dedizione alla causa ben oltre il richiesto. Un comportamento, quello di Heydrich ma anche degli altri capi del regime, che lo studioso spiega con la nozione di “lavoro nel senso della volontà del Führer” – riconoscendo in questo la parte giocata dallo stesso Hitler, “senza il quale nulla sarebbe accaduto” – che poggiava fortemente sulle caratteristiche feudali delle strutture del Reich: i rapporti tra il dittatore e i “vassalli” a lui legati da un sentimento morboso di lealtà personale.

In un lavoro di sintesi accurato e ampio, attraverso l’approfondimento di fonti già note e soprattutto lo studio di documenti inediti, Husson apporta elementi innovativi alla letteratura storica sull’argomento. Il primo è quello di stabilire un collegamento tutt’altro che irrilevante tra il verbale della conferenza di Wannsee del 20 gennaio 1942, in cui venne pianificata formalmente la “soluzione finale”, e numerose versioni anteriori del lavoro organizzativo in questa direzione svolto da Heydrich. Come rileva Kershaw, “Husson propone un’analisi magistrale di diversi documenti di massimo rilievo: non soltanto il testo di Wannsee ma anche le Direttive per il trattamento della questione ebraica (si rivela assai persuasivo nel dimostrare come alcuni brani del testo siano anteriori all’agosto 1941, data abitualmente fornita dagli storici)”.

Tra questi documenti lo studioso vaglia puntigliosamente la lettera indirizzata da Heydrich al ministro degli Esteri Ribbentrop il 24 giugno 1940 in cui, a fronte dell’inefficacia della politica migratoria, sostiene che “una soluzione finale territoriale diventa quindi necessaria”. E lo prega di volerlo “associare alle discussioni future che verranno sulla soluzione finale della questione ebraica”. Allo stesso modo lo storico analizza a fondo il memorandum del 21 gennaio 1941 a firma di Dannecker, il membro dell’Rsha inviato dal famigerato Eichmann a Parigi per preparare il “piano Madagascar”, in cui si fa riferimento a un progetto di “soluzione della questione ebraica in Europa” redatto da Heydrich e da attuare, secondo la volontà del Führer, in via definitiva dopo la guerra. E infine ricollega il tutto al documento del 31 luglio 1941 con il quale Göring affida a Heydrich l’attuazione di tale soluzione.

Il fine di Husson è dimostrare che Heydrich covava un pensiero intrinsecamente genocida fino dall’estate 1940. E la parte centrale del verbale della conferenza di Wannsee, anello fondamentale della catena, appare come un camuffamento che rimanda alla forma data da Heydrich ai suoi piani dell’anno precedente. Infatti nel gennaio 1941 esisteva un progetto di deportazione che corrispondeva a una fase antecedente alla politica antiebraica, meno radicale rispetto a quella realmente praticata nel gennaio del 1942, quest’ultima frutto di un cambiamento sostanziale della situazione bellica, la cui fine non era più così immediata.

Il secondo elemento innovativo è legato alla data, i primi di novembre 1941, indicata per l’ordine (o l’autorizzazione o l’indicazione che dir si voglia, data, senza ambiguità, da Hitler) di passare allo sterminio immediato degli ebrei di tutta l’Europa, e non più soltanto di quelli nei territori sovietici. “Tenuto conto delle lacune delle fonti, tale data – si legge nella prefazione – resta nell’ordine delle ipotesi. Ma molti elementi depongono in suo favore, in particolare, da un canto, la mole di indizi raccolti, che suggeriscono una decisa accelerazione del processo di massacro in questo preciso momento e, d’altro canto, il rapporto con la data del 9 novembre (1918), che Hitler da vent’anni ribadiva come quella dell’inizio della rivoluzione tedesca attuata, secondo lui, dai “criminali di novembre” (inequivocabilmente assimilabili ai suoi occhi agli ebrei)”. Inoltre c’era la possibilità di un allargamento della guerra. “Il conflitto mondiale incombe su di noi: l’annientamento degli ebrei è la conseguenza necessaria”, afferma il Führer a dicembre.

Forte dell’esperienza maturata nell’organizzare l’emigrazione forzata degli ebrei del Grande Reich, nelle deportazioni caotiche nella Polonia smembrata, nel contributo alle tecniche di sterminio dei “malati”, nella successiva formulazione del “piano Madagascar”, nel progetto di deportazione generalizzato degli ebrei verso la Siberia e nell’allestimento della conferenza di Wannsee, Heydrich impegnandosi nella “soluzione finale” dette un’ulteriore, formidabile prova della mescolanza di fanatismo ideologico e di predisposizione per l’organizzazione che lo caratterizzavano. Un talento che avevano purtroppo avuto modo di sperimentare anche i cattolici tedeschi soprattutto dopo le forti prese di posizione del vescovo di Münster, Von Galen, contro il regime nelle famose tre prediche dell’agosto 1941. Infatti, scrive Husson, “all’inizio della guerra Heydrich propose di arrestare tutta una serie di personalità cattoliche e di inviarle nei campi di concentramento. Era convinto che con la guerra si sarebbero intensificate le attività sovversive dei cattolici. Dopo le prediche di monsignor Von Galen, lo stesso dittatore aveva dovuto dissuadere Heydrich dall’idea di far arrestare il prelato”. Allo stesso modo in Polonia le élite cattoliche furono da subito bersaglio dei commando criminali del capo della Polizia di sicurezza al pari di ebrei, malati di mente e disabili.

