domenica 22 luglio 2012

CINEMA NAZISTA (The Nazi film)

La caduta degli dei - Luchino Visconti

Due circostanze cinematografiche mi hanno suggerito questo sguardo all'indietro sul film tedesco del periodo nazista.

La prima è l'interesse che ha riscosso lo spettacolo di Luchino Visconti dedicato alla Germania hitleriana, “La caduta degli dei”.

L'altra, forse storicamente più concreta ma non esente da sospetti di ambiguità, l'iniziativa presa dal Festival di Oberhausen in Renania (“in collaborazione” dice il comunicato “con le commissioni di cinema e televisione delle università tedesche e delle scuole popolari superiori”) di riesumare nel corso della manifestazione documentari, cinegiornali e film culturali di propaganda nazista, girati fra il 1933 e il 1944, allo scopo, è sempre il programma ufficiale che lo afferma, “di analizzarne le tendenze ideologiche e di esporre la loro manipolazione della pubblica opinione di quel tempo”.

Candido desiderio d'analisi, a sessantacinque anni di distanza dalla fine di quella tirannide....

Qui voglio anche io ricordare le tappe principali del cinema della svastica. Non per riscoprirne le “tendenze ideologiche”, che a differenza di quanto accade agli studiosi del seminario di Oberhausen ci sono, chi sa come, note da un pezzo. Neppure per esaminarne il potere di mistificazione sullo spettatore tedesco della generazione scorsa, il quale nella grande maggioranza non ha aspettato il veicolo cinematografico per adeguarsi al Führerprinzip. Ma semplicemente per verificare un lato meno conosciuto del grande processo di schiacciamento svolto dalla macchina nazista, prima sopprimendo una cinematografia dotata di suoi precisi valori (la Germania era stata una delle forze mature dell'ultimo decennio del muto), poi assorbendone le energie superstiti nella corsa al potere, poi travolgendola nella catastrofe finale. Era un cinema composto da molti schiavi, moltissimi servi e aguzzini, pochissimi uomini che conoscessero ancora il concetto di libertà. Questi ultimi non sono tra i sopravvissuti.



Il partito nazista non aveva atteso la vittoria di Hitler per affermare i suoi gusti in fatto di film. Fino dal 1930 l'amministrazione Brüning esercitava la censura sotto il coperto controllo dei gruppi reazionari e filonazisti, vietando la circolazione dei film di propaganda elettorale di sinistra. Nel '30 e '31 squadracce suscitarono disordini nelle sale in cui si proiettava “M, Il mostro di Düsseldorf” e l'americano “All'ovest niente di nuovo”, giudicato “lesivo dell'onore del soldato tedesco”, e le autorità ritirarono il visto di circolazione ai due film, ciò che era esattamente quanto i dimostranti volevano.

Un altro film “maledetto”, ”Il testamento del dottor Mabuse” (1933) nella versione parlata, doveva entrare in noleggio quasi contemporaneamente alla nomina di Hitler a cancelliere; era di nuovo un esempio, secondo i nazisti, di quell'arte morbosa e degenerata che il nuovo movimento si proponeva di spazzar via. Ma la fama del regista, Fritz Lang, aveva fatto sì che prima ancora della fine delle riprese la pellicola fosse già stata contrattata in vari paesi europei, e i nazisti, sentinelle della nuova morale, non disdegnavano certo l'apporto di valuta estera. Così ricorsero al piccolo machiavello di autorizzare il “Mabuse” fuori dai confini, proibendolo in patria. Il film di Lang fu proiettato persino nell'Italia mussoliniana.

Il film “La caduta degli dei” illustra le gesta inaugurali del Terzo Reich: l'incendio del Reichstag (febbraio 1933), i primi roghi di libri (maggio 1933: tra i nomi immediatamente , il remarque di “All'ovest niente di nuovo”), “la notte dei lunghi coltelli” (giugno 1934).

Le prime due imprese trovarono la via dello schermo nei cinegiornali di propaganda. Sulla terza gravò subito il silenzio e l'oscurità; era troppo difficile maneggiarla anche sul terreno dell'informazione truccata. Tanto più che nel frattempo il cinema del regime era passato per intero nelle mani di quell'uomo accorto e senza scrupoli che era il dottor Josef Goebbels.

