sabato 10 settembre 2011

Storie e interviste: Il dolore di Alfonso

Intervista a un reduce dai campi di concentramento nazisti. Una storia drammatica che riesce a parlare di vita e di speranza

Padre nostro che sei nei cieli, sia santificato il tuo nome, venga il tuo regno, sia fatta la tua volontà…" Era notte fonda ormai a Buchenwald e dentro uno stanzone buio uomini italiani si preparavano alla morte come gli era stato insegnato fin da piccoli, pregando. Ma la preghiera era appena mormorata, sussurrata piano, intervallata da piccoli pianti e soffocati gemiti. La paura ormai era la sola padrona di quei corpi e non permetteva alla preghiera di riaccendere la speranza. Tutto era stabilito e a questo punto non si poteva tornare indietro. Gli ufficiali del campo avevano deciso: “Dovevamo morire, eravamo già stati tutti interrogati e condannati. A breve ci avrebbero portato nel triangolo della morte e da lì non saremmo più tornati indietro”. Triangolo della morte. E’ così che Alfonso Lusini (30-06-1922) chiama il luogo in cui i prigionieri del campo di sterminio di Buchenwald hanno cessato la propria esistenza. Quella notte Alfonso non dormì. La pioggia cascava violentissima ed il freddo dell’autunno tedesco si faceva sentire. La morte gli stava correndo dietro e l’aveva quasi raggiunto. Dormire era il suo ultimo pensiero. I ricordi erano tanti, forse troppi per riuscire a focalizzarne uno per intero. Si sentiva confuso. La sua casa, i parenti, gli affetti erano lontani ed il loro ricordo lo ubriacavano di tristezza. Lontana era la Toscana, il Casentino e lo scorrere della vita contadina di Chiusi della Verna, paese natale d’Alfonso. L’ultima volta vi era stato dopo l’otto settembre 1943, data in cui il Gen. Badoglio annunciava l’armistizio per “l’impossibilità d’impari lotta” con le forze armate anglo-americane. Per il bersagliere Lusini Alfonso, impegnato sul fronte bellico italo-francese, e per la stragrande maggioranza dei soldati italiani, tutto ciò significava fine della guerra e rientro nelle proprie case. Ritornati in patria alcuni continuarono a combattere la guerra di liberazione come partigiani, altri continuarono a credere nell’idea fascista e si arruolarono a Salò ed altri ancora, la parte più consistente, decisero di riporre definitivamente le armi per iniziare da dove avevano lasciato prima della guerra. Si dichiararono e li chiamavano “sbandati”. Anche Alfonso scelse la strada degli “sbandati”: “Ai partigiani, o ai fascisti mi dichiaravo sbandato”. La nostalgia dell’amato paese era più forte di qualsiasi ideale. Ebbe poco tempo però per gustarsi l’affetto dei cari. Pochi giorni dopo il rientro, una pattuglia di partigiani irruppe in paese ed in un agguato uccise un soldato tedesco. Era il tredici giugno 1944. La rappresaglia tedesca fu molto dura. Il giorno seguente l’attentato partigiano un reparto dell’esercito tedesco scese in paese ed uccise nove uomini ed una suora. “Ad ogni soldato ucciso i tedeschi fucilavano dieci italiani”. Tra gli uomini uccisi c’era anche il padre d’Alfonso, Pietro, trucidato davanti al portone di casa. Finita la rappresaglia, il reparto tedesco iniziò il rastrellamento per il paese in cerca degli sbandati o dei disertori dell’ormai ex esercito italiano. Alfonso aveva un’unica strada da percorrere: la fuga. Scappò, quindi, e si diede alla macchia con l’animo impaurito per la minaccia tedesca ed il cuore straziato di dolore per la morte del padre. “Scappai, corsi per diversi chilometri e mi rifugiai dentro il bosco della Croce di Sarna”. Non era solo in quel bosco. Altri “sbandati” della zona si rifugiarono in quel luogo. Le speranze di salvezza s’infransero il mattino seguente, quando un reparto dell’esercito tedesco, padrone del territorio, circondò la boscaglia intimando i fuggiaschi ad arrendersi. Uscirono tutti con le mani alzate. Alfonso e gli altri uomini furono presi e caricati nei camion. Partirono e furono portati a Peschiera del Garda, la prigione militare italiana nel frattempo caduta sotto il controllo tedesco. Lì rimasero per sette giorni. Poi una nuova partenza. Stavolta in treno. Una locomotiva seguita da vagoni con le sbarre ai finestrini. Una prigione che si muoveva sui binari. Alla stazione di Gorizia erano in molti: partigiani, ebrei italiani e poi loro, gli “sbandati”. Uomini, donne e bambini. Tutti ammassati ordinatamente. La paura soffocava qualsiasi altra emozione. Un silenzio assordante regnava nella stazione. Un silenzio rotto solo dalle urla, dalle bastonate e dagli spari