Il 27 gennaio 1945 le truppe sovietiche entrarono nella città di Auschwitz, scoprendone il campo di concentramento; ne abbatterono le mura e liberarono i superstiti che vi erano rimasti, circa 7.000. Quella data viene ora adottata per celebrare il ‘Giorno della memoria”, per ricordare la fine della Shoah – cioè lo sterminio del popolo ebraico, a causa del quale si contano circa sei milioni di vittime, oltre agli uomini torturati e perseguitati – e conseguentemente la fine delle leggi razziali. In questa giornata, tra le molteplici iniziative sorte in tutto il mondo, è stato presentato a Roma il libro “E ho paura dei miei sogni” della professoressa Wanda Poltawska, polacca, laureata in Medicina, membro della Pontificia Accademia “Pro Vita” e del Pontificio Consiglio per la Famiglia. Wanda Poltawska, che per motivi di salute è stata sostituita alla presentazione dalla figlia Ania, fu deportata nel campo di concentramento di Ravensbruck all’età di venti anni, a causa delle sue attività nella resistenza polacca. Il suo non è il racconto di una persona matura, i cui ricordi sono annebbiati, ma quello di una persona giovane: Wanda, infatti, iniziò a scrivere le sue memorie non appena uscita dal campo di concentramento, dove rimase circa quattro anni. Una necessità impellente, quella di scrivere, poiché il ricordo del campo, durante la veglia e durante il sonno, non le dava pace. Riuscì finalmente a dormire senza incubi solo una volta terminato il suo ‘diario’.
In quei quattro anni Wanda, come le altre donne che erano nel campo con lei, furono sottoposte a trattamenti ed esperimenti pseudo-medici, che miravano a mutilare le persone. Tra loro, per richiamare il loro ruolo di cavie, usavano chiamarsi ‘coniglietti’ (ed un coniglio, infatti, campeggia sulla copertina del libro). “In un modo o nell’altro non ci aspettava che la morte”, scrive la Poltawska, che racconta, però, come la poesia, la bellezza del paesaggio - il cielo che potevano osservare durante l’appello giornaliero - e la solidarietà che nacque tra le deportate, erano gli unici motivi validi per riuscire a sopravvivere all’orrore, ed arriva a descrivere il ‘campo’ come una scuola di vita. Proprio in condizioni disumane come la sua, infatti, secondo Wanda, si arriva a capire chi si vuole diventare e quale strada si vuole seguire. “Poiché avevamo ormai la certezza di non tornare più, facemmo una cosa strana, scrivemmo il testamento legale”: in questo testamento, che fu ricostruito a memoria, poiché l’originale non fu più trovato, si predisponeva la fondazione di un centro, che effettivamente oggi sorge a Ravensbruck, e dove i giovani hanno la possibilità di incontrarsi e non dimenticare. Come ricorda a Fides la figlia Ania, che ha letto alcuni brani del libro segnalati e scelti dalla madre, “fino alla stesura del libro mia madre non ha mai parlato più di tanto dell’esperienza del campo, sono riuscita a sapere molti dettagli proprio dalla lettura del libro e ad avvicinarmi a questa esperienza”. Ed ha aggiunto: “Ora mia madre ne parla con più serenità, anche se molti particolari continuano ancora ad infastidirla, come le canzoni di Natale che le rimandano il pensiero a quei momenti per nulla felici”.
La stretta vicinanza con la morte e il dolore ha fatto di Wanda Poltawska una paladina della vita, come mostra il suo impegno costante contro l’aborto; una donna di grande fede e di vicinanza alla Chiesa, come testimonia la profonda amicizia con Giovanni Paolo II. La consapevolezza di quelle atrocità non deve estinguersi, e perché quell’orrore non venga dimenticato o addirittura scandalosamente negato, occorre trasferirne la memoria alle giovani generazioni. In questo messaggio è racchiuso lo scopo di questo volume, già tradotto anche in inglese e tedesco.
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