Hitler, il quale si piccava di atteggiarsi a intenditore di musica e pittura e dettava personalmente le disposizioni per “arianizzare” queste arti, non si era mai interessato molto di cinema e anche in seguito non intervenne quasi mai nel settore. Goebbels invece era a suo modo un appassionato. Allorchè nel settembre del '33 fondò la Reichsfilmkammer, fu chiaro che essa sarebbe stata la sua creatura prediletta a scapito delle altre forme artistico-culturali cui il suo ministero sovrintendeva e che andavano dalla scultura alle trasmissioni radiofoniche. D'altronde la Kammer cinematografica aveva anche chiari scopi di discriminazione e interdizione. Respingeva gli elementi ebrei e i sospetti al nuovo governo. Metà dei cineasti tedeschi si trovò dalla sera alla mattina senza lavoro.

Il loro esodo cominciò quasi subito. Partirono verso l'Austria (fino all'Anschluss), la Cecoslovacchia, l'Oanda, la Francia, la Gran Bretagna, l'America. Alcuni optarono per l'Italia: Max Neufeld e il teorico Rudolf Arnheim, il quale rimase a Roma fino al 1938 collaborando a “Cinema” e “Bianco e Nero”, e poi, vedendo che anche da noi il temporale montava, salpò per gli Stati Uniti.

Nomi famosi figurano in questi volontari esilii : Billy Wilder, Georg W. Pabst, Luise Rainer, Ernst Deutsch, Hans Richter, Conrad Veidt, Ewald A. Dupont, Paul Czinner, Robert Siodmak, Slatan Dudow, Max Ophiils, Joe May, innumerevoli altri. Peter Lorre, che aveva interpretato la parte dell'assassino pazzo di Düsseldorf in “M” di Lang, fuggì dicendo:

“In Germania non c'è posto per due mostri come Hitler e me”.

Più complesso il caso di Fritz Lang. Ebreo solo per metà e marito della nazistissima Thea von Harbou, sua sceneggiatrice, avrebbe potuto godere della benevolenza dei capobanda perchè sia Goebbels che Hitler erano suoi estimatori grazie alla vecchia saga dei Nibelunghi girata nel 1924. Nei Nibelunghi Hitler aveva letto un'apoteosi della razza germanica e aveva veduto le scenografie ideali per le future adunate di Monaco, Berlino e Norimberga. Offrì a Lang di diventare il regista ufficiale del Reich. Lang non era nè un eroe nè un politico, ma fin dal 1920 aveva diretto vari film imperniati su banditi pazzi avidi di potere, il cui motto poteva essere “oggi è nostra l'Europa, domani tutto il mondo”. Come risposta prese il treno per Parigi.

Ho già detto che Goebbels era un appassionato di cinema. Ciò non significa che fosse realmente un intenditore; dichiarava spesso che i suoi film preferiti erano “Il grande agguato dell'alpinista” - regista tirolese Luis Trenker e l'edizione muta di “Anna Karenina” (1927) con Greta Garbo, un connubio abbastanza osceno. Ma non gli era sfuggita la potenza della “Corazzata Potemkin” di Eisenstein, che considerava il modello assoluto di cinema rivoluzionario. E' noto che uno dei suoi primi atti d'imperio cinematografico, nel 1934, fu la convocazione generale dei registi tedeschi e l'ordine perentorio:

“Voglio da voi un “Potemkin nazista”.

Ma non lo ebbe, perchè tra le due rivoluzioni correva qualche differenza e perchè nessuno dei bravi cineasti allineati sull'attenti in quell'ufficio era o si sentiva Eisenstein. Uno solo, dei più oscuri e balordi, prese Goebbels in parola e uscito di lì andò diligentemente a preparare il suo “Potemkin”. Si chiamava Karl Anton.

Il film uscì nel 1936 col titolo “Schiave bianche”, in Italia “La resa del Sebastopoli”.

Val la pena di riassumerne in due righe il soggetto.

Allo scoppio della rivoluzione, il governatore di Sebastopoli viene gravemente ferito e perde la memoria. Sua figlia, scampata alla morte, è salvata assieme al padre da un marinaio zarista fedele. Il commissario bolscevico che comanda la piazza è l'ex cameriere del governatore, segretamente innamorato della ragazza. Egli riesce ad attirare in un agguato il fidanzato di lei, che è anche capo dei “bianchi”. Poi impone alla ragazza, strappata dal suo rifugio, di essere sua in cambio della vita del fidanzato e del padre. Essa sta per cedergli ma proprio allora la controrivoluzione ha il sopravvento e i prigionieri riescono a salvarsi sull'incrociatore Sebastopoli, che fa rotta verso un porto neutrale.