di qualche soldato tedesco. Arrivato il treno, i soldati cominciarono a spingerli all’interno dei vagoni. “Nel mio vagone eravamo quarantadue. Eravamo talmente stretti che non c’era lo spazio neanche per sedersi. Quando ci fermammo la prima volta delle donne impietosite ci tirarono dell’acqua attraverso le sbarre. Eravamo così assetati che iniziammo a leccarci l’un l’altro. I più vicini ai finestrini leccavano le sbarre. Un vecchio vicino a me non resistette. Si accasciò e morì”. Era il ventisette giugno 1944. Tre giorni dopo arrivarono in Germania nel campo di concentramento di Dachau, vicino Monaco. Dachau fu costruito dai nazisti nel 1933, dapprima come centro di rieducazione politica (è in questo campo che per la prima volta in Germania si sperimenta la “fisica dell’anima”), poi si trasformò in un vero e proprio campo di sterminio. Appena arrivati i prigionieri si disposero al centro del campo. Cominciò l’appello. Ore e ore di domande, i nomi, e di risposte, i vari si o presente, diversi da uomo ad uomo, da lingua a lingua. La monotonia del gesto, a volte, era interrotta dalle urla dei soldati tedeschi rivolte a chi non aveva sentito il proprio nome o a chi lo aveva sentito ma sopraffatto dalla paura era incapace di pronunciare un facile ma terrificante si. Gli ebrei udito il proprio nome dovevano rispondere e fare un passo in avanti. Finito l’appello, i soldati fecero spogliare i prigionieri. Una volta nudi, una schiera di dottori li visitò uno ad uno. Il responso del medico era fondamentale per la vita dei detenuti. Chi non passava la visita era più vicino alla morte. Alfonso era giovane, con il fisico energico. I medici lo passarono. Terminate le visite dovettero lavarsi. Gli fu consegnata la tenuta da prigioniero e una catena da portare al collo con una piastra metallica, “La piastrina della morte”, ed un tesserino con, in un lato, la foto del prigioniero, e nell’altro, i dati anagrafici. Sia la piastrina che il tesserino erano numerati. Fu loro assegnato il posto letto all’interno di grandi baracconi di legno. Erano tutti uomini. Alle donne ed ai bambini spettava un’altra parte del campo ben divisa da quella dei padri o dei fidanzati. Così passò il primo giorno a Dachau per Alfonso che vide i primi morti dei campi, le bastonate, gl’insulti, le umiliazioni. Per la prima volta vide il proprio terrore in faccia agl’altri. Per la prima volta vide un’ordinaria efficienza nell’amministrare il dolore, la morte, l’assurdo. “Dentro il campo facevamo di tutto, dal lavoro nella cava fuori dei recinti, al caricare i corpi dei morti nei nastri dei forni crematori”. I nastri che portavano ai forni erano sempre in movimento. La morte nel campo era di casa. “Le persone morivano in continuazione, di fame, di stenti, di fatica oppure i più direttamente uccisi dai soldati. Per gli ebrei non c’era alcun rispetto né pietà. Per gli altri, come me, un minimo di umanità la mostravano. Poca cosa in ogni modo. Non era ammessa la pietà”. Dopo un mese Alfonso fu trasferito a Buchenwald nelle vicinanze di Weimar. Buchenwald fu costruito nel 1937. La prerogativa del campo era lo sterminio per mezzo del lavoro. Alla tenuta dei prigionieri era annesso un triangolo colorato. Il colore indicava il motivo per cui la persona era detenuta nel campo. Alfonso, catturato come soldato italiano, gli era sta assegnato il triangolo rosso, quello che contraddistingueva i prigionieri politici. “Buchenwald era infernale. Peggiore di Dachau. Il lavoro era massacrante e guai a fermarti”. Malnutriti, picchiati, umiliati fino a quando c’erano residui di forze. Una volta finite, il triangolo della morte finiva l’opera, ed il nastro aveva un ospite in più da portare verso l’unica via d’uscita del campo. Alfonso continuava a perdere chili. La fame accompagnava tutti e sempre. Così lavorare la terra fuori le recinta del campo a volte significava cibo. Per lo più rape marce che un contadino tedesco gettava dentro una fossa di letame vicino alla cava dove lavoravano i deportati. “Ci avvicinavamo al letame e prendevamo quelle rape marce e maleodoranti. Le mettevamo sotto la tenuta, poi le mangiavamo la sera. L’ufficiale addetto all’ispezione della nostra palazzina, insospettito dal puzzo, riuscì a trovarcele, ma non prese nessun provvedimento. Forse s’impietosì”. Ben presto però Alfonso fu colpito da un’infezione alimentare. Il proprio corpo fu invaso da ripetute emorragie. Una soldatessa tedesca, che conosceva l’italiano si accertò delle condizioni di Alfonso. La soldatessa sapeva