Ma chi era quest’uomo e da dove veniva? Reinhard Heydrich era nato nel 1904 nel cuore storico della Germania, e precisamente ad Halle, città natale di Händel. Egli stesso crebbe in una famiglia di musicisti. Il padre Bruno dirigeva un conservatorio. Secondo Husson, “Reinhard è l’illustrazione più celebre di come, purtroppo, la cultura classica e in particolare la musica tedesca non abbiano impedito l’affermarsi, in uno dei Paesi più progrediti d’Europa, di quell’antiumanismo assoluto che è stato il nazismo. L’architetto del genocidio degli ebrei fu un violinista di talento”. Un talento per il quale nessuno lo ricorda.

Entrato in Marina a diciotto anni, a ventisette venne espulso per aver risposto con insolenza a una commissione disciplinare. Per sopravvivere e mantenere la famiglia (suo padre era ormai malato), ma anche per compensare le proprie frustrazioni, trovò un esercito che ai suoi occhi rappresentava l’élite della futura Germania: le Schutzstaffel. Fu presentato al loro capo, Heinrich Himmler, di soli quattro anni più anziano, che ne intuì subito le capacità. Tanto da affidargli l’organizzazione di un servizio segreto per contrastare i nemici interni. Fu l’inizio di una carriera fulminante che lo portò ad assumere l’incarico della sicurezza del Reich.

È difficile azzardare quale fosse il grado di antisemitismo del giovane Heydrich. Sicuramente frequentava ambienti per i quali gli ebrei erano il denominatore comune di tutti i nemici, esterni e interni, che avevano umiliato la Germania nel 1918. Si batté contro la falsa notizia, diffusasi durante la prima guerra mondiale, secondo cui il padre avrebbe avuto un’ascendenza ebraica. “Considerò – spiega lo storico – questa diceria, che era infondata ma che lo accompagnò ovunque, sintomo di quanto fosse radicato l’antisemitismo nella Germania del “dopo 1918″, come una macchia da cancellare. Pur tuttavia, ciò non sarebbe sufficiente a spiegare il suo successivo zelo nel perseguitare e poi nel liquidare gli ebrei d’Europa”.

Il male era molto più profondo: quella voce persistente rivelava, in realtà, il cancro ideologico che corrodeva un individuo e una società intera. Hitler ripeteva che gli ebrei dovevano andarsene dalla Germania. E Heydrich aveva intuito che prendere parte attivamente alla persecuzione lo avrebbe portato al centro del potere nazista. Così, appena trentaseienne, per compiacere il dittatore, pianificò la morte di undici milioni di ebrei europei.

Destinato a essere l’architetto anche del genocidio delle popolazioni slave e zingare se la Germania avesse vinto la guerra, Heydrich fu ucciso a Praga da due uomini della resistenza cecoslovacca, alla fine della primavera del 1942. Ma l’organizzazione criminale che aveva messo in piedi era sufficientemente solida perché i suoi uomini, a partire da Eichmann, ne proseguissero l’opera di morte.

“Il 26 maggio 1942, vigilia dell’attacco che gli sarebbe costato la vita, Heydrich aveva fatto eseguire, in occasione di una serata di gala a Praga, alcune opere musicali del padre. Quasi avesse provato la sensazione di essere infine arrivato, di avere ottenuto una rivincita sugli anni di frustrazione e di declino della famiglia Heydrich, come si fosse trattato di riabilitare suo padre, vittima della guerra persa e delle crisi economiche. Occorreva accatastare una montagna di cadaveri per placare un risentimento sociale e colmare il vuoto lasciato dalle illusioni perdute nel 1918? Niente – conclude Husson – esprime meglio il crollo morale e psicologico di una società e di un uomo, avvenuto in meno di una generazione, del confronto terribile tra un’ascesa politica e sociale perseguita con simile accanimento, da un canto, e, dall’altro, i sei milioni di vittime di cui è disseminata la scalata verso la vetta di Heydrich e del nazismo; scalata che, fortunatamente, non ebbero il tempo di portare a termine”.

Nessun commento:

Posta un commento