Se mi piace questo “Potemkin” ritoccato? Non saprei dirvene la pochezza realizzativa e il servilismo dell'ispirazione; ma dal sunto del soggetto si può almeno rendersi conto che più che a un film di Eisenstein assomiglia a un libretto di Salvatore Cammarano.




I primi film nazisti dovettero quindi riparare su più pedestre propaganda.

Uscirono “Hitlerjugend Quex”, in cui vediamo un giovanetto, fanatico della nuova idea, denunciare alla polizia il padre comunista e poi morire per mano dei bolscevichi nelle vie di Berlino.

Uscì anche un film su Horst Wessel, il “protomartire” della causa nazionalsocialista, ucciso - nel film - da comunisti ed ebrei. Per i personaggi cattivi furono cercati ebrei autentici. Uno si rifiutò di collaborare alle riprese e gli furono mozzate le orecchie. Poi la produzione ritenne opportuno modificare il personaggio del protagonista, che nella realtà era stato un imbroglioncello ricercato per reati comuni, e mutò il titolo da “Horst Wessel” in “Hans Westmar”, uno dei tanti (in Italia “Uno dei tanti”).

Altrove la propaganda assumeva toni d'accusa universale, superoministica e profetica.

Ricordo “Fuggiaschi” (1934) di Gustav Ucicky, che si svolge in Manciuria nel 1928 ma sotto le spoglie avventurose è un allegorico quadro contro la Società delle Nazioni, che la Germania aveva lasciato nell'ottobre '33.

Nell'infuriare della rivoluzione cinese, una locomotiva fuori uso sosta in una stazioncina impedendo ai viaggiatori cosmopoliti (inglesi, francesi ecc.) di mettersi in salvo. Mentre essi in preda al panico si perdono in chiacchiere e diatribe, un ingegnere tedesco, esule volontario dalla repubblica di Weimar, ripara i congegni a rischio della vita, da solo riesce a rimettere in movimento il treno e porta l'imbelle gruppetto al sicuro. Sotto i simboli ferroviari, il discorso era trasparente. Tanto più che per il ruolo del Sigfrido era stato scelto il più biondo e imponente degli attori teutonici, il più amato dal pubblico, l'amburghese Hans Albers.

Intanto Goebbels aveva varato anche le nuove leggi sulla censura, provvedimento sempre urgente in regime autoritario. Strettissime e spietate, rimasero in vigore fino alla caduta del Reich, con ulteriori giri di vite nel periodo bellico. Tra ciò che inesorabilmente “non doveva essere veduto” da occhi tedeschi, figuravano almeno due personalità altissime del cinema: Charlie Chaplin e Erich von Stroheim.

A Stroheim non si perdonava d'aver interpretato con potenza il personaggio dell'Unno cattivo prima, del tedesco aristocratico poi (specie nella “Grande illusione” di Renoir); a Chaplin, a parte l'origine israelita, non si perdonavano le pronte prese di posizione politiche contro il nazismo, che sarebbero sfociate presto - più presto anche di quanta l'America lo avesse gradito - nella formidabile satira di “Il dittatore” (1939).

Ma già prima del “Dittatore”, Goebbels aveva mosso guerra a Chaplin cercando di nuocergli con una clamorosa accusa di plagio. Aveva trovato nella sequenza della catena di montaggio di “Tempi moderni” l'imitazione di un brano analogo di “A me la libertà” di René Clair. Il film di Clair era stato prodotto dalla Tobis francese, emanazione della Tobis tedesca di cui ora Goebbels era suprema autorità: pertanto il processo fu promosso da Berlino. Ma fallì e venne frettolosamente sopito quando il maggior testimone al riguardo, lo stesso Clair, anzichè dichiararsi leso dalla rassomiglianza, rese pubblico omaggio alla grandezza del presunto “plagiario” concludendo con la nota dichiarazione:

“A Chaplin tutti noi del cinema abbiamo rubato tanto, che è giusto si riprenda qualcosa”.


