sabato 25 febbraio 2012

Franco, se i ta ciapa...


Ritratto di un ebreo di una certa età e quindi segnato da un’immane tragedia, rievocazione dell’olocausto ebraico attraverso una testimonianza straziante, riproposizione di domande scomode o imbarazzanti o angoscianti sul ruolo della Svizzera durante la seconda guerra mondiale? No: il ritratto proposto da Falò non rientra in alcuno di questi schemi. Pur sfiorandoli tutti. Già, perché Gianfranco Moscati, il protagonista della vicenda narrata dal settimanale di informazione della RSI, è – effettivamente – un ebreo italiano di una certa età, che però in Svizzera ha trovato rifugio, insieme a sua madre e ai suoi fratelli, sfuggendo quindi alla deportazione verso i campi di sterminio. La decisione di varcare il confine l’aveva presa lui, il più giovane della famiglia, subito dopo l’armistizio dell’otto settembre 1943, perché il suo datore di lavoro gli aveva detto, a proposito dei soldati tedeschi che calavano in Italia: “Francheto, se i te ciapa i te copa…” Una frase che, nella sua lapidaria concretezza, gli era sembrata fin troppo plausibile. E così, entrò in Svizzera scambiando gli abiti civili con la divisa di un soldato meridionale che voleva tornarsene a casa, finendo quindi nei centri di accoglienza destinati ai militari – ed evitando di chiedere di essere accolto come rifugiato in quanto ebreo. Furbizia? Fortuna? Fatto sta che, durante il suo soggiorno in Svizzera, il giovane Moscati divenne un provetto pelatore di patate. Fu solo a guerra finita che si rese conto della sorte toccata a molti degli ebrei che invece non erano riusciti a scappare o a nascondersi. Tornato in Italia, dopo la liberazione, entrò in contatto con i sopravvissuti dei campi di sterminio, che arrivavano a Milano e che, con l’aiuto delle organizzazioni ebraiche e internazionali, cercavano un luogo in cui ricostruirsi una vita. Moscati ne accompagnò un gruppo in Puglia, tra mille traversie. Successivamente, si stabilì a Napoli, dove trovò un buon lavoro, che gli garantì un’esistenza confortevole e gli permise anche di dedicarsi alla sua passione: il collezionismo. Cominciò a raccogliere, soprattutto, testimonianze della persecuzione degli ebrei, quella persecuzione che aveva risparmiato lui e la sua famiglia ma che aveva spezzato le esistenze tanti suoi conoscenti e sulla quale molti avrebbero preferito far calare un velo di oblio. Ha messo insieme un enorme catalogo dell’orrore: oggetti, documenti, lettere, fotografie, filmati. La sua collezione è ora esposta a Londra, all’Imperial War Museum.

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