“Io so cosa vuol dire non tornare, e attraverso il filo spinato, ho visto il sole scendere e morire, ho sentito lacerarmi la carne, le parole del vecchio profeta…”. Brano del 1946, tratto da “Il Tramonto di Fossoli” di Primo Levi, scrittore e chimico torinese ebreo imprigionato ad Auschwitz.
Gli anni bui, atroci e devastanti di una guerra dell’umanità contro l’umanità. Sei milioni di vittime. Uomini, donne, bambini. Sei milioni di morti che, ancora oggi, pesano sulle coscienze di tutti e, in molti casi, non hanno un nome.
Alsazia, rigogliosa regione francese al confine con la Germania. Teatro di battaglie, terra contesa dal Reich di Hitler e ospite dell’unico campo di concentramento nazista in Francia, se si escludono alcune strutture di transizione.
Nel piccolo e quieto villaggio di Natzweiler, nel Basso Reno, lungo una strada di montagna circondata da alberi secolari e innevati nella stagione invernale, lontano dal centro, lontano dal mondo, si presenta il campo di sterminio nazista Natzweiler-Struthof.
Qui, a 50 chilometri a sud ovest di Strasburgo, hanno perso la vita almeno dieci-dodicimila persone (secondo alcuni la cifra è più elevata). Molti sono stati impiccati, fucilati, ma la maggior parte ha accolto la morte come una liberazione dallo stato in cui erano costretti a sopravvivere.
Schiavi dei tedeschi, lavoravano senza sosta nella cava di prezioso granito rosa, poco distante dal campo, da estrarre per il trasporto in Germania.
Sempre qui, nella primavera del 1943, 86 ebrei, 56 uomini e 30 donne, sono arrivati dal tristemente noto campo di Auschwitz per essere assassinati nelle camere a gas di Natzweiler-Struthof, dove era in uso anche il forno crematorio.
Ottantasei ebrei sono finiti in queste camere affinché le loro ossa, i loro corpi, potessero garantire all’istituto anatomico universitario tedesco sufficienti teschi per la collezione antropologica delle diverse razze umane.
Oggi, questi 86 morti sono commemorati nelle menti di chi resta e in una targa posta nel cimitero ebraico di Cronenburg, un quartiere di Strasburgo.
La strada per raggiungere Natzweiler-Struthof è un susseguirsi di curve che, all’improvviso si arrestano dinanzi all’ingresso al campo. In questo luogo di morte, in questa necropoli moderna, tutto appare immobile. Ogni cosa è ferma. Talmente ferma che anche il vento si placa e la bandiera francese, innalzata nel campo, non sventola affatto. Resta chiusa, quasi invisibile.
L’accesso è semplice, solo un cartello di invito al silenzio perché questo luogo non vuole scalpore, non richiama clamore.
La nebbia sottile si eleva fino a celare le immagini del campo, le croci sotto le quali non c’è alcun corpo. Ordinate, in fila, le une accanto alle altre parlano senza voce. Urlano senza fiato. Tutto racconta, ma è un racconto taciturno. Si sente dentro, sulla pelle, nel cuore, negli occhi.
Il filo spinato circonda le baracche, la neve ricopre i viali e una eco di soffocate grida di dolore si avverte da tutte le direzioni, senza però provenire da alcun luogo. Tetro spettacolo che non è solo storia e mai lo sarà. Fantasmi si aggirano per il campo, accanto alle croci, al forno crematorio, alle postazioni di vedetta.
Solo pochi – ancora e sempre troppo pochi – anni fa si aggiravano a Natzweiler-Struthof ufficiali delle SS e prigionieri, soprattutto uomini, come in un girone dell’Inferno dantesco. Ai visitatori è offerta la possibilità di recarsi anche al recente museo del campo, dove apprendere, studiare, osservare, ma non capire. Capire lo sterminio non è cosa da uomini.
“Spingo vagoni, lavoro di pala, mi fiacco alla pioggia , tremo al vento; già il mio stesso corpo non è più mio: ho il ventre gonfio e le membra stecchite, il viso tumido al mattino e incavato a sera; qualcuno fra noi ha la pelle gialla, qualche altro grigia: quando non ci vediamo per tre o quattro giorni, stentiamo a riconoscerci l’un l’altro”. Da “Se questo è un uomo” di Primo Levi.
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