Nel 1935 le iniziative naziste in campo cinematografico furono la costituzione della Camera Internazionale del Film per un programma di collaborazione europea, e l'intensificazione dei soggetti epico-storici. La Camera Internazionale riuscì a ottenere l'adesione dell'Austria, Francia, Italia, Polonia, Svezia, Svizzera, Ungheria, con la creazione di organismi produttivi misti, molti dei quali furono statalizzati nel 1942 là dove s'era prodotta nel frattempo occupazione militare. Le pellicole a carattere storico ed eroico tentarono di fare di personaggi della Germania imperiale, o della letteratura nordica del passato, emblemi trionfanti e anticipatori del pensiero nazista. In questa chiave sono rivisti Guglielmo e Federico di Prussia, Schiller, il Tomas Glahn di “Pan” di Hamsun (lo scrittore norvegese poi collaborazionista, assai amato da Goebbels), il “Peer Gynt” di Ibsen, naturalmente impersonato da Hans Albers, e perfino “Giovanna d'Arco” (film di Ucicky, 1936), che dopo tutto combatteva gli inglesi.

Tanto fervore d'opere però non commuoveva eccessivamente gli spettatori, se William L. Shirer ricorda che “...nel '35 i film tedeschi venivano così frequentemente fischiati, che Wilhelm Frick, ministro degli interni, pronunciò un severo monito contro il comportamento del pubblico nei cinematografi”.

E un altro risultato negativo fu una seconda ondata di fughe dai ranghi del cinema tedesco.

Fra il '36 e il '38 se ne andarono più o meno segretamente Kurt Goetz, Frank Wysbar, Lillian Harvey, Adolf Wohlbrück (che prese in Inghilterra il nome di Anton Walbrook), Fritz Van Dongen (che assunse in America il nome di Philip Dorn), Detlef Sierck (che divenne a Hollywood, con qualche successo, Douglas Sirk). Tante diserzioni non avevano mancato di turbare fin dagli inizi Goebbels e i suoi funzionari, al punto che già nel '34 era stato commissionato al montanaro Trenker un film intitolato significativamente “Il figlio perduto” (in Italia “Il figliol prodigo”) con l'implicito scopo di deplorare le defezioni, condannarle come miraggi pericolosi e invitare i transfughi a un ritorno che sarebbe stato considerato con magnanimità. Il film poneva anche l'accento sulla comprensione del nazismo verso le minoranze di frontiera ed era particolarmente duro con gli Stati Uniti e la loro politica verso gli immigrati.

Ma, sul piano della propaganda, funzionò poco. I “figlioli prodighi” rimasero dov'erano. A loro si sarebbero aggiunti, all'epoca dello “Anschluss” con l'Austria, Walter Reisch e Otto Preminger.

Quest'ultimo ha ricordato i giorni violenti dell'annessione nel film “Il cardinale” (1963), nell'episodio del vicario Innitzer aggredito dalla Hitlerjugend entro la sede dell'arcivescovado di Vienna.

Due soli ritorni si registrano. Pabst, nel 1939, e l'attore Rudolf Forster, quasi nello stesso periodo. Tristi capitolazioni per il regista di “Westfront” e per l'uomo che era stato il Mackie Messer di Brecht in “Dreigroschenoper”.

Dei quadri del cinema di regime, invece, gli ossequienti e i convinti della prima ora erano stati Werner Krauss, Otto Gebrühr, specialista nella parte di Federico il Grande, il massiccio Heinrich George che finì i suoi giorni in campo di concentramento, l'Emil Jannings già interprete di “Faust”, “Varieté” e “L'angelo azzurro”, che il nazismo ricoprì di premi e di brutti film; e i registi Karl Ritter, Veit Harlan, Wolfgang Liebeneiner, Carl Froelich. Più, naturalmente, quella bizzarra e non priva di talento mandragora del nazismo, ex ballerina, sciatrice, teorica del cinema, che rispondeva al nome di Leni Riefenstahl.

Fu lei a girare i documentari “Vittoria della fede” (1933), sul primo congresso del partito dopo la salita al potere, “Il giorno della libertà” (1935), sulla festa della Wehrmacht, “Il trionfo della volontà” (1936), sull'adunata nazista di Norimberga del 1934.

Dopo quest'ultimo, Hitler in persona la incaricò di realizzare il film sulle imminenti Olimpiadi sportive di Berlino. La Riefenstahl intese il senso dell'ordine diretto.


