venerdì 9 dicembre 2011

" I volenterosi alleati di Hitler "


Nell’Europa della Shoah gli ebrei, se appena lo potevano, cercavano di raggiungere un Paese o una regione ove la persecuzione antisemita fosse meno grave. Questa è la storia di come la fuga di 51 di essi si concluse tragicamente, con una corresponsabilità italiana. Il fatto fu subito attestato dalla storiografia jugoslava (scarsamente ripresa in Italia); ma la sua ricostruzione particolareggiata è risultata possibile solo ora, grazie all’estesa ricerca storico-documentaria della Fondazione Centro di documentazione ebraica contemporanea sulla condizione degli ebrei in Albania durante l’occupazione italiana, ricerca finanziata dall’assessorato al Mediterraneo della Regione Puglia.

Siamo nei mesi successivi all’invasione della Jugoslavia (aprile 1941). La Serbia è occupata dai tedeschi; sotto essa, il Kosovo è occupato dagli italiani e annesso al regno di Albania assoggettato ai Savoia. A Nord i nazisti sviluppano immediatamente una durissima azione antiebraica e già in autunno procedono all’uccisione sistematica degli uomini (in quei mesi il Terzo Reich attua in Serbia una persecuzione più estrema che in Polonia). A Sud gli italiani introducono poche norme persecutorie. In parte per via delle impervie montagne occidentali e della parallela persecuzione in atto oltre esse in Croazia, in parte per via della presenza di una antica comunità ebraica a Pristina in Kosovo, vari ebrei di Belgrado, serbi o profughi dell'Europa fuggono i nazisti e oltrepassano il confine meridionale. In autunno 1941 il flusso sembra intensificarsi; vi sono tracce di un canale organizzato. E' testimoniato l'utilizzo di lasciapassare italiani (originali o falsi?) emessi a Belgrado. Il 25 novembre il Servizio informazioni militari diffonde un'informativa molto preoccupata sull'arrivo di questi "elementi indesiderabili", a suo parere allontanati dai tedeschi. ll govemo albanese e la luogotenenza italiana si consultano sulla decisione di espellerli. ll ministero dell'interno di Tirana e i carabinieri italiani intensificano la vigilanza e i respingimenti alla frontiera. li 19 gennaio 1942 la comunità ebraica di Pristina descrive all'organizzazione ebraica italiana di soccorso Delasem i profughi «così indecisi ed inquieti per l'avvenire». A metà febbraio l'ufficiaie italiano di collegamento presso il comando tedesco di Belgrado comunica ai comando militare italiano in Albania che i tedeschi chiedono la consegna dei fuggitivi, accusandolidi disporre di «ingenti mezzi finanziari» e di finanziare «nuclei comunisti et ribelli in Serbia ci anche elementi antitaliani in Albania». Il comando italiano invia a Belgrado il tenente colonnello dei carabinieri Andrea De Leo. Nel frattempo la presidenza del Consiglio albanese si orienta sembra autonomamente a favore della consegna. L11 marzo De Leo relaziona sui colloqui avuti a Belgrado con autorità tedesche (e ràppresentanti italiani); comunica di aver concordato la consegna dei profughi ebrei e di aver già organizzato quella di un «primo gruppo». Egli stesso dirama il 13 marzo un nuovo ordine di arresto di quelli giunti in Kosovo e il 15 dispone la consegna alla polizia tedesca di «un primo contingente». Questa viene effettuata il 17: sono 51 uomini, donne, bambini (Judit Barta è del 1932). Proprio a marzo i nazisti iniziano l’uccisione, per mezzo di camion con tubi di scarico modificati, dei maschi restanti (anziani e minori) e delle femmine, in gran parte rinchiusi nel campo di Sajmiste. Non è stata reperita documentazione sull’uccisione dei 51; ma alla fine di quella primavera il Terzo Reich in Serbia non detiene più ebrei viventi.

Dopo la consegna del 17 marzo accade qualcosa e i circa altri 100 ebrei profughi da Belgrado a Pristina e Prizren non vengono più consegnati, bensì trasferiti nella «vecchia» Albania. Il nuovo ordine è del ministro dell’Interno albanese. Possiamo ipotizzare che il suo presidente del Consiglio consentisse, ma al momento ciò non è documentato. De Leo comunica al prefetto di Prizren che anche essi debbono essere consegnati, il prefetto lo riferisce al ministro e il 16 aprile gli risponde risolutamente di osservare solo gli ordini del suo superiore (ossia del ministro stesso). A quella data probabilmente né gli italiani né gli albanesi erano a conoscenza dei camion e del gas, ma non si poteva non sapere dell’eccidio di tutti gli uomini e delle prime donne e non era difficile antivedere il destino dei restanti. Io propendo a ritenere che siano stati gli ebrei della comunità di Pristina— sorpresi e poi disperati per la prima rapida consegna — ad allertare le autorità sul destino dei consegnati: sicuramente quelle albanesi, forse anche quelle italiane. I documenti reperiti attestano che alcune delle prime dettero infine ascolto e risposta a quella disperazione, alcune delle seconde no. Certo è che la decisione e l’attuazione della consegna dei 51 furono italiane e non albanesi.

Nessun commento:

Posta un commento