sabato 26 marzo 2011

ALESSANDRO CANESTRARI

Alessandro Canestrari, nato a Udine nel 1915, residente a Verona.




 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

La testimonianza

Mi chiamo Alessandro Canestrari, nacqui a Marano Lagunare in provincia di Udine il 10 agosto del 1915. Mio padre era un ufficiale di Posta, mia madre fu l'unica ferita dal bombardamento aereo nei primi anni del 1900 subito dopo la dichiarazione di guerra.

Mi hanno arrestato il 20 dicembre del 1944, perché ero il comandante del battaglione Trainago che fondai; inoltre avevano il sospetto che fossi l'artefice dell'atto di sabotaggio nei confronti del Municipio, in quanto, con un gruppo di altri partigiani lo bruciammo per evitare il bombardamento aereo sullo stabilimento Italcementi. Il motivo di questo atto di sabotaggio, che mi fu richiesto dalla RYE - perché facevo parte anche della RYE - era perché lì, c'era un gruppo di tedeschi di una grossa divisione.

Allora i fascisti - le Brigate Nere, soprattutto l'UPI (Ufficio Politico Investigativo), la cui sede era presso l'ex caserma del Teatro Romano, dove fui prigioniero - ebbero sentore che il comandante dei partigiani fossi io. Naturalmente fui avvisato... Approfittai del fatto che avevo un fratello missionario comboniano e finii per due, tre giorni nella casa madre di Verona, nascosto dai padri comboniani. Sennonché, quando vennero a casa le Brigate Nere, non trovandomi, misero in prigione mia sorella Costanza, staffetta partigiana.

Mia sorella aveva una gamba rigida per un'operazione subita a quattro anni. Quando seppi che mia sorella era stata arrestata al mio posto, non vi dico il mio stato d'animo... Avevo rimorso... Mio padre, pur essendo antifascista, mi accusava... Questa faccenda di mia sorella... Quindi vagai un po' a Verona di nascosto; poi, una certa sera, preso dalla nostalgia di mia moglie e del bambino - mia moglie era giovanissima - tornai a casa. La seconda notte, alle due del mattino, buttarono giù la porta e mi arrestarono.

Mi portarono alle Brigate Nere, nella scuola Sanmicheli di Verona e il giorno dopo mi portarono al Giardino Giusti dove c'era il famoso criminale, il capitano Gradinigo delle Brigate Nere. Era il giorno 23 dicembre del '44... Mi disse Gradinigo "Questo è il più bel regalo di Natale!" e mi diede una dose di bastonate.

Da lì mi portarono alla sede dell'UPI dove subii un altro interrogatorio. Lì seppi che avevano ucciso il colonnello Giovanni Fincato. Dall'UPI finii al Forte San Leonardo, dove rimasi una settimana, quindici giorni. Dal Forte San Leonardo mi rivollero le SS e finii al palazzo dell'INA. Lì ci fu l'interrogatorio che... L'ho vista brutta... L'interrogatorio durò sette ore. Inavvertitamente, parlando, misi le mani sulla scrivania, il tenente tedesco con la stecca mi diede un colpo e mi disse "Educationen, Educationen!". Morale della favola: mi condannarono a morte.

Da Verona per raggiungere il campo sono partito con Perotti... Eravamo in un solo camion, stipatissimo... C'era anche il professor Perotti... C'erano tre SS sedute dietro, due sedute avanti col mitra puntato verso di noi.

Siamo arrivati al campo di Bolzano. Ci fecero denudare... Naturalmente eravamo pieni di parassiti... Scherzando, dicevo che c'erano pidocchi di varie qualità: alcuni avevano i baffi bianchi, altri i baffi rossi, altri i baffi neri... Eravamo pieni di parassiti. Ci denudarono, ci portarono via tutti i vestiti e ci diedero la tuta bianca. Non avevamo quella a strisce dei campi di concentramento nazisti ma la tuta bianca col triangolo rosso e il numero di matricola: il mio numero era 9586. Non ti chiamavano più per cognome, ti chiamavano col numero di matricola e quando non rispondevi ti davano un calcio di moschetto nei reni.

Nel periodo in cui siamo rimasti a Bolzano, nel Lager di Bolzano. C'erano anche dei religiosi deportati, c'era un certo Ghera, il frate di Baranna. Voi dovreste parlarne, perché l'arresto di Padre Corrado, dei frati che erano lì nel convento di via Baranna, è avvenuto perché avevano dato asilo a ebrei, a partigiani e perché assistevano gli antifascisti. Ne deportarono cinque o sei, mica lui solo; adesso ricordo Padre Corrado perché era con me alle carceri di Verona. C'erano anche tantissime donne, ce ne erano di bellissime... Io credo che fossero duecento o trecento dentro i fili spinati. Poi c'erano anche degli ebrei... Alcuni ragazzetti ebrei presi a calci dalle SS, gettati a due metri di distanza, li ho visti io con i miei occhi.

In fondo al campo c'erano le celle della morte, e da lì uscivano le grida dei torturati... Direi che ogni giorno abbiamo sentito grida di dolore e di disperazione.

Durante la Pasqua del '45 venne Monsignor Piola a celebrare la messa, e lì fummo assolti in articolo mortis. Ci chiese "Chi vuol fare la comunione, alzi la mano!", poi lui pronunciò la formula "Avvalendomi della facoltà di Santa Romana Chiesa, ego vos absolvo a peccatis vostris"... Ci diede l'assoluzione e facemmo la comunione.

Monsignor Piola poi è quello che ha intimato la resa ai tedeschi il primo maggio, perché c'era l'ordine di Hitler di uccidere i prigionieri politici, tant'è vero che io, facendo parte del comitato di liberazione, come ex ufficiale dell'esercito, ero incaricato di organizzare una certa difesa qualora avessero proceduto all'ordine di Hitler. Invece venne in tempo Monsignor Piola, almeno ci dissero questo, intimò la resa e volle gli elenchi di tutti i prigionieri.

Noi partimmo in fretta... Talmente in fretta... Eravamo circa quattromila persone, sfondammo la sbarra di legno del campo... Tutti fuori... Eravamo liberi.

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