Il vastissimo spettacolo che ne nacque resta forse il massimo documento propagandistico del Terzo Reich su tutti i piani, dal messaggio pagano (il prologo del film) alla dimostrazione di una efficientissima organizzazione armata. La regista girò quattrocentomila metri di pellicola per utilizzarne seimila, che poi vennero suddivisi in due film separati: “Olympia” e “Festa dei popoli” (in Italia “Olimpia” e “Apoteosi di Olimpia”) e presentati in pubblico appena nel 1938, cioè a due anni di distanza dalle Olimpiadi. Ma questo ritardo alla Riefenstahl e a Hitler poco importava. Il significato ultimo del film era tale, che acquistava maggior valore riferito ai vicini avvenimenti politici e strategici (sbocco in Austria, patto d'acciaio, occupazione dei Sudeti, polemica per Danzica) piuttosto che agli ormai sbiaditi lauri sportivi del '36.

L'ultimo anno prima della guerra è contrassegnato da molte biografie-filmate, rivendicatrici del genio tedesco, e da soggetti politicizzati che ostentano già la grinta del film bellico.

Tra le prime è la vita del dottor Koch, con Jannings; tra i secondi, “Il governatore” di Viktor Touriansky,che si scaglia contro i vizi del regime parlamentare, “La squadriglia degli eroi” di Karl Ritter, sulla rinascita dell'arma aerea tedesca sotto la direzione di Hermann Góring. Ritter però aveva realizzato in precedenza un film più notevole: “Sei ore di permesso” (1937), episodi su un reparto in sosta fra due treni, durante gli ultimi mesi della prima guerra mondiale.

E siamo al '39. In marzo le truppe naziste entrano in Cecoslovacchia, in settembre in Polonia. I cinegiornali dell'UFA (Universum-Film AG - casa di produzione cinematografica tedesca) fanno conoscere in tutto il mondo la picchiata e il sibilo degli Stukas. Gli impianti cinematografici di Barrandov, risalenti al 1933 e considerati i migliori d'Europa, vengono immediatamente arianizzati e sottratti agli assurdi pigmei, nome col quale Göring amava designare il popolo cèco.

Fin dal 1940 gran parte della produzione filmistica tedesca è trapiantata a Barrandov, perchè gli studi berlinesi di Neubabelsberg, vicini ad un aeroporto, vengono danneggiati dai bombardamenti inglesi, e così i laboratori di Vienna e Monaco. Ben presto e per le stesse ragioni le case cinematografiche principali della Germania, la Terra Film, la Berlin Film ecc., si attestano su succursali frettolosamente allestite in zone più sicure: Budapest, L'Aia, anche Roma. E' il tempo in cui Goebbels accarezza un altro progetto grottesco: fare di Rodi l'isola del cinema, una specie di Hollywood nazista.

Che Rodi sia allora territorio italiano non lo turba affatto. Come molta parte dei gerarchi tedeschi, nutre per l'alleato dell'Asse una cordiale disistima che dalle cose militari si estende alle cose del cinema. Conta di depredare Cinecittà come ha depredato Barrandov, e come deprederà musei e cattedrali in mezza Europa.

“L'UFA”... scrive nel suo Diario intimo...”ha elaborato un piano per cui potremo gradualmente mettere le mani sull'intera esportazione cinematografica italiana sul continente. Spero che gli italiani cadano nella trappola”.

Mobilitato integralmente, il cinema nazista del tempo di guerra (oltre alla produzione evasiva e leggera, specialmente curata dalla Wien Film di Willy Forst) si concentra su tre o quattro obiettivi principali: la propaganda antinglese, il discorso delle rivendicazioni di frontiera, l'odio verso il comunismo e l'Unione Sovietica, la riconferma dell'ideologia nazista come fatto sociale e morale, e - più importante d'ogni altro tema - la necessità dello sterminio degli ebrei.

I campi e i forni crematori sono già in azione, la “notte dei cristalli”, nel novembre 1938, ha dato il via ai saccheggi, agli arresti in massa e alla distruzione delle sinagoghe: ma solo dopo lo scoppio della guerra questa campagna si fa apertissima e viene appoggiata ufficialmente dal cinema.

Nel 1940, “I Rothschild” di Erich Waschneck ha il pregio d'essere contemporaneamente antisemita e antibritannico.

