sabato 4 agosto 2012

Olocausto e best seller: poco attendibile la testimonianza di Denis Avey

Denis Avey ai tempi dell’internamento nel lager

Auschwitz. Ero il numero 200543, l’opera di Denis Avey (con Bob Bromby) è da alcune settimane al vertice della classifica delle vendite (settore saggistica) in Italia, dopo aver ottenuto ottimi riscontri sul mercato britannico.

Il testimone, oggi novantaduenne, racconta di essersi arruolato nel 1939 nell’esercito britannico e di avere combattuto in Africa, nell’area compresa tra l’Egitto e la Libia, contro i nazifascisti. Catturato, venne trasferito in Italia e successivamente in un campo di prigionia nei pressi di Auschwitz.

Si tratta del campo E 715, dove furono internati prigionieri di guerra inglesi, utilizzati nella costruzione di una fabbrica, la Buna, che doveva servire alla produzione di gomma sintetica. Nel cantiere lavoravano anche prigionieri ebrei, provenienti da un vicino campo di concentramento, quello di Buna-Monowitz (Auschwitz III).

Il trattamento riservato a questi ultimi dalle SS e dai kapò era assai peggiore rispetto a quello concernente i prigionieri inglesi, sottoposti alla sorveglianza di soldati della Wehrmacht. «Noi non eravamo destinati allo sterminio, loro sì», scrive Avey. (pag. 140).

La testimonianza del prigioniero inglese non riguarda solo le difficili condizioni di lavoro nel cantiere di Buna, ma si estende anche alle condizioni di vita all’interno del campo di detenzione degli ebrei (Auschwitz III).

Avey dichiara, infatti, di avere attuato uno scambio di identità con l’ebreo olandese Hans e di essere disceso per due volte nell’inferno di Auschwitz III al fine di poter documentare «dall’interno» il processo della soluzione finale («Nella mia mente prese forma l’idea di prendere il suo posto. Solo così avrei potuto rendermi conto di persona di quanto stava accadendo», pp. 166-167).

Il successo commerciale del libro è in gran parte legato a questa testimonianza dal luogo infero, come ben evidenziato anche dalla copertina dell’edizione di lingua italiana: «Era il 1944. Sono entrato ad Auschwitz di mia volontà».

Denis Avey oggi, a 92 anni.


Analizziamo il valore di questa testimonianza. Nella prefazione al libro lo storico Martin Gilbert afferma che il gesto di Avey «ci permette di gettare una luce inedita su uno degli angoli più oscuri del regno delle SS» (pag. 8).

In realtà, i dati informativi forniti dal prigioniero inglese sono già noti da tempo e tutti reperibili nel libro, che Avey sembra conoscere, di Primo Levi «Se questo è un uomo»: il rientro degli ebrei dal cantiere di Buna, la scritta sopra il cancello «Arbeit macht frei», l’impiccato, l’appello, l’orchestra dei prigionieri, il Krankenbau, la Frauenhaus, la zuppa serale a base di cavolo, il fetido dormitorio, la colazione a base di pane nero, la marcia mattutina verso il cantiere.

Non c’è nulla di nuovo, nulla di inedito in ciò che Avey scrive. Si consideri, poi, che la duplice rischiosissima incursione ha richiesto la complicità di due prigionieri inglesi (Bill Hedges, Jimmy Fleet), dell’ebreo olandese Hans (il soggetto dello scambio), di un ebreo tedesco, di un ebreo polacco e del kapò del kommando di appartenenza di questi ultimi.

Sei persone in tutto: quattro rimaste anonime e i due inglesi che, essendo, a quanto pare, deceduti, non hanno potuto fornire alcuna conferma al racconto di Avey.

L’unica voce narrante è quella del militare inglese, che si offre nel segno del «prendere o lasciare». Confrontata con quella autorevolissima di Primo Levi, tale voce appare per di più assai flebile: nessun dato circostanziato, nessun nome identificativo di aguzzino o di vittima («Non sono nemmeno sicuro che Hans fosse il suo vero nome, ma io lo chiamerò così», pag. 157; «Non chiesi mai ai miei complici il loro nome», pag. 183 ; «Cercai di memorizzare i nomi dei kapò e delle SS, senza riuscirci», pag. 185).

A questo punto, tenendo conto sia dei corposi impedimenti alla realizzazione della duplice incursione sia del contenuto scontato e generico del racconto, risulta difficile, per non dire impossibile, dare credito a tale testimonianza.

Del resto, l’autore appare inaffidabile anche in relazione ad un altro passaggio drammatico della sua esperienza militare: quello dell’inabissamento nel 1941 della nave Sebastiano Venier che trasportò da Bengasi verso l’Italia Avey e altri prigionieri: colpita da un siluro, la nave «colò a picco con tutto il suo carico di uomini intrappolati dentro» (pag. 114).

In realtà, come accertato anche dal coautore Bob Bromby, la nave raggiunse la costa greca e tutti i prigionieri si salvarono (pp. 301-304).

La vicenda della Shoah con i suoi milioni di morti è una cosa terribilmente seria, che è stata documentata con circostanziati racconti da aguzzini e da vittime superstiti.

I confusi (inverosimili) ricordi di un ex-militare novantaduenne, ancorché ricevuto con tutti gli onori il 10 gennaio 2010 dal premier Gordon Brown al n. 10 di Downing Street e inserito nell’elenco dei ventisette inglesi «eroi dell’Olocausto», non servono alla causa (nobilissima) dell’accertamento della verità storica.





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