sabato 3 dicembre 2011

Oreste Parma

Unico sopravvissuto lissonese del lager di sterminio di DORA


" Ti hanno dato un nome di donna, Dora.
Avresti dovuto rasserenare le fronti affaticate.
Ti hanno dato un nome di donna, Dora,
per ingannarci ancora una volta.
Tu eri, Dora, una donna di pietra.
Migliaia e migliaia ti son morti tra le braccia,
migliaia ti hanno maledetta,
il tuo respiro era gelido,
il tuo sorriso era di ghiaccio
e il tuo bacio avvelenato. "

Stanislas Radimecki
Deportato ceco


 
 
 
Nato a Lissone il 7/06/1919, morto a Lissone il 25/06/1988.


Arruolato come soldato nell’Artiglieria, all’inizio della II guerra mondiale fu inviato prima sul fronte francese poi su quello greco-albanese. Quando arrivò l’8 settembre 1943 era di presidio nelle isole Cicladi, avendo l’Italia l’occupato la Grecia.

Nella tarda serata dell’8 settembre 1943 cominciò a circolare la notizia, non controllata e attinta non si sapeva bene da quale fonte, che un armistizio era stato concluso fra l’Italia, l’Inghilterra, l’America e la Russia. La situazione si presentava oscura, greve di incognite.

I tedeschi diedero il via all’operazione “Achse”; il piano mirava a neutralizzare le forze italiane dislocate nel mare Egeo. L'irresolutezza e la contraddittorietà dell'atteggiamento dei comandi furono alcuni dei motivi che determinarono la caduta del presidio di Rodi e dell'intero Egeo, dove pur non mancarono ufficiali capaci e coraggiosi che seppero prendere l'iniziativa e battersi con accanimento.

Una direttiva tedesca del 15 Settembre 1943 per il trattamento degli appartenenti alle Forze Armate italiane precisava con frase lapidaria: “chi non è con noi, è contro di noi”.

I militari italiani dovettero scegliere: con o contro i tedeschi, dividendosi in due gruppi. La decisione fu unanime, tutti si schierano contro.

Disarmati, come prigionieri vennero portati in nave al Pireo, il porto di Atene da dove iniziò il lungo viaggio verso i campi di concentramento in Germania su vagoni ferroviari piombati.

L’obiettivo di Hitler era quello di eliminare dallo scacchiere della guerra uomini che, eventualmente schierati sul fronte opposto, avrebbero potuto creare problemi alle sue armate e, nello stesso tempo, recuperare braccia da impiegare nell’industria tedesca.

Inizialmente considerati “prigionieri di guerra”, la loro qualifica mutò presto in “IMI internati militari italiani”.

Oreste Parma fu in quella frazione di internati militari che finì, con percorso anomalo, in un Lager KZ (da Konzentrationslager = campi di concentramento per prigionieri politici) anziché nei campi di concentramento e detenzione per IMI.

Il nome del lager in cui venne rinchiuso era Dora. Dora non è un nome di donna, come si dice nella poesia, ma la sigla delle parole Deutsche Organisation Reichs Arbeit, dove rimase per circa 20 mesi. Le condizioni dei deportati erano particolarmente dure, per il troppo lavoro, per la cattiva alimentazione, e per le percosse a cui spesso erano sottoposti.
Durante i 20 mesi trascorsi nel Lager di Dora, a causa del suo deperimento fisico dovuto alla scarsa alimentazione, Oreste Parma rischiò anche di essere fucilato non avendo prontamente risposto agli ordini di un Kapò. Destino volle che, a differenza di Aldo Fumagalli, un altro lissonese morto a Dora, Oreste riuscisse a tornare nell’agosto del 1945 a Lissone.

Il campo di Dora

“ Si trovava a 5 chilometri da Nordhausen, alle pendici del Harz nella Turingia.

Ciò che avveniva nel Hartz, al centro della Germania, veniva tenuto assolutamente segreto, tanto che per un raggio di 50 chilometri tutt'intorno, occorreva uno speciale permesso per transitare.

Non so quale fosse stato il criterio per la scelta della località, ma credo che i tedeschi la ritenessero particolarmente sicura, e infatti, durante tutta la mia permanenza, non una bomba colpì mai la zona.

Nell'ottobre 1943 il campo si presentava come una vallata disboscata con grandi sbancamenti di terreno per tracciare strade e spiazzi dove costruire baracche.

Il perimetro del campo era recintato con pali in cemento collegati fra loro da filo spinato e alimentato da corrente elettrica ad alta tensione. All'interno della recinzione, a distanza di qualche metro fra loro, dei paletti recavano cartelli segnalanti il pericolo di morte.