Süss l'ebreo

Subito dopo esce “Süss l'ebreo” di Veit Harlan, tratto dal romanzo omonimo che però esponeva concetti alquanto diversi, tanto che il suo autore, Lion Feuchtwanger, era stato perseguitato dai nazisti.

Negli studi berlinesi la lotta antiebraica registra un episodio tragico: la moglie di un attore molto noto, Joachim Gottschalk, viene condannata alla deportazione perchè semita. Gottschalk si uccide con lei e il figlio. Il fatto è così commentato nel bollettino delle Kulturpolitische Informationen:

“Da oggi in poi l'attore Joachim Gottschalk non deve essere più ricordato per nessuna ragione, nè verbalmente nè per iscritto”.

E' la sola lapide per il triplice suicidio, al quale però nel 1947 Kurt Maetzig, nella Germania orientale, dedicherà il film “Matrimonio nell'ombra” con Paul Klinger nella parte di Gottschalk e Ilse Steppat nella parte di Meta Wolff.


Un grandissimo successo in chiave antinglese fu, nel '41, “Ohm Kruger eroe dei boeri” di Hans Steinhoff, con Emil Jannings. Si ignorò tuttavia il fatto che uno dei coraggiosi luogotenenti di Kruger, Jan Christian Smuts, fosse in quello stesso momento uno dei più irriducibili avversari del nazismo, come maresciallo da campo dell'esercito britannico. Nel '42 si pensò di realizzare come film di propaganda, manifesto dell'avidità degli armatori inglesi, il dramma dell'affondamento del “Titanic”.

Gli esterni si dovevano girare a Gotenhafen (oggi Gdynia). A regista fu prescelto un curioso tipo di cineasta, né ottimo né pessimo, che fino allora s'era dilettato a far la fronda con pellicole avventurose d'imitazione americana: Herbert Selpin, autore di “Il sergente Berry” (1938), poliziesco ambientato al Messico, e “Canitoga” (1939), sui cercatori d'oro.

A Gotenhafen, già piazzaforte militare, Selpin si trovò subito a litigare con la burocrazia dell'ammiragliato, e un giorno, perdute le staffe, si mise a sbraitare in un pubblico locale contro “questo esercito di merda”. Fu immediatamente rimandato a Berlino e Goebbels gli chiese ragione dell'insulto. Selpin non ritirò la frase. Venne tradotto in carcere e la notte del 1° agosto 1942 un commando della Gestapo irruppe nella sua cella e lo strangolò. Poi il cadavere fu appiccato con le sue bretelle alle sbarre dell'inferriata perché si potesse archiviare il fatto come suicidio, il che puntualmente accadde. Negli studi cinematografici fu affisso un cartello che diceva:

“E' severamente proibito parlare del caso Selpin”, e il film Titanic venne completato dal regista Werner Klinger.


Karl Ritter diresse GPU (1942), contro l'Unione Sovietica. Vari film sulle minoranze tornarono di moda via via che le armate naziste penetravano ad Est: “Uomini nella tempesta” (1941) ambientato in Jugoslavia, “Il vincitore” (1941), “Nemici” (1941) e “Ritorno in patria” (1942) in Polonia.

Specialmente per questo ultimo il regista Gustav Ucicky prodigò tutti i suoi sforzi al fine di dimostrare che il popolo della Volinnia non chiedeva di meglio che d'essere ricuperato al Reich; ma fu sabotato ripetutamente durante le riprese, e il collaborazionista Igo Sym, direttore dei teatri di Varsavia per nomina di Goebbels, affiancatore di Ucicky per quella pellicola, cadde poco dopo sotto i colpi della Resistenza polacca.

Un altro film inquietante apparve nel '41 ad opera di Wolfgang Liebeneiner: s'intitolava “Io accuso” e sosteneva, su un esempio preciso, la validità dell'eutanasia, fondamento della politica di genocidio. La cosa più agghiacciante è che non si trattava di una ipotesi o di un sondaggio psicologico.

Ricorda Leon Poliakov che quando il film uscì “le soppressioni per eutanasia erano già segretamente in atto in Germania”, aggiungendo alcune notissime considerazioni sulla profonda logica interna tra eutanasia e sterminio.