l’italiano perché era fidanzata con un fiorentino che aveva intenzione di sposare appena finita la guerra. L’uomo abitava in Via Masaccio. Alfonso allora inventò alla tedesca che anche lui viveva a Firenze e che anche lui abitava in Via Masaccio. Le parole d’Alfonso suonarono familiari all’interprete donna suscitando verso di lui una certa simpatia. Lo portò in infermeria e lo fece curare salvandolo da morte sicura. I rapporti tra i due non finirono qui. Fu, infatti, proprio la donna che, una volta dimesso dall’infermeria, aiutò Alfonso a scrivere un telegramma a casa. Telegrammi che Alfonso aveva già scritto ma che non sarebbero mai arrivati a destinazione per le troppe verità descritte. Telegrammi che dovevano essere composti tassativamente da tredici parole, compreso l’indirizzo, con l’obbligo di non menzionare mai il luogo in cui si trovava il prigioniero. La donna così dettò il testo ad Alfonso: “Sto bene e sono con una bella bionda”. Il telegramma arrivò a destinazione nel Natale del ’44. Il postino del paese lo consegnò al parroco che lo lesse in chiesa ed esclamo: “Fonzio è vivo”. L’emozione improvvisa fece perdere i sensi alla madre d’Alfonso che svenne. La vita dentro il campo continuò sempre così, con l’odore della morte sempre alle costole. Fino a quella sera. L’indomani a lui sarebbe toccato il nastro verso il forno. Continuava a pregare il suo Signore, ma era troppa la paura. Poi una voce: “Ragazzi lo vedete che nei reticolati intorno al campo non passa corrente. Guardate piove eppure neanche una scintilla. Deve essere un corto. Dobbiamo approfittarne”. Era un italiano, elettricista. Condannato a morte come Alfonso. Alfonso notò che aveva ragione. I reticolati non scintillavano come di solito facevano nelle notti di pioggia. La speranza iniziò a diffondersi nella palazzina. L’unica opportunità di rimanere ancora in vita ed uscire da quell’inferno andava sfruttata fino in fondo. Da perdere c’era solo una vita che sicuramente sarebbe finita qualche ora più tardi. Convinti anche i più scettici uscirono dalla palazzina. Attraversarono il campo, cercando di fare meno rumore possibile. L’azione non dava spazio ad errori. Si avvicinarono ai reticolati. Mentre i più facevano la guardia l’elettricista si accertò che la corrente fosse saltata. Aveva ragione, non passava corrente. Iniziarono a scavalcare i reticolati. La speranza di salvezza e la libertà a pochi metri ridiedero energie ai prigionieri. La fame, la sete, la frustrazione, erano sparite. Alfonso però era debole, la malattia alimentare lo aveva fortemente provato. Così i compagni lo alzarono di peso e lo passarono agli altri dall’altra parte del reticolato. Una volta usciti tutti cominciarono a correre sotto la pioggia e si diressero verso il bosco vicino al campo. Entrarono nel bosco. Il freddo pungente e la forte pioggia si rilevarono un ulteriore ostacolo verso la salvezza. Il bosco era molto fitto e l’oscurità non permetteva il proseguo del cammino. La paura di perdersi e di ritrovarsi nella stretta dell’aguzzino era tanta. Così si fermarono. Il terrore riprese il sopravvento degli evasi che nuovamente si rifugiarono nella preghiera. Crisi di pianto toccarono un po’ a tutti. L’incertezza delle ore da venire spaventava a morte quegli uomini. La notte la passarono tutti svegli sotto un’incessante pioggia. Alle prime luci del mattino ripresero il cammino e si diressero verso il fronte. Sentivano chiaramente le cannonate. L’esercito degli alleati era ormai entrato in Germania. La fine della guerra era ormai imminente. Attraversarono il bosco e s’incamminarono seguendo sempre lo squasso dei cannoni. Il rumore era sempre più vicino. Il rumore della morte per loro era la musica della salvezza, della libertà, della vita. Ma prima di tutto ciò c’era d’attraversare un ponte di legno con un soldato tedesco a farne la guardia. I fuggiaschi, gli ex deportati, guardarono il soldato. Lui fece cenno di passare, con la mitraglietta. “Attraversai quel ponte con la schiena ricurva in dentro sicuro di una sventagliata di mitra da parte del soldato tedesco”. Invece il soldato tedesco li fece passare nel suo ponte. “Non fece una mossa, e tutti avevamo la piastrina al collo”. La guerra forse era finita anche per lui. Di sicuro finì per Alfonso ed i suoi compagni di fuga, che riuscirono ad arrivare il fronte degli alleati. Gli anglo-americani, una volta raccolti, li affidarono ad un campo della Croce Rossa. Un mese e mezzo dopo, Fonzio era di nuovo a casa.

Nessun commento:

Posta un commento