Fuori dal recinto erano montate le garitte alte circa 10 metri per i militi SS di guardia, armati di mitra. Potenti riflettori illuminavano a giorno il campo nelle ore notturne.

All'inizio il Dora era un sottocampo alle dipendenze di Buchenwald, ma alla fine dei lavori, nel '44, divenne campo principale con 7 sottocampi e 32 Kommandos di lavoro esterni. L’importanza, assunta nel tempo dal Dora, era dovuta al fatto che qui si costruiva la famosa arma segreta dei tedeschi, quella che secondo Hitler avrebbe determinato la vittoria nazista.


E’ evidente quindi l'importanza strategica·del Dora come fabbrica bellica; i deportati qui reclusi dovevano allestire le strutture abitative e i servizi minimi per la sopravvivenza dei lavoratori forzati e terminare la costruzione di un tunnel sotterraneo, dove alloggiare la catena di montaggio per i micidiali missili V1 e V2.


Il tunnel, a lavoro ultimato, si presentava come un piccolo paese sotterraneo e consisteva in due grandi gallerie parallele lunghe circa due chilometri, collegate da 52 gallerie trasversali. In queste ultime erano posti i poveri giacigli dei detenuti addetti alla costruzione, che potevano restare per settimane in quella tomba senza vedere la luce del sole.

Dati risalenti al 25 marzo 1945 riportano un numero di 34.521 prigionieri internati, appartenenti a 17 nazionalità diverse.

Ogni internato, sulla casacca a righe, portava il proprio numero di matricola ed un triangolo diversamente colorato per distinguere la categoria cui apparteneva.


Triangolo rosso per i deportati politici tedeschi
Triangolo rosso con la sigla della propria nazione, per i deportati politici stranieri (noi eravamo IMI, cioè Italiani Militari Internati e portavamo nei primi tempi al braccio una fascia tricolore)
Triangolo verde per i delinquenti comuni
Triangolo verde con S per i delinquenti comuni condannati all'ergastolo
Triangolo nero per gli asociali
Triangolo rosa per gli omosessuali
Triangolo viola per gli zingari
Triangolo azzurro per gli apolidi
Triangolo granata per i testimoni di Geova Stella gialla per gli ebrei
Triangolo giallo con sovrapposto triangolo rosso per gli ebrei detenuti politici.

Nel progetto nazista quindi, il campo Dora aveva più funzioni; se lo scopo primario era la costruzione dell'arma segreta, non si rinunciava comunque allo sterminio dei "diversi" dalla razza ariana, al lavoro forzato dei condannati di reati comuni, all'eliminazione degli avversari politici, alla sperimentazione medica su cavie umane.

.. inquadrati, in divisa, come forza lavoro se adatti …


E' questo un esempio "luminoso" di razionalità ed organizzazione, dove tutto è calcolato tranne una cosa: il valore della vita umana.”


Nel 1975 alcuni superstiti di Dora iniziarono a trovarsi a Salsomaggiore.


Nel 1984 il Presidente della Repubblica Sandro Pertini, con l’allora Ministro della Difesa Giovanni Spadolini, conferì ad Oreste Parma il Diploma d’Onore di Combattente per la Libertà d’Italia.



Inoltre, nel 1984, vi fu un riconoscimento da parte del governo tedesco.



Nel 40° anniversario della Liberazione, l’associazione Nazionale Combattenti e Reduci di Lissone, Presidente Fortunato Arosio, e l’Amministrazione Comunale, Sindaco Angelo Cerizzi, consegnarono una targa d’argento come “Onore al merito” “all’ex combattente deportato politico ORESTE PARMA unico sopravvissuto Lissonese del lager di sterminio di DORA-BUCHENVALD”.


Il fazzoletto che Oreste Parma indossava alle celebrazioni del 25 aprile, a cui non mancava mai, e ai raduni dei superstiti del lager di Dora a Salsomaggiore dove esiste il monumento al deportato.

Bianca e azzurra era la casacca a righe che indossavano i reclusi nel lager. Il triangolo rosso con l’iniziale della nazione di appartenenza contraddistingueva gli italiani.

Oreste Parma è morto il 25 giugno 1988, all’età di sessantanove anni, nella sua casa di Via San Carlo a Lissone.

Oreste «Non ha più avuto una vita normale; non ha mai potuto dire che tutto andasse bene … »
Come dice Shlomo Venezia, un altro sopravvissuto ai lager, « tutto mi riporta al campo qualunque cosa faccia, qualunque cosa veda, il mio spirito torna sempre allo stesso posto … non si esce mai davvero …

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