Non è meno significativo che “Io accuso” venisse designato nel cosiddetto pradikat (il giudizio ufficiale dell'ufficio cinema tedesco) come “formativo per il popolo e di speciale valore artistico”. Ma c'è un ultimo dettaglio repellente che riguarda l'Italia, uno di quei punti oscuri che nessuno generalmente ricorda. “Io accuso” di Wolfgang Liebeneiner risultò tra i premiati alla mostra cinematografica di Venezia.

La mostra veneziana ritorna indirettamente in causa subito dopo, allorché Goebbels riorganizzò la Camera Internazionale del Cinema, ormai forte di diciassette nazioni per lo più alleate o satelliti o occupate militarmente.

“Nostro scopo”... disse Goebbels in quell'occasione... “sarà di dare vita a una cinematografia europea che affermi la tradizione di cultura e civiltà dell'Europa che finalmente ritrova se stessa in un ordine nuovo”.

Ma in pratica nasceva soltanto l'impero cinematografico della UFA, sotto rigido controllo degli organi nazisti e con presupposti quasi colonialistici. A presidente nominale del neocostituito organismo fu eletto appunto il conte Volpi di Misurata, ideatore del festival veneziano. La rigorosa concentrazione economica, oltre che artistica, delle forze del cinema trovò ulteriore conferma nel 1942 “Il trionfo della volontà”, documentario di Leni Riefenstahl con la statalizzazione di tutte le società di produzione, distribuzione, noleggio, esportazione, esercizio, pubblicistica ed editoria cinematografica.


Il 1943 vide i festeggiamenti per il venticinquennale della Casa UFA, in una Berlino già semidistrutta dalle fortezze volanti e in un'atmosfera che non doveva essere dissimile dal festino nuziale che conclude “La caduta degli dei” viscontiana.

Liebeneiner, il regista di “Io accuso”, e Harlan, il regista di “Süss l'ebreo”, furono laureati “professori”.

Venne proiettato in anteprima “Il barone di Münchausen”. Ma il cavaliere che sapeva volare su una palla di cannone, in quel momento non riusciva a confortare nessuno.

Intanto Harlan aveva già cominciato a girare “Kolberg”, sulla disperata resistenza della cittadella che aveva tenuto testa a Napoleone. Doveva essere l'ultimo appello, l'arma segreta del cinema nazista per reinfondere coraggio al popolo.

Mancò allo scopo. Le poche proiezioni del film ebbero luogo all'estrema vigilia della disfatta, tra le macerie di Dresda, gli incendi di Danzica, l'avanzata dei carri sovietici. Già, nei Lager riaperti, i soldati americani del Film Service riprendevano con i loro obiettivi le orrende visioni dei morti e dei superstiti, che sarebbero state proiettate nelle aule del processo di Norimberga.

Hitler era morto nel bunker.

Goebbels si uccise venti ore più tardi, dopo aver praticato un'iniezione letale a ciascuno dei suoi sei figli.

L'attore Emil Jannings, membro del Senato della Cultura Tedesca, medaglia di Goethe, anello d'oro del Film Germanico, fu interdetto a vita dall'attività cinematografica.

Veit Harlan, processato ad Amburgo per “crimini contro l'umanità”, venne assolto con formula dubitativa.

La scampò anche Ferdinand Marian, uno strano e pittoresco attore, una specie di Osvaldo Valenti teutonico. Era stato protagonista di “Süss l'ebreo”, e Cecil Rhodes in “Ohm Krüger”.

Si mormorava di sue orge efferate nel crepuscolo nazista, con droghe e siringhe.

Il sette agosto 1946 percorreva il settore americano di Berlino in una auto lanciata a pazza velocità. Non si fermò al fischietto della Military Police. Un momento dopo era morto, falciato da una raffica di mitra.

I FILM DEL NAZISMO

Schiave bianche
Hitlerjunge Quex
Hans Westmar, uno dei tanti
Fuggiaschi
Giovanna d'Arco
Il figlio perduto
Vittoria della fede
Il giorno della libertà
Il trionfo della volontà
Olympia
Festa dei popoli
Il governatore
La squadriglia degli eroi
Sei ore di permesso
I Röthschild
Süss l'ebreo
Ohm Kruger, eroe dei boeri
Titanic
GPU
Uomini nella tempesta
Il vincitore
Nemici
Ritorno in patria
Io accuso
Il barone di Münchausen
